CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza n. 36461 depositata il 13 dicembre 2022
Lavoro – Licenziamento disciplinare – Condotte oggetto di procedimento penale – Concorso in corruzione per atto dell’ufficio – Comportamenti tenuti prima dell’assunzione ma emersi in epoca successiva all’inizio del rapporto lavorativo – Rigetto
Fatti di causa
1. La Corte d’Appello di Salerno, confermando la sentenza di primo grado resa in ambito di rito c.d. Fornero, ha rigettato l’impugnativa del licenziamento disciplinare proposta da F.A. nei confronti dell’Agenzia delle Entrate.
La Corte d’Appello riteneva che la contestazione, concernente fatti antecedenti all’inizio del lavoro presso l’Agenzia ed effettuata con riferimento alle risultanze del processo penale di primo grado celebrato nei riguardi del ricorrente, riguardasse non solo la percezione di un compenso per lo svolgimento di una certa pratica presso l’INPS, ma anche l’associazione con altri (un impiegato INPS e una persona del patronato), al fine di ricercare potenziali aventi diritto a prestazioni previdenziali e di proporre loro la presentazione della relativa pratica, con successiva consegna della metà degli arretrati percepiti in caso di esito favorevole.
Riteneva, quindi, provati entrambi gli addebiti, valorizzando vari elementi della vicenda penale anche in relazione alla tematica associativa, chiusasi con la declaratoria di prescrizione del reato. La Corte territoriale riteneva pertanto che, rispetto ai fatti, non avesse rilievo determinante la riqualificazione di essi ad opera del giudice penale (da concussione a concorso in corruzione per atto dell’ufficio), stante la fondatezza del nucleo centrale degli addebiti e l’idoneità di essi, per quanto verificatisi prima dell’assunzione, ma scoperti dopo, ad intaccare il vincolo fiduciario, data anche la natura dell’attività dell’Agenzia delle Entrate.
2. F.A. ha proposto ricorso per cassazione con quattro motivi, mentre l’Agenzia delle Entrate è rimasta intimata.
Il ricorrente ha depositato memoria.
Motivi della decisione
1. Con il primo motivo F.A. denuncia la violazione e falsa applicazione degli artt. 7 L. 300/1970 e 1362 ss. c.c. (art. 360 n. 3 c.p.c.), nonché dell’art. 112 c.p.c., per difetto di corrispondenza tra chiesto e pronunciato e per mancanza di corrispondenza tra fatto cointestato e fatto dedotto nella motivazione della sentenza, in relazione anche agli artt. 521 e 522 c.p.p.
Nello sviluppo del motivo il ricorrente individua l’illegittimità della sentenza nell’avere essa pronunciato oltre i limiti della domanda, valorizzando fatti non dedotti nella contestazione disciplinare, così procedendo ad un’abnorme e indebita interpretazione di atti unilaterali e ponendo a base della decisione, stante anche la riqualificazione operata dalla Corte d’Appello penale, un addebito naturalisticamente e strutturalmente diverso da quello contestato.
2. Nella sentenza qui impugnata, la Corte d’Appello, rispondendo ad analoghe censure mosse verso la sentenza di primo grado, ha invece statuito che la contestazione ed il licenziamento, operati per relationem ai fatti materiali individuati fin dal primo atto e quindi, evidentemente, fin dalla contestazione, erano gli stessi di quelli già «oggetto del procedimento penale conclusosi con la sentenza» del Tribunale di Salerno.
Pertanto, avendo riguardato, quel processo di primo grado, non solo «la condotta in danno di A.T.», ma anche la partecipazione «ad un’associazione volta ad individuare e quindi indurre soggetti aventi diritto a prestazioni previdenziali a versare indebiti compensi per il favorevole esito delle relative pratiche», quelli ricaduti nell’ambito disciplinare erano sia i comportamenti associativi, sia la vicenda di ricezione di denaro per la pratica INPS da T.A..
In prosieguo, la Corte territoriale, con riferimento al reato di concussione, poi riqualificato dalla Corte d’Appello penale in corruzione per il compimento di atti dell’ufficio, ha ulteriormente precisato che il vincolo associativo era finalizzato ad ottenere che gli interessati alle pratiche INPS provvedessero a «versare degli indebiti compensi per il favorevole esito delle relative pratiche» e che tanto era avvenuto «anche nel caso riguardante A.T.».
3. È dunque sterile l’insistenza del ricorrente sulla riqualificazione penale dei fatti, perché il nucleo storico dell’addebito disciplinare rimane sempre il medesimo, con riferimento all’indebito versamento di somme per il favorevole esito delle pratiche previdenziali, perseguito mediante un’attività associativa dell’A. (allora esterno alla P.A. e intervenuto nel reperimento dei potenziali interessati alle predette pratiche) di un funzionario INPS e dell’addetto di un Patronato.
4. Il richiamo agli artt. 1362 ss. c.c. non è parimenti destinato a buon fine, in quanto esso si manifesta come censura generica, priva di richiamo esatto agli specifici canoni ermeneutici che sarebbero stati violati e dovendosi altresì considerare che, a fronte di una non irrazionale lettura del significato degli atti – di cui si è detto – il richiamo ai parametri di cui all’art.1362 c.c. è in sé insufficiente, valendo il consolidato principio per cui «la parte che, con il ricorso per cassazione, intenda denunciare un errore di diritto o un vizio di ragionamento nell’interpretazione di una clausola contrattuale, non può limitarsi a richiamare le regole di cui agli artt. 1362 e ss. c.c., avendo invece l’onere di specificare i canoni che in concreto assuma violati, ed in particolare il punto ed il modo in cui il giudice del merito si sia dagli stessi discostato, non potendo le censure risolversi nella mera contrapposizione tra l’interpretazione del ricorrente e quella accolta nella sentenza impugnata, poiché quest’ultima non deve essere l’unica astrattamente possibile ma solo una delle plausibili interpretazioni, sicché, quando di una clausola contrattuale sono possibili due o più interpretazioni, non è consentito, alla parte che aveva proposto l’interpretazione poi disattesa dal giudice di merito, dolersi in sede di legittimità del fatto che fosse stata privilegiata l’altra» (Cass. 9 aprile 2021, n. 9461; Cass. 28 novembre 2017, n. 28319).
5. Il secondo motivo adduce la violazione e falsa applicazione degli artt. 654 e 129 cpv c.p.p., anche in relazione agli artt. 1 L. 604/1966, 2119 c.c. e 67, co., 6, lett. d) CCNL agenzie fiscali del 28.5.2004, per avere i giudici di merito, nel ricostruire la condotta associativa, assunto a fondamento della decisione la sola sentenza penale di primo grado, muovendo dall’erroneo convincimento della sua vincolatività pur essendosi conclusa con una declaratoria di estinzione per prescrizione del reato di associazione per delinquere ex art. 416 c.p.c.
6. Il motivo segnala che la sentenza penale di primo grado aveva ritenuto la responsabilità dell’A. solo in riferimento alla vicenda A.e sostiene che l’analisi degli elementi di prova disponibili avrebbe imposto di escludere l’esistenza di ulteriori ipotesi tali da integrare il finalismo teleologico di un reato-mezzo (l’associazione criminosa) non accertato in sede penale.
7. Il motivo è infondato.
8. Non è vero, intanto, che la Corte d’Appello, nella sentenza qui impugnata, abbia valorizzato puramente e semplicemente la sentenza penale di primo grado.
Essa ha invece valutato elementi istruttori desunti da essa, misurandosi anche con le conclusioni ivi assunte in ordine all’assenza, al di là della vicenda A., di specifiche condotte collaborative rispetto ad altri casi e ciò per concludere che, comunque, pur non essendo dimostrata la commissione di altri reati-fine, vi era stata la creazione del vincolo associativo, anche rispetto al M., con gli scopi illeciti di cui si è detto.
9. Si deve poi considerare che in sede penale, fin dal primo grado, rispetto al reato associativo fu ravvisata la prescrizione, sicché la ricostruzione fattuale non poteva che essere svolta autonomamente in sede civile; né consta una totale esclusione della fattispecie associativa in sede di giudizio penale, ma semmai una limitazione dell’accertamento della commissione del reato-fine solo al caso della pratica A..
Su tali premesse, la diversa ricostruzione del fatto operata dal motivo, sulla base di elementi (ammissioni del ricorrente;
risultanze testimoniali e delle intercettazioni) di cui si propugna una lettura nel senso di escludere la responsabilità, al di là del fatto che alcune circostanze secondo gli stralci della sentenza penale di appello ivi riportati sarebbero state anche ammesse dallo stesso A. (collaborazione con il M. per metterlo in contatto con gli interessati alle pratiche pensionistici; ricezione di una somma di denaro per la pratica A.), costituiscono una mera ricostruzione alternativa della vicenda di merito e delle risultanze istruttorie, il che non è consentito in sede di legittimità (Cass., S.U., 27 dicembre 2019, n. 34476; Cass., S.U., 25 ottobre 2013, n. 24148).
10. Il terzo motivo è rubricato come violazione e falsa applicazione degli artt. 1 L. 604/1966, 2119 c.c. e 67, co., 6, lett. d) CCNL agenzie fiscali, con riferimento all’art. 360 n. 3 c.p.c. ed all’art. 116 c.p.c., per aver la Corte di merito omesso di analizzare in maniera puntuale e specifica i fatti storici così come ricostruiti ed accertati nella sentenza penale di secondo grado, in modo tale da non consentire la sussunzione entro la fattispecie punita dal CCNL con la sanzione espulsiva, ovverosia entro la fattispecie legale di giusta causa, viceversa erroneamente ritenuta.
11. Il motivo evidenza alcuni elementi che si desumerebbero dalla sentenza di appello resa in sede penale e dai quali la posizione dell’odierno ricorrente emergerebbe come quella di un mero connivente, non partecipe di accordi associativi, stante, tra l’altro, l’asserita autonomia dell’operato del M. (addetto al Patronato) ed il fatto che l’Abruzzese non conosceva il P. (funzionario INPS), né sapeva che quest’ultimo lavorasse presso l’ente di previdenza, sottolineandosi altresì come la propria posizione fosse da ritenere irrilevante, in quanto il M. avrebbe comunque portato ad esecuzione la condotta criminosa indipendentemente dalla decisione del ricorrente di partecipare o meno all’incontro con la A..
12. Anche tale motivo è inammissibile.
La Corte d’Appello ha ritenuto l’addebito associativo sulla base di una serie di elementi da essa valorizzati (teste Catino; dichiarazioni dello stesso A.; intercettazioni) ed ha ravvisato la concreta ricorrenza di un reato-fine, quello riguardante la pratica A., ancora sulla base di vari elementi del procedimento penale (intercettazioni; deposizioni testimoniali, ammissioni dello stesso A.), evidenziando infine come fosse accertata la ricezione da parte del ricorrente, per sua stessa ammissione, di avere accettato per la pratica A. una somma di lire 2.300.000 che la Corte definiva «tutt’altro che inconsistente e certo non riconducibile ad una modica regalia».
Tutto ciò esprime chiaramente un convincimento di merito sulle emergenze istruttorie, rispetto al quale le difese del ricorrente intenderebbero orientare il ragionamento probatorio verso soluzioni diverse: ma ancora una volta si tratta di impostazione non consentita in sede di legittimità, riguardando valutazioni giudiziali, in sé non implausibili, sull’esito dell’istruttoria.
Ciò, proprio per l’assenza di manifesta illogicità, esclude il ricorrere di una violazione dell’art. 116 c.p.c. e della regola di prudente apprezzamento, non venendo peraltro in gioco mezzi soggetti ad una qualche disciplina legale vincolistica quanto a significato e portata della prova da essi desumibile.
13. Il quarto motivo si incentra invece sulla violazione e falsa applicazione degli artt. 2106, 2119 c.c., 7 L. 300/1970, 65 e 67, co. 6 lett. d) CCNL agenzie fiscali, 55 d. lgs. 165/2001, 9, co., 1, L. 19/1990 con riferimento alla denunciata violazione del principio della necessaria proporzionalità della sanzione rispetto alla condotta del lavoratore.
14. Il motivo va parimenti disatteso.
La Corte di merito ha ritenuto che i comportamenti tenuti dal ricorrente prima dell’assunzione fossero di gravità e natura tali da ledere irrimediabilmente il vincolo fiduciario, una volta emersi in epoca successiva all’inizio del rapporto con l’Agenzia delle Entrate, precisando come non avesse pregio l’ipotesi della collocazione del lavoratore in attività meno a rischio, sia perché era difficile rinvenirne nell’ambito dell’Amministrazione delle Entrate, sia perché il pericolo di replica di condotte illecite sussisteva a prescindere, avendo il ricorrente posto in essere i reati, rispetto a pratiche INPS, pur essendo estraneo a tale ente.
Né può valorizzarsi il fatto – evidenziato nel motivo – che la Corte territoriale avrebbe errato nel ritenere che all’epoca dei fatti contestati il ricorrente fosse dipendente di un’altra P.A., mentre sarebbe invece stato dipendente privato.
L’argomentazione, infatti, non è in sé decisiva nel contesto del ragionamento svolto dalla Corte di merito, sia perché nella motivazione è immediatamente aggiunto che anche condotte extralavorative potrebbero ledere il rapporto fiduciario, sia perché si tratta solo di uno degli elementi considerati dalla Corte, ove l’asse centrale della decisione, sul tema della proporzionalità, è dato dalla gravità dei reati commessi e dall’incidenza dell’accaduto sul rapporto fiduciario.
15. Sulla base di tutte le considerazioni che precedono il ricorso va rigettato e ciò, al fine di evitare l’inutile spreco di energie processuali ed anche nella logica della ragionevole durata del processo, senza disporre la rinnovazione della notifica all’Agenzia delle Entrate, invalidamente eseguita presso l’Avvocatura Distrettuale e non presso l’Avvocatura Generale (Cass., S.U., 15 gennaio 2015, n. 608).
16. Non è dovuta pronuncia sulle spese, essendo l’amministrazione rimasta – appunto – intimata.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso.
Ai sensi dell’art. 13 comma 1-quater del d.p.r. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1-bis, dello stesso articolo 13, se dovuto.