CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza n. 36502 depositata il 13 dicembre 2022
Tributi – Avviso di accertamento – IRES, IRAP, IVA – Esercizio abituale di un’attività di impresa da parte della contribuente – Tributi “armonizzati” – Cd. “accertamenti a tavolino” – Verbale di chiusura delle operazioni – Accoglimento
Fatti di causa
1. L’Agenzia delle entrate ha proposto ricorso, con due motivi, contro P.M., che resiste con controricorso, avverso la sentenza n.1292/5/16 della Commissione tributaria regionale del Piemonte, pronunciata in data 22 settembre 2016, depositata in data 21 ottobre 2016 e non notificata, che ha accolto l’appello della contribuente avverso la sentenza n. 25/2014 della Commissione tributaria provinciale di Asti che aveva respinto il ricorso contro l’avviso di accertamento per Ires, Irap ed Iva 2007.
2. Con la sentenza impugnata, la Commissione tributaria regionale del Piemonte preliminarmente riteneva congruamente motivata la sentenza di primo grado, che, con autonoma valutazione, aveva fatto proprie le argomentazioni dell’ufficio; riteneva, inoltre, legittimo l’atto di accertamento, limitatamente alle contestazioni per l’Ires e l’Irap, mentre rilevava la violazione dell’art.12, comma 7, l. n.212/2000 limitatamente all’Iva.
Passando all’esame dei presupposti impositivi ai fini delle imposte dirette, la C.t.r. riteneva che nel caso di specie le operazioni contestate, di acquisto, ristrutturazione e vendita di sei unità abitative, realizzate con la suddivisione di precedenti unità abitative appartenenti ad un unico edificio, non fossero espressione dell’esercizio abituale di un’attività di impresa da parte della contribuente.
3. Il ricorso in Cassazione veniva rimesso dalla VI Sezione alla V Sezione per essere fissato all’udienza pubblica.
Ragioni della decisione
1.1. Con il primo motivo, l’Agenzia delle entrate denunzia la violazione e falsa applicazione dell’art.12, comma 7, l. 27 luglio 2000, n.212, e della sentenza CGUE del 3 luglio 2014 in causa C-129/13 Kamino, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ.
La C.t.r. aveva ritenuto l’illegittimità dell’accertamento ai fini Iva, in quanto non era stato redatto un p.v.c. all’esito delle operazioni di verifica, dal quale computarsi il termine dilatorio di sessanta giorni per l’emissione dell’avviso di accertamento.
Inoltre, nell’avviso non si erano specificamente confutate le difese della contribuente nella fase di contraddittorio precedente all’emissione dell’avviso di accertamento.
Secondo la ricorrente, la decisione della C.t.r. era erronea e basata su di un rilievo meramente formale, senza tener conto del fatto che la contribuente avrebbe dovuto indicare quali difese in concreto non aveva potuto svolgere a causa della mancata instaurazione del contraddittorio.
1.2. Il motivo è fondato e va accolto.
Come chiarito dalle Sezioni Unite di questa Corte, in tema di diritti e garanzie del contribuente sottoposto a verifiche fiscali, l’Amministrazione finanziaria, solo in materia di tributi armonizzati, è gravata di un obbligo generale di contraddittorio endoprocedimentale, la cui violazione comporta l’invalidità dell’atto, purché il contribuente abbia assolto all’onere di enunciare in concreto le ragioni che avrebbe potuto far valere e non abbia proposto un’opposizione meramente pretestuosa (vedi Cass. S.U. n. 24823/2015).
Tale principio vale solo per i tributi “armonizzati”, mentre, per quelli “non armonizzati”, non è rinvenibile, nella legislazione nazionale, un analogo generalizzato vincolo, sicché esso sussiste solo per le ipotesi in cui risulti specificamente sancito.
Nel caso in esame, la C.t.r., limitatamente all’Iva, ha ritenuto che l’accertamento fosse illegittimo, perché non vi era stato un p.v.c. comunicato alla contribuente, a cui doveva seguire l’accertamento nel termine di sessanta giorni.
Tale mancanza avrebbe impedito alla contribuente un’adeguata difesa.
In primo luogo, deve rilevarsi che, in caso di cd. “accertamenti a tavolino”, come quello in esame, per i quali non vi sia stato accesso presso la sede del contribuente, non sussiste l’obbligo di redigere un apposito verbale di chiusura delle operazioni e, conseguentemente, di attendere il decorso del termine dilatorio, ai sensi dell’art. 12, comma 7, della l. n. 212 del 2000, prima di emanare l’avviso di accertamento.
Tuttavia, come è stato detto, l’amministrazione finanziaria è tenuta comunque a rispettare, anche nell’ambito delle indagini cd. “a tavolino”, il contraddittorio endoprocedimentale, ove l’accertamento attenga a tributi “armonizzati”: la violazione di tale obbligo comporta l’invalidità dell’atto, purché il contribuente abbia assolto all’onere di enunciare in concreto le ragioni che avrebbe potuto far valere e non abbia proposto un’opposizione meramente pretestuosa (Cass. n.20036/2018).
Nel caso di specie, la C.t.r., al punto 3) dello svolgimento del processo, nel riportare i motivi di ricorso della contribuente, richiama quello relativo alla violazione dell’art.12, comma 7, l. n.212/2000, sotto il duplice profilo dell’inosservanza del termine dilatorio di sessanta giorni e della mancanza di una motivazione specifica in ordine al superamento delle difese prospettate dalla stessa contribuente nel contraddittorio con l’ufficio.
In effetti, la sentenza impugnata da’ atto dell’espletamento del tentativo di accertamento con adesione, che la stessa controricorrente chiarisce essersi effettuato, su sua richiesta, dopo la notifica dell’avviso di accertamento, emesso sulla base delle risposte al questionario e della documentazione inviata dalla contribuente, insieme alle informazioni richieste.
Dunque, l’avviso di accertamento è stato emesso dopo che l’ufficio aveva assunto informazioni dalla contribuente e sulla base delle stesse;
sia nel corso della procedura di accertamento con adesione, sia con il successivo ricorso davanti al giudice tributario, la contribuente non ha indicato in concreto le ragioni che avrebbe potuto far valere e non ha proposto prima della notifica dell’avviso di accertamento.
In particolare, come pure rilevato dalla C.t.r. nella sentenza impugnata, le difese della contribuente non sono tese a confutare la ricostruzione in fatto riportata dall’ufficio nell’avviso di accertamento, ma tendono a riaffermare l’inesistenza di un’attività imprenditoriale, senza introdurre elementi nuovi, che siano idonei ad allargare il quadro istruttorio, modificando le conclusioni dell’avviso di accertamento.
Le uniche difese della contribuente sono proprio quelle relative alla contestazione della natura imprenditoriale dell’attività svolta, qualificazione, invece, affermata dall’Agenzia delle entrate sulla base degli elementi forniti dalla stessa contribuente prima dell’emissione dell’avviso di accertamento e ribaditi in sede di accertamento con adesione.
Pertanto, la C.t.r., nel ritenere l’illegittimità dell’avviso di accertamento per la violazione del generale principio dell’obbligo del contraddittorio preventivo in tema di “tributi armonizzati”, è incorsa nella denunciata violazione di legge, non avendo considerato che la contribuente non aveva assolto all’onere di enunciare in concreto le ragioni, astrattamente idonee a modificare l’esito dell’accertamento, che avrebbe potuto far valere prima dell’emissione dell’atto impositivo.
2.1. Con il secondo motivo, l’Agenzia delle entrate denunzia la violazione e falsa applicazione degli artt. 55, d.P.R. 22 dicembre 1986, n.917, e 39 d.P.R. 29 settembre 1973, n.600, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ.
2.2. il motivo è fondato e va accolto.
Secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, la nozione tributaristica dell’esercizio di imprese commerciali non coincide con quella civilistica, in quanto l’art. 4, primo comma, del d.P.R. n. 633 del 1972, in tema di IVA – così come l’analogo art. 51, comma 1, del T.U.l.R. (vecchia numerazione, ora art. 55) -, intende come tale “l’esercizio per professione abituale, ancorché non esclusiva”, delle attività indicate dall’art. 2195 cod. civ., anche se non organizzate in forma di impresa, e prescinde quindi dal requisito organizzativo, che costituisce invece elemento qualificante e imprescindibile per la configurazione dell’impresa commerciale agli effetti civilistici, esigendo soltanto che l’attività svolta sia caratterizzata dalla professionalità abituale, anche se non esclusiva (Cass. n. 20433 del 2011; in tema di imposte sui redditi, Cass. nn. 17013 e 17894 del 2002, 27211 del 2006, 19237 del 2012).
L’espressione “esercizio per professione abituale” dell’attività va intesa, più semplicemente, come esercizio dell’attività in via abituale, cioè non meramente occasionale. Occorre, cioè, che l’attività sia svolta con caratteri di stabilità e regolarità e che si protragga per un apprezzabile periodo di tempo, pur se non necessariamente con rigorosa continuità (cfr. Cass. 6853/2016, in motivazione).
Inoltre, non può escludersi la qualità di imprenditore in colui il quale compia un unico affare, di non trascurabile rilevanza economica, a seguito dello svolgimento di un’attività che abbia richiesto una pluralità di operazioni (in tal senso, con specifico riguardo all’IVA, cfr. Cass. nn. 1987 del 1984; 3690 del 1986; 2021, 3406 e 4407 del 1996; 10430 del 2001; 9776 del 2003).
La giurisprudenza di questa Corte si è occupata dei casi di costruzione e successiva vendita di immobili da parte di privati, ritenendo che anche l’effettuazione di una singola attività di costruzione, che comporti il rilevante impiego di mezzi economici, il protrarsi nel tempo ed un’apprezzabile organizzazione di fattori di produzione, configuri un’attività di impresa (Cass. 4407/1995).
Più di recente, l’Agenzia delle entrate, nella risposta all’interpello del 24/10/2019, n.426, che non ha efficacia vincolante, ma fornisce l’interpretazione normativa dell’amministrazione finanziaria, ha affermato che <<la qualifica di imprenditore può essere attribuita anche a chi semplicemente utilizzi e coordini un proprio capitale per fini produttivi. L’esercizio dell’impresa, inoltre, può esaurirsi anche con un singolo affare in considerazione della sua rilevanza economica e delle operazioni che il suo svolgimento comporta. Più precisamente, un singolo affare può costituire esercizio di impresa allorquando implichi il compimento di una serie coordinata di atti economici, sia pure attraverso un’unica operazione economica, come avviene nel caso di costruzione di edifici da destinare all’abitazione (Cfr. sentenze n. 8193 del 29 agosto 1997, n. 3690 del 31 maggio 1986 e n. 267 del 20 gennaio 1973). Sulla base del citato orientamento giurisprudenziale, in conformità a quanto già chiarito anche dalla risoluzione 20 giugno 2002, n. 204/E, si ritiene che, nel caso di specie – da quanto descritto nell’istanza e dalla documentazione integrativa fornita, in sede di supplemento istruttorio – la realizzazione a seguito dei lavori di 5 appartamenti, 8 garage e 3 posti auto, configura un comportamento logicamente e cronologicamente precedente l’atto di cessione e strumentale rispetto all’incremento di valore, che evidenzia l’intento di realizzare un “arricchimento” (lucro)>>.
Nel caso oggetto dell’interpello, sostanzialmente analogo a quello in esame, l’Agenzia delle entrate riteneva, quindi, che l’attività svolta dall’istante doveva considerarsi imprenditoriale dal momento che l’intervento sul complesso immobiliare risultava finalizzato, non all’uso del proprietario o a quello della sua famiglia, bensì alla realizzazione e successiva vendita delle unità immobiliari, garage e posti auto a terzi, avvalendosi di un’organizzazione produttiva idonea, e svolgendo un’attività protrattasi nel tempo.
A ciò si aggiunga che l’abitualità dell’attività va definita avuto riguardo alla sua stabilità nel periodo di imposta preso in considerazione.
Tali elementi non sono stati valutati nella specie dal giudice di appello, il quale ha semplicemente escluso l’abitualità dell’attività perché le vendite rientravano in un’operazione unitaria, che ricomprendeva l’acquisto, la ristrutturazione e la vendita di più appartamenti realizzati in un unico edificio.
L’assunto della C.t.r., per quanto detto, non giustifica di per se’ la conclusione che si tratti di un’attività occasionale, estranea all’esercizio dell’impresa.
La sentenza impugnata va dunque cassata con rinvio alla Corte di giustizia tributaria di secondo grado del Piemonte, in diversa composizione, che liquiderà anche le spese del giudizio di legittimità.
P.Q.M.
Accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Corte di giustizia tributaria di secondo grado del Piemonte, in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità
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