CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza n. 36992 depositata il 16 dicembre 2022
Tributi – Avviso di accertamento – IRES, IRAP, IVA – Esercizio di attività di impresa in assenza di professionalità abituale – Tributi armonizzati – Obbligo di contraddittorio endoprocedimentale – Rigetto
Fatti di causa
1. P.M. ha proposto ricorso, con quattro motivi, contro l’Agenzia delle entrate, che è rimasta intimata, avverso la sentenza n.448/2018 della Commissione tributaria regionale del Piemonte, pronunciata in data 22 gennaio 2018, depositata in data 28 febbraio 2018 e non notificata, che ha rigettato l’appello della contribuente avverso la sentenza n. 137/2015 della Commissione tributaria provinciale di Asti che aveva respinto il ricorso contro l’avviso di accertamento per Ires, Irap ed Iva 2008.
2. Con la sentenza impugnata, la Commissione tributaria regionale del Piemonte preliminarmente riteneva congruamente motivata la sentenza di primo grado, che, con autonoma valutazione, aveva ritenuto fondati i rilievi dell’ufficio; riteneva, inoltre, che l’ufficio avesse fornito la prova del fatto che nell’anno in contestazione la contribuente aveva operato con continuità nel settore immobiliare, commercializzando immobili al di fuori dell’ambito familiare ed ottenendo risultati economici coerenti con l’attività di impresa.
La C.t.r. rilevava che non vi era stata alcuna violazione dell’art.12, comma 7, l. n.212/2000, in primo luogo perché il termine dilatorio per l’emissione dell’avviso di accertamento, dopo sessanta giorni dal p.v.c., doveva ritersi riferibile agli accertamenti che avevano comportato un accesso nella sede del contribuente, in secondo luogo perché nella specie il contraddittorio endoprocedimentale con la contribuente si era effettivamente svolto, in sede di tentativo di accertamento con adesione.
Secondo il giudice di appello, in ogni caso, non doveva prevalere un criterio meramente formale, ma la concreta valutazione che l’omesso contraddittorio aveva avuto sulla definizione della pretesa fiscale, in considerazione delle decisioni della CGEU (causa C-276-12) e della Suprema Corte di Cassazione (S.U. n. 24823/2015).
Anche sui costi, la C.t.r. riteneva che correttamente l’ufficio avesse ammesso a deduzione solo quelli che avevano i requisiti di cui all’art. 109 T.u.i.r.
Con riguardo all’Irap, il giudice di appello rilevava che la contestazione della contribuente, relativa alla mancata dimostrazione, da parte dell’ufficio, dell’esistenza di un’autonoma organizzazione, contrastava con il fatto che si era in presenza di un’attività di impresa per la quale necessariamente vi era stata la collaborazione di altre persone nella redazione dei contratti, nella mediazione delle operazioni di vendita e nei lavori di ristrutturazione.
Ragioni della decisione
1.1. Con il primo motivo, la ricorrente denunzia la violazione e falsa applicazione degli artt. 55, d.P.R. 22 dicembre 1986, n.917, 39, comma 2, lett. a), d.P.R. 29 settembre 1973, n.600, e 55 d.P.R. 26 ottobre 1972, n.633, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ.
La ricorrente deduce il difetto di esercizio di attività di impresa in assenza di professionalità abituale.
1.2. Il motivo è in parte inammissibile ed in parte infondato e va rigettato.
Secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, la nozione tributaristica dell’esercizio di imprese commerciali non coincide con quella civilistica, in quanto l’art. 4, primo comma, del d.P.R. n. 633 del 1972, in tema di IVA – così come l’analogo art. 51, comma 1, del T.U.l.R. (vecchia numerazione, ora art. 55) -, intende come tale “l’esercizio per professione abituale, ancorché non esclusiva”, delle attività indicate dall’art. 2195 cod. civ., anche se non organizzate in forma di impresa, e prescinde quindi dal requisito organizzativo, che costituisce invece elemento qualificante e imprescindibile per la configurazione dell’impresa commerciale agli effetti civilistici, esigendo soltanto che l’attività svolta sia caratterizzata dalla professionalità abituale, anche se non esclusiva (Cass. n. 20433 del 2011; in tema di imposte sui redditi, Cass. nn. 17013 e 17894 del 2002, 27211 del 2006, 19237 del 2012).
L’espressione “esercizio per professione abituale” dell’attività va intesa, più semplicemente, come esercizio dell’attività in via abituale, cioè non meramente occasionale. Occorre, cioè, che l’attività sia svolta con caratteri di stabilità e regolarità e che si protragga per un apprezzabile periodo di tempo, pur se non necessariamente con rigorosa continuità (cfr. Cass. 6853/2016, in motivazione).
Inoltre, non può escludersi la qualità di imprenditore in colui il quale compia un unico affare, di non trascurabile rilevanza economica, a seguito dello svolgimento di un’attività che abbia richiesto una pluralità di operazioni (in tal senso, con specifico riguardo all’IVA, cfr. Cass. nn. 1987 del 1984; 3690 del 1986; 2021, 3406 e 4407 del 1996; 10430 del 2001; 9776 del 2003).
La giurisprudenza di questa Corte si è occupata dei casi di costruzione e successiva vendita di immobili da parte di privati, ritenendo che anche l’effettuazione di una singola attività di costruzione, che comporti il rilevante impiego di mezzi economici, il protrarsi nel tempo ed un’apprezzabile organizzazione di fattori di produzione, configuri un’attività di impresa (Cass. 4407/1995).
Più di recente, l’Agenzia delle entrate, nella risposta all’interpello del 24/10/2019, n.426, che non ha efficacia vincolante, ma fornisce l’interpretazione normativa dell’amministrazione finanziaria, ha affermato che <<la qualifica di imprenditore può essere attribuita anche a chi semplicemente utilizzi e coordini un proprio capitale per fini produttivi. L’esercizio dell’impresa, inoltre, può esaurirsi anche con un singolo affare in considerazione della sua rilevanza economica e delle operazioni che il suo svolgimento comporta. Più precisamente, un singolo affare può costituire esercizio di impresa allorquando implichi il compimento di una serie coordinata di atti economici, sia pure attraverso un’unica operazione economica, come avviene nel caso di costruzione di edifici da destinare all’abitazione (Cfr. sentenze n. 8193 del 29 agosto 1997, n. 3690 del 31 maggio 1986 e n. 267 del 20 gennaio 1973). Sulla base del citato orientamento giurisprudenziale, in conformità a quanto già chiarito anche dalla risoluzione 20 giugno 2002, n. 204/E, si ritiene che, nel caso di specie – da quanto descritto nell’istanza e dalla documentazione integrativa fornita, in sede di supplemento istruttorio – la realizzazione a seguito dei lavori di 5 appartamenti, 8 garage e 3 posti auto, configura un comportamento logicamente e cronologicamente precedente l’atto di cessione e strumentale rispetto all’incremento di valore, che evidenzia l’intento di realizzare un “arricchimento” (lucro)>>.
Nel caso oggetto dell’interpello, analogo a quello in esame, l’Agenzia delle entrate riteneva, quindi, che l’attività svolta dall’istante doveva considerarsi imprenditoriale dal momento che l’intervento sul complesso immobiliare posto in essere risultava finalizzato, non all’uso del proprietario o a quello della sua famiglia, bensì alla realizzazione e successiva vendita delle unità immobiliari, garage e posti auto a terzi, avvalendosi di un’organizzazione produttiva idonea, e svolgendo un’attività protrattasi nel tempo.
A ciò si aggiunga che, come rilevato dal giudice di seconde cure, l’abitualità dell’attività va definita avuto riguardo alla sua stabilità nel periodo di imposta preso in considerazione.
Nella specie il giudice di appello, con una valutazione di merito degli elementi di fatto, sottratta al sindacato di legittimità, ha ritenuto che vi fosse un’attività di impresa, rilevante a fini fiscali, in quanto la contribuente aveva acquistato un edificio, lo aveva ristrutturato, ricavandone un numero, superiore a quello originario, di unità immobiliari, che aveva singolarmente venduto a terzi estranei all’ambito familiare nel periodo di imposta considerato.
Nell’operare tale valutazione la C.t.r. si è attenuta ai principi sopra indicati, senza incorrere nelle denunziate violazioni di legge.
2.1. Con il secondo motivo, la ricorrente denunzia la violazione e falsa applicazione degli artt. 10 e 12, commi 2 e 7, l. 27 luglio 2000, n.212, e 21 septies l. 7 agosto 1990, n.241, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ.
La C.t.r. aveva ritenuto la legittimità dell’accertamento cd. “a tavolino”, per il quale non vi era la necessità del p.v.c. e non si applicava il termine dilatorio di sessanta giorni per l’emissione dell’atto impositivo; inoltre il giudice di appello aveva rilevato che nel caso di specie si era effettivamente svolto un contraddittorio endoprocedimentale e che il contribuente non aveva indicato in che modo aveva subito una concreta lesione del proprio del diritto di difesa.
Secondo la ricorrente, il giudice di appello aveva errato nel caso di specie nel non rilevare la lesione del diritto di difesa della contribuente, consistente nel mancato rispetto del termine dilatorio e nell’omissione del contraddittorio preventivo.
2.2. Il motivo è infondato e va rigettato.
Come chiarito dalle Sezioni Unite di questa Corte, in tema di diritti e garanzie del contribuente sottoposto a verifiche fiscali, l’Amministrazione finanziaria, solo in materia di tributi armonizzati, è gravata di un obbligo generale di contraddittorio endoprocedimentale, la cui violazione comporta l’invalidità dell’atto, purché il contribuente abbia assolto all’onere di enunciare in concreto le ragioni che avrebbe potuto far valere e non abbia proposto un’opposizione meramente pretestuosa ( vedi Cass. S.U. n. 24823/2015).
Tale principio vale solo per i tributi “armonizzati”, mentre, per quelli “non armonizzati”, non è rinvenibile, nella legislazione nazionale, un analogo generalizzato vincolo, sicché esso sussiste solo per le ipotesi in cui risulti specificamente sancito.
Nel caso in esame, la C.t.r. in primo luogo ha precisato che, trattandosi di cd. “accertamenti a tavolino”, per i quali non vi era stato accesso presso la sede del contribuente, non sussisteva l’obbligo di redigere un apposito verbale di chiusura delle operazioni e, conseguentemente, di attendere il decorso del termine dilatorio, ai sensi dell’art. 12, comma 7, della l. n. 212 del 2000, prima di emanare l’avviso di accertamento.
Inoltre, il giudice di appello aveva rilevato che nel caso di specie si era effettivamente svolto un contraddittorio nel corso del tentativo di accertamento con adesione; infine ha precisato che in ogni caso il contribuente non aveva indicato quali difese non aveva potuto esercitare a causa delle pretese irregolarità della procedura di accertamento.
Pertanto, la decisione impugnata appare in linea con l’orientamento di questa Corte (Cass. S.U. n. 24823/2015, citata) e la giurisprudenza europea (sentenza CGUE del 3 luglio 2014 in causa C-129/13 Kamino) e non incorre nella denunziata violazione di legge.
3.1. Con il terzo motivo, la ricorrente denunzia la violazione e falsa applicazione dell’art. 2 d.lgs. 15 dicembre 1997, n.446, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., deducendo il difetto di presupposti per l’assoggettamento ad Irap delle somme oggetto di accertamento.
Secondo la ricorrente, l’amministrazione finanziaria non avrebbe dato prova dell’esistenza di un’autonoma organizzazione, mentre il giudice di appello avrebbe ritenuto che essa fosse dimostrata dal ricorso a contributi esterni, necessari per la ristrutturazione, la commercializzazione e la vendita degli immobili, contributi comunque indimostrati e non ricollegabili ad una struttura facente capo alla contribuente.
3.2. Il motivo è infondato e va rigettato.
Preliminarmente, deve rilevarsi che la sentenza impugnata non contiene alcun accertamento in fatto sulla sussistenza o meno del requisito dell’autonoma organizzazione.
Invero, la C.t.r. si limita ad affermare che il concetto di impresa a fini fiscali non postula necessariamente una stabile organizzazione, essendo sufficiente l’abitualità dell’attività professionale.
Come questa Corte ha più volte ribadito, ai fini Irap, l’assenza dell’autonoma organizzazione integra un “fatto impeditivo”dell’imposta, con conseguente onere della prova, ex art. 2697, secondo comma, cod. civ., a carico del contribuente che lo voglia far valere.
Anche nel caso di specie, la contribuente, ai fini della non assoggettabilità all’Irap, aveva l’onere di dimostrare l’assenza di una stabile organizzazione per l’esercizio dell’attività imprenditoriale, di cui era pacificamente la titolare.
4.1. Con il quarto motivo, la ricorrente denunzia la violazione e falsa applicazione degli artt. 1 e 4 d.P.R. 26 ottobre 1972, n.633, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ.
Secondo la ricorrente, difetterebbero nella fattispecie in esame i presupposti per l’assoggettamento ad Iva, che comporterebbe una duplicazione di imposta, in quanto le operazioni di vendita immobiliari erano già state assoggettate all’imposta di registro.
4.2. Il motivo è infondato e va rigettato.
Ai sensi dell’art.1 d.P.R. n.633/1972, <<L’imposta sul valore aggiunto si applica sulle cessioni di beni e le prestazioni di servizi effettuate nel territorio dello Stato nell’esercizio di imprese o nell’esercizio di arti e professioni e sulle importazioni da chiunque effettuate >>.
L’art.4 d.P.R. citato, a sua volta prevede, che <<Per esercizio di imprese si intende l’esercizio per professione abituale, ancorchè non esclusiva, delle attività commerciali o agricole di cui agli articoli 2135 e 2195 del codice civile, anche se non organizzate in forma di impresa, nonchè l’esercizio di attività, organizzate in forma d’impresa, dirette alla prestazione di servizi che non rientrano nell’art. 2195 del codice civile>>.
Con riguardo al momento in cui è dovuta l’imposta, l’art.6 stesso d.P.R. in linea generale precisa che <<le cessioni di beni si considerano effettuate nel momento della stipulazione se riguardano beni immobili>>.
Pertanto, la C.t.r., avendo ritenuto che la contribuente avesse esercitato per l’anno di imposta in contestazione attività di impresa, volta alla realizzazione, commercializzazione e vendita di beni immobili, ha conseguentemente considerato legittimo l’assoggettamento ad Iva delle somme contestate.
L’alternatività tra imposta di registro, ove già versata, ed Iva non esclude l’assoggettamento delle vendite a quest’ultimo tributo, ma comporterà il diritto al rimborso delle somme eventualmente pagate e non dovute.
Dunque, il ricorso va complessivamente rigettato.
Nulla deve disporsi in ordine alle spese, in quanto l’Agenzia delle entrate è rimasta intimata.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n. 115/2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma del comma 1-bis del citato art. 13, se dovuto.
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