CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza n. 37001 depositata il 16 dicembre 2022

Tributi – Avviso di accertamento – IVA – IRAP – Società estinta – Utili non dichiarati –  Successione dei soci anche con riferimento alle imposte diverse da quelle dirette – Accoglimento

Fatti di causa

1. Con avviso di accertamento emesso nei confronti della società R.C. s.r.l., avente ad oggetto sociale l’attività di lavori generali di costruzione di edifici e di lavori di ingegneria civile, e notificato in data 5/12/2012 personalmente e rispettivamente al legale rappresentante, amministratore e socio, R.L., e al socio, R.A., in ragione dell’intervenuta estinzione della stessa, avvenuta il 6/6/2012, l’Agenzia delle Entrate rideterminò, per l’anno 2006, il reddito di impresa, il volume d’affari ai fini Iva e il valore della produzione netta ai fini Irap della società, irrogando le sanzioni conseguenti.

Impugnato, con distinti ricorsi, il predetto atto da R.L. e da R.A., sul presupposto che l’avviso di accertamento, oltreché infondato, non potesse essere contestato ad un soggetto non più esistente, non essendo stato già reso noto alla società prima della sua cancellazione, la C.T.P. di Genova, previa riunione dei ricorsi, confermò l’atto con sentenza n. 576/10/14 del 3/12/2013, che fu riformata dalla C.T.R. per la Liguria, adita dai medesimi contribuenti, con sentenza n. 461 del 8/1/2015, depositata il 16/4/2015, con la quale fu annullato l’avviso impugnato.

Avverso questa sentenza, l’Agenzia delle Entrate ha proposto ricorso per cassazione, affidandolo a tre motivi, mentre i contribuenti si sono difesi con controricorso, proponendo a loro volta ricorso incidentale, affidato a due motivi, illustrati anche con memoria.

Ragioni della decisione

1. Con il primo motivo di ricorso principale, si lamenta la violazione e falsa applicazione ex art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., dell’art. 36, comma 3, d.P.R. 1973, n. 602, anche in relazione all’art. 2729 cod. civ., per avere i giudici di secondo grado escluso la legittimità dell’avviso di accertamento notificato dall’Agenzia ai soci ex art. 36, comma 3, del citato d.P.R., senza considerare che l’Ufficio, dopo avere ricostruito il reddito imponibile della società per l’anno 2006 in mancanza della dichiarazione dei redditi e Iva, aveva rivolto la pretesa fiscale nei confronti dei soci, uno dei quali anche in qualità di amministratore e successivamente di liquidatore, a cui aveva notificato, in data 6/11/2012 l’avviso di accertamento, in quanto la società risultava estinta il 6/2/2012, che, diversamente da quanto dedotto dai contribuenti e affermato dalla sentenza, era rimasta provata la sussistenza di utili non dichiarati, stante l’assenza di contestazioni sulla omessa dichiarazione, e, alla stregua della presunzione di distribuzione ai soci di società a ristretta base capitale di utili extrabilancio, la loro distribuzione negli ultimi due anni ai soci, legati da stretti vincoli di parentela e in possesso dell’intero capitale sociale, e che spettava a questi ultimi dimostrare la diversa destinazione da quella naturale della distribuzione ai soci.

2. Col secondo motivo di ricorso principale, si lamenta la nullità della sentenza per violazione dell’art. 56, d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546 e dell’art. 112 cod. proc. civ., e l’omesso esame di una questione che era stata devoluta al giudice d’appello, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 4, cod. proc. civ., per avere la C.T.R. omesso di affrontare la questione, sollevata in sede d’appello, dell’applicabilità della successione dei soci nei debiti tributari, benché fosse stato ritenuto inapplicabile l’art. 36, comma 3, d.P.R. 602 del 1973.

3. Col terzo motivo di ricorso principale, si lamenta la violazione e falsa applicazione dell’art. 2909 cod. civ., in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., per essersi i giudici di secondo grado pronunciati sul merito dell’entità della pretesa, benché coperto da giudicato interno, non essendo stata sollevata alcuna censura sul punto nell’atto di appello.

4. Con il primo motivo di ricorso incidentale, si lamenta la violazione dell’art. 57, d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 4, cod. proc. civ., per avere la C.T.R. rigettato l’eccezione di nullità dell’accertamento in ragione della contraddittorietà della motivazione, ritenendo la questione nuova e infondata, senza considerare invece che la stessa era stata già sollevata in primo grado.

5. Con il secondo motivo di ricorso incidentale, relativo al rigetto dell’eccezione di contraddittorietà della motivazione dell’atto impositivo per essere stata la pretesa fondata sia sull’art. 2495 cod. civ., sia sull’art. 36 d.P.R. n. 602 del 1973, si lamenta la violazione dell’art. 42 d.P.R. 1973, n. 600 e dell’art. 56 d.P.R. 1972, n. 633, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., per avere la C.T.R. ritenuto la questione nuova e infondata, sostenendo che l’Ufficio avesse spiegato a sufficienza quali fossero le norme poste a fondamento dell’iniziativa, così da consentire alla controparte di approntare le sue difese, senza considerare che la questione proposta non afferiva al difetto di motivazione dell’avviso, ma alla inconciliabilità e alternatività dei presupposti di cui all’art. 2495 cod. civ. e all’art. 36 d.P.R. n. 602 del 1973.

6. Va innanzitutto rigettata l’eccezione di inammissibilità del ricorso, sollevata dai contribuenti, per non avere l’Ufficio censurato un capo autonomo della sentenza, idoneo a reggere da solo la nullità dell’accertamento impugnato e costituito dall’asserita violazione dell’art. 36 d.P.R. n. 602 del 1973 per difetto del presupposto dato dalla preesistenza di debiti tributari da assolvere con certezza e dalla illegittimità dell’accertamento col quale venga preteso dai soci, dall’amministratore e dal liquidatore il pagamento di debiti fiscali non esistenti al momento dell’estinzione della società, atteso che il primo motivo è viceversa tutto incentrato proprio sui presupposti per l’applicazione del citato art. 36, sotto il profilo della sussistenza di un debito tributario accertato in via presuntiva, in sostanziale critica alla sentenza che ne ha ritenuto, invece, l’inapplicabilità proprio sul presupposto dell’assenza di tale requisito.

E’ invece fondata l’eccezione di giudicato interno relativo alla parte della sentenza con la quale la C.T.R. ha ritenuto l’art. 36, comma 3, d.P.R. n. 602 del 1973, limitato alle sole imposte sui redditi, non essendo stata la stessa oggetto di specifico gravame sul punto.

7. Venendo al merito, il secondo motivo, da analizzare per primo, in ottemperanza al principio della ragione più liquida, è fondato.

La C.T.R. ha, infatti, del tutto omesso di pronunciarsi sulla questione afferente agli effetti che derivano dalla cancellazione della società dal registro delle imprese, proposta dall’Ufficio anche in sede d’appello.

In proposito, giova richiamare il disposto di cui all’art. 2495, secondo comma, cod. civ., nel testo modificato dalla riforma societaria del 2003, applicabile ratione temporis, a mente del quale «ferma restando l’estinzione della società, dopo la cancellazione i creditori sociali non soddisfatti possono far valere i loro crediti nei confronti dei soci, fino alla concorrenza delle somme da questi riscosse in base al bilancio finale di liquidazione, e nei confronti dei liquidatori, se il mancato pagamento è dipeso da colpa di questi», norma questa riversata nel successivo terzo comma, del medesimo articolo, per effetto dell’art. 40, comma 12-ter, lett. b), d.l. n. 76 del 2020, conv. dalla legge n. 120 del 2020, irrilevante nella specie.

Alla stregua di tale disposizione, le Sezioni unite di questa Corte, hanno affermato il principio di diritto, secondo cui, dopo la riforma del diritto societario, attuata dal d.lgs. 17 gennaio 2003, n. 6, qualora all’estinzione della società, di persone o di capitali, conseguente alla cancellazione dal registro delle imprese, non corrisponda il venir meno di ogni rapporto giuridico facente capo alla società estinta, si determina un fenomeno di tipo successorio, in virtù del quale: a) l’obbligazione della società non si estingue, ciò che sacrificherebbe ingiustamente il diritto del creditore sociale, ma si trasferisce ai soci, i quali ne rispondono, nei limiti di quanto riscosso a seguito della liquidazione o illimitatamente, a seconda che, pendente societate, fossero limitatamente o illimitatamente responsabili per i debiti sociali; b) i diritti e i beni non compresi nel bilancio di liquidazione della società estinta si trasferiscono ai soci, in regime di contitolarità o comunione indivisa, con esclusione delle mere pretese, ancorché azionate o azionabili in giudizio, e dei crediti ancora incerti o illiquidi, la cui inclusione in detto bilancio avrebbe richiesto un’attività ulteriore (giudiziale o extragiudiziale), il cui mancato espletamento da parte del liquidatore consente di ritenere che la società vi abbia rinunciato, a favore di una più rapida conclusione del procedimento estintivo (Cass., Sez. U, 12/3/2013, n. 6070).

Con specifico riguardo alle società di capitali, si è sostenuto, in particolare, che «Lo scarno tessuto normativo cui s’è fatto cenno non sembra autorizzare la conclusione che, con l’estinzione della società derivante dalla sua volontaria cancellazione dal registro delle imprese, si estinguano anche i debiti ancora insoddisfatti che ad essa facevano capo», con la conseguenza che «è del tutto naturale immaginare che questi debiti si trasferiscano in capo a dei successori» e che, pertanto, «la previsione di chiamata in responsabilità dei soci operata dal citato art. 2495 implichi, per l’appunto, un meccanismo di tipo successorio», risiedendo la ratio della norma «nell’intento d’impedire che la società debitrice possa, con un proprio comportamento unilaterale, che sfugge al controllo del creditore, espropriare quest’ultimo del suo diritto», finalità questa che può realizzarsi «solo se si riconosce che i debiti non liquidati della società estinta si trasferiscono in capo ai soci, salvo i limiti di responsabilità nella medesima norma indicati».

Pertanto, «il dissolversi della struttura organizzativa su cui riposa la soggettività giuridica dell’ente collettivo fa naturalmente emergere il sostrato personale che, in qualche misura, ne è comunque alla base e rende perciò del tutto plausibile la ricostruzione del fenomeno in termini successori», stante il carattere strumentale del soggetto società, venuto meno il quale sono i soci, nei limiti della responsabilità che essi avevano secondo il tipo di rapporto sociale prescelto, a succedere, ai sensi dell’art. 2495, secondo comma, cod. civ., nella effettiva titolarità dei debiti sociali, i quali non si configurano come debiti nuovi, traenti la propria origine dalla liquidazione sociale, ma costituiscono i medesimi debiti della società, di cui conservano intatta «causa e originaria natura giuridica» (Cass., Sez. Un, 2013, n. 6071, in motivazione).

Circa i limiti di responsabilità dei soci, poi, le Sezioni unite escludono l’applicabilità della tesi che limita il meccanismo successorio all’ipotesi in cui i soci di società di capitali abbiano goduto di un qualche riparto in base al bilancio finale di liquidazione, quale condizione per la prosecuzione, nei loro confronti, dell’azione originariamente intrapresa dal creditore sociale verso la società, ritenendo invece preferibile quella che viceversa individua «sempre nei soci coloro che son destinati a succedere nei rapporti debitori già facenti capo alla società cancellata ma non definiti all’esito della liquidazione», i quali rimangono successori, indipendentemente dall’avere goduto o meno di un qualche riparto in base al bilancio finale di liquidazione (Cass., Sez. 5, 19/4/2018, n. 9672), anche se rispondono soltanto intra vires dei debiti loro trasmessi, incidendo l’eventuale inutilità derivante dal predetto limite sul requisito dell’interesse ad agire, ma non sulla legittimazione passiva del socio medesimo (Cass., Sez. Un, 2013, n. 6071, cit., in motivazione).

Tali principi sono stati ripresi, con qualche eccezione, dalla giurisprudenza successiva, tanto da essere ormai considerati, nonostante qualche oscillazione, “diritto vivente” (in questi termini Cass., Sez. 5, 05/11/2021, n. 31904, che richiama, sul punto, Cass., Sez. 5, 16/6/2017, n. 15035; Cass., Sez. 5, 19/4/2018, n. 9672; Cass., Sez. 6-5, 5/6/2018, n. 14446; Cass., Sez. 5, 16/1/2019, n. 897; Cass., Sez. 6-5, 26/6/2020, n. 12758 e, da ultimo, Cass., Sez. Un., 15/1/2021, n. 619).

Peraltro, quanto al riparto dell’onere probatorio, questa Corte ritiene di dare continuità all’orientamento maggiormente coerente coi principi affermati dalle Sezioni Unite con la citata sentenza n. 6071 del 2013, che fa salvo il diritto dei soci successori «di opporre al creditore agente il limite di responsabilità», secondo cui, una volta acclarato che il socio subentra ex lege nella medesima posizione debitoria della società estinta quale suo successore, ai sensi dell’art. 2495, secondo comma, cod. civ., e non dell’art. 36, d.P.R. n. 602 del 1973, nel testo vigente ratione temporis, spetta al creditore provare la fonte dell’obbligazione, mentre grava sul socio successore l’onere di dimostrare, ai sensi dell’art. 2697 cod. civ., di non avere partecipato alla distribuzione degli utili, atteggiandosi tale circostanza in termini di fatto modificativo, estintivo o impeditivo dell’altrui pretesa, ossia di eccezione di merito, come confermato dal fatto che l’iscrizione a ruolo e la stessa notifica della cartella di pagamento, costituenti, ad un tempo, titolo esecutivo e precetto, «prescindono del tutto da ogni accertamento sulla avvenuta (o mancata) percezione degli utili, sicché la sede naturale in cui vi si può procedere deve giocoforza individuarsi nel processo tributario» (in questi termini, Cass., Sez. 5, 05/11/2021, n. 31904, cit.),.

Non si ritiene invece condivisibile l’orientamento secondo cui spetta al Fisco dimostrare il presupposto della responsabilità dei soci e cioè che, in concreto, vi sia stata la distribuzione dell’attivo o la riscossione di una quota dell’attivo, essendo la responsabilità dei soci per le obbligazioni tributarie non assolte limitata alla parte da ciascuno di essi conseguita nella distribuzione dell’attivo nelle varie fasi (Cass., Sez. 5, 10/10/2005, n. 19732; Cass., Sez. 5, 13/7/2012, n. 11968; Cass., Sez. 5, 16/5/2012, n. 7676) ovvero che vi siano state le assegnazioni sanzionate dalla normativa fiscale (Cass., Sez. 6-5, 23/11/2016, n. 23916; Cass., Sez. 5, 26/6/2015, n. 13259; Cass., Sez 5, 31/1/2017, n. 2444; Cass., Sez. 1, 22/06/2017, n. 15474), posto che la responsabilità dei soci ai sensi della predetta norma deriva dal fenomeno successorio sui generis derivante dall’estinzione della società, senza che assuma rilevanza, a questi fini, la riscossione dell’attivo, non costituendo esso presupposto della successione, come confermato dal fatto che i soci, in caso di estinzione della società, acquistano comunque la legittimazione processuale, mentre il limite di responsabilità degli stessi può incidere soltanto sull’interesse del creditore (in quest’ultimo senso Cass., Sez. 5, 07/04/2017, n. 9094; Cass., Sez. 5, 16/06/2017, n. 15035; Cass., Sez. 6-5, 05/06/2018, n. 14446; Cass., Sez. 5, 16/01/2019, n. 897).

Orbene, la sentenza impugnata ha del tutto trascurato di esaminare la questione dell’applicabilità alla fattispecie dell’art. 2495 cod. civ., la quale avrebbe avuto portata dirimente, stante l’operatività della successione dei soci anche con riferimento alle imposte diverse da quelle dirette, indipendentemente dai limiti di responsabilità dettati da tale disposizione, che possono costituire oggetto di eccezione di merito, con conseguente fondatezza del motivo.

8. La fondatezza della seconda censura comporta l’assorbimento della prima, essendo la stessa incentrata sui limiti di responsabilità dei soci in caso di estinzione della società.

9. La terza censura, infine, è fondata.

I giudici hanno, infatti, preso posizione sull’entità del debito fiscale, benché su tale questione, in assenza di specifica impugnazione sul punto della pronuncia della C.T.P., si fosse formato il giudicato.

In materia, opera, infatti, il principio secondo cui consegue la formazione del giudicato interno sulle questioni che abbiano formato oggetto di dibattito in primo grado, e della relativa pronuncia, e che non siano state ritualmente riproposte dalla parte interessata in sede di gravame (in tal senso, Cass., Sez. L, 15/11/2021, n. 34424), a meno che il giudice d’appello fondi la decisione su ragioni che, pur non specificamente fatte valere dall’appellante, appaiono, tuttavia, in diretta connessione con quelle espressamente dedotte nei motivi, in quanto costituenti il necessario antecedente logico e giuridico degli stessi, potendo il giudice d’appello riesaminare l’intera vicenda nel complesso dei suoi aspetti, purché tale indagine non travalichi i margini della richiesta, coinvolgendo punti decisivi della statuizione impugnata, suscettibili di acquisire forza di giudicato interno in assenza di contestazione e decidere, con pronuncia che ha natura ed effetto sostitutivo di quella gravata, anche sulla base di ragioni diverse da quelle svolte nei motivi di impugnazione (Cass., Sez. 3, 13/4/2018, n. 9202).

Risulta, infatti, dalla stessa sentenza impugnata che i contribuenti avevano appellato il provvedimento emesso in primo grado esclusivamente sotto il profilo dell’intervenuta estinzione della società, contestando l’erroneità della decisione in merito alla reputata loro responsabilità ex art. 36, d.P.R. n. 602 del 1973, in  assenza di previo accertamento e contestazione alla società della pretesa erariale, con conseguente non imputabilità ai soci di un utile mai accertato; la nullità dell’avviso siccome fondato sia sull’art. 2945 cod. civ., sia sul ridetto dell’art. 36; l’erroneità della decisione in ordine al reputato beneficio da essi ritratto dall’occultamento del reddito e dal mancato versamento di imposta; l’omessa verifica dei requisiti dell’art. 36, non essendo stata appurata la sussistenza di un credito tributario, certo, liquido e definitivo, costituente presupposto della responsabilità dei liquidatori.

Tali questioni, pur presupponenti la fondatezza, a monte, della pretesa tributaria, non sono invece in alcun modo correlate alla sua entità, sicché, in assenza di impugnazione sul punto, deve ritenersi che i giudici di merito si siano pronunciati oltre il limiti di quanto richiesto, allorché hanno ritenuto sommarie e arbitrarie le ricostruzioni dei redditi effettuate dall’Ufficio, siccome fondate sulla media dei ricavi dell’anno precedente e di quello successivo all’annualità verificata, sia sul riconoscimento dei costi nella misura del 20% senza spiegare i motivi della percentuale adottata.

E’ del resto irrilevante che l’infondatezza e l’illegittimità dell’accertamento siano stati eccepiti dai contribuenti con la memoria depositata in appello il 22/12/2014, come da essi evidenziato nel controricorso, posto che nel giudizio tributario d’appello è inammissibile la deduzione, nella memoria ex art. 32 d.lgs. n. 546 del 1992, di un nuovo motivo di illegittimità dell’avviso di accertamento, in quanto il contenzioso tributario ha un oggetto rigidamente delimitato dai motivi di impugnazione avverso l’atto impositivo dedotti col ricorso introduttivo, i quali costituiscono la causa petendi entro i cui confini si chiede l’annullamento dell’atto e la cui formulazione soggiace alla preclusione stabilita dall’art. 24, comma 2, d.lgs. n. 546 del 1992 (Cass., Sez. 5, 24/10/2014, n. 22662; Cass., Sez. 5, 24/7/2018, n. 19616).

Ne consegue la fondatezza della censura.

10. I due motivi di ricorso incidentale, da trattare congiuntamente perché strettamente connessi, sono inammissibili.

Il primo è inammissibile per difetto di interesse, considerato che la sentenza della C.T.R. è fondata su plurime ragioni (ossia sulla novità e sulla infondatezza nel merito della censura), tutte idonee logicamente e giuridicamente a sorreggere la censura.

Il secondo, invece, pur fondato, avendo la C.T.R. travisato la censura proposta, allorché ha deciso ritenendo sufficientemente motivato l’avviso di accertamento, non avrebbe potuto comunque essere accolto nel merito, con conseguente difetto di interesse della parte a sollevare una questione sul punto.

Non è infatti corretto sostenere l’inconciliabilità e alternatività dei presupposti di cui agli artt. 2495 cod. civ. e 36 d.P.R. n. 602 del 1973, come sostenuto dai contribuenti, essendo le due azioni di responsabilità del tutto autonome e distinte, oltreché rispondenti a rationes differenti, pur costituendo punto di incidenza tra le stesse la disposizione di cui al comma 3 dell’art. 36, che nel far salve «le maggiori responsabilità stabilite dal codice civile», rimanda inequivocamente all’art. 2495, prevedendo una forma di responsabilità dei soci anche oltre i limiti delle somme e dei beni ricevuti nella fase di liquidazione e nei due periodi di imposta precedenti (Cass., Sez. 5, 26/05/2021, n. 14570).

Orbene, mentre con riguardo alla norma codicistica deve rimandarsi a quanto osservato nel precedente punto 7, allorché si è detto che i soci succedono alla società estinta indipendentemente dall’avere goduto o meno di un qualche riparto in base al bilancio finale di liquidazione (Cass., Sez. 5, 19/4/2018, n. 9672), avendo tale disposizione la finalità di impedire che la società debitrice possa espropriare il creditore del suo diritto e spettando al socio, una volta provata dal creditore la fonte della propria obbligazione, dimostrare di non avere partecipato alla distribuzione degli utili, l’azione di responsabilità di cui all’art. 36, costituendo obbligazione “propria” ex lege (per gli organi, in base agli articoli 1176 e 1218 cod. civ., e per i soci di natura sussidiaria) con natura “civilistica” e non tributaria, intanto configurabile, in quanto fondata su elementi obiettivi, da identificarsi nelle componenti esistenti del patrimonio societario e negli atti di distrazione dell’attivo compiuti a fini diversi dal pagamento delle imposte dovute dalla società, e prescindendo dall’avvenuta estinzione della società, costituisce titolo autonomo rispetto all’obbligazione fiscale vera e propria, che ne costituisce mero presupposto (in tal senso, Cass., Sez. 5, 26/05/2021, n. 14570; vedi anche Cass., Sez. 5, 19/4/2018, n. 9672).

La responsabilità di cui all’art. 36, invero, si affianca, quanto ai soci specialmente, in ottica di recupero e di garanzia (lato sensu intesa) in favore del fisco, sì da sorgere ex lege con funzione sussidiaria, «non ponendo la norma alcuna successione o coobbligazione nei debiti tributari a carico di tali soggetti» (così, espressamente, Cass., Sez. 5, 11/5/2012, n. 7327), nemmeno allorché la società sia cancellata dal registro delle imprese e giustificandosi, pertanto, la necessità dell’emissione di un autonomo avviso di accertamento ai sensi del quinto comma e l’impugnabilità di detto avviso in sede tributaria ai sensi del sesto comma, con la conseguenza che, quanto al socio “successore”, «almeno nel sistema antecedente al d.lgs. n. 175/2014, altro è la responsabilità ex art. 2495, secondo comma, cod. civ., altra cosa è quella ex art. 36, comma 3, cit.».

In sostanza, il fenomeno successorio sui generis derivante dall’estinzione della società pone i soci nella stessa posizione di quest’ultima, rendendo gli stessi responsabili del medesimo debito, la cui natura rimane immutata e di cui rispondono sia pure soltanto intra vires, allorché dimostrino di non avere partecipato alla distribuzione degli utili nei due anni precedenti alla liquidazione, incidendo l’eventuale inutilità derivante dal predetto limite sul requisito dell’interesse ad agire per i creditori, ma non sulla legittimazione passiva dei soci (Cass., Sez. Un, 2013, n. 6071), mentre l’azione di responsabilità di cui all’art. 36 d.P.R. n. 602 del 1973, prescinde dall’avvenuta estinzione della società, prevedendo un titolo autonomo di responsabilità previsto in via sussidiaria e nei limiti delle somme riscosse in base al bilancio finale di liquidazione.

Ciò comporta che le due azioni, secondo la versione ratione temporis applicabile, non soltanto non sono alternative, stante la clausola di salvezza contenuta nell’art. 36, ma possono essere esercitate congiuntamente, stante la diversità di presupposti e il diverso ambito applicativo (le sole imposte dirette quella tributaria, tutte le imposte quella codicistica), senza che incida sul diritto di difesa del contribuente la loro inclusione in un unico avviso di accertamento.

L’infondatezza nel merito della pretesa dei contribuenti rende allora la censura inammissibile, nonostante l’omessa pronuncia sul punto da parte della C.T.R., stante l’assenza di interesse sul punto.

9. In conclusione, dichiarata la fondatezza del secondo e del terzo motivo di ricorso principale, l’assorbimento del primo e l’inammissibilità del ricorso incidentale, la sentenza deve essere cassata, con rinvio alla C.T.R. per la Liguria, che, in diversa composizione, deciderà anche sulle spese del giudizio di legittimità.

P.Q.M.

Accoglie il ricorso principale, dichiara l’inammissibilità di quello incidentale, cassa la sentenza impugnata e rinvia alla C.T.R. per la Liguria, in diversa composizione, anche per le spese del giudizio di legittimità.

Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, inserito dall’art. 1, comma 17, legge n. 228 del 2012, dichiara la sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte dei controricorrenti del contributo unificato previsto per il ricorso a norma dell’art. 1-bis dello stesso art. 13 (ndr comma 1-bis dello stesso art. 13), se dovuto.