CORTE di CASSAZIONE – Sentenza n. 38183 depositata il 30 dicembre 2022

Lavoro – Licenziamento per giustificato motivo oggettivo – Appalto – Società subentrante in sede di cambio appalto –  Sentenze Corte Costituzionale n. 59/2021 e n. 125/2022 –  Risarcimento del danno dovuto anche se il datore ha scelto di non eseguire il licenziamento dichiarato illegittimo e di rinnovarlo per altra causale

Ritenuto in fatto

1. Con sentenza in data 11 marzo 2019, la Corte d’appello di Catania ha respinto il reclamo principale proposto da L.M., nonché quello incidentale avanzato da G. S.p.A., avverso la decisione del locale Tribunale che, pronunziando sull’ordinanza emessa all’esito della fase sommaria, aveva dichiarato illegittimo il licenziamento per giustificato motivo oggettivo intimato al Messina dalla società con decorrenza 23.11.2005, rigettando le domande di reintegrazione e condanna al pagamento dell’indennità risarcitoria ex art. 18 L. n. 300 del 1970 proposte nei confronti della medesima società. La Corte ha, poi, ritenuto inammissibile la domanda volta ad ottenere che venisse dichiarato il diritto del ricorrente all’assunzione presso M.M. S.p.A. in dipendenza del subentro di detta società nell’appalto per il servizio di igiene urbana del Comune di Gravina di Catania, presso il quale era occupato all’epoca del licenziamento.

2. In particolare, il giudice di secondo grado, condividendo l’iter argomentativo del Tribunale, ha ritenuto inconsistenti le ragioni poste a fondamento del reclamo quanto alla insussistenza di un ulteriore licenziamento intimato al dipendente, alla non ricorrenza dei presupposti per il richiesto risarcimento del danno, nonché alla impossibilità di pronunziarsi sulla diversa domanda relativa all’assunzione da parte di società subentrante in sede di cambio appalto.

2.1. Ha ritenuto, poi, la Corte, l’infondatezza delle censure avanzate dalla società reclamante quanto alla ritenuta non ricorrenza dei presupposti dell’appartenenza a cosca mafiosa posti a fondamento del provvedimento interdittivo del Prefetto su cui il licenziamento era fondato, nonché del susseguente atto di recesso.

3. Per la cassazione della sentenza propone ricorso assistito da memoria L.M., affidandolo a tre motivi.

3.1. Resiste, con controricorso, M.M. S.p.A. in liquidazione.

3.2. G. S.p.A. è rimasta intimata.

3.3. Il Procuratore Generale ha concluso per l’accoglimento del secondo motivo di ricorso ed il rigetto dei restanti.

Considerato in diritto

1. Con il primo motivo di ricorso si deduce la violazione e falsa applicazione degli artt. 1362, 1363 e 2118 cod. civ., nonché dell’art. 2, comma I, L. n. 604 del 1966, dell’art. 6, comma I, L. n. 604 1966 e dell’art. 18 L. n. 300 del 1970, con riferimento all’art. 360, n. 3, cod. proc. civ.

Si allega, in particolare, l’erroneità della sentenza nella parte in cui ha ritenuto sussistere un ulteriore licenziamento del ricorrente, oltre a quello già dichiarato illegittimo dal Tribunale di Catania, e non riconosciuto la tutela reintegratoria del lavoratore.

1.1. Con il secondo motivo si denunzia la violazione e falsa applicazione dell’art. 18, commi 4 e 7 della legge n. 300 del 1970, sempre sotto il profilo dell’art. 360, comma 1, n. 3, cod. proc. civ., per aver la decisione di secondo grado negato la tutela risarcitoria al lavoratore per l’illegittimo licenziamento intimato, in quanto fondato su ipotesi di totale insussistenza del fatto posto a base del recesso datoriale.

1.3. Con il terzo motivo si censura la decisione impugnata per violazione e/o falsa applicazione dell’art. 1, comma 48, L. n. 92 del 2012, in riferimento all’art. 360 comma I, n. 3, cod. proc. civ. deducendosi l’errore della Corte d’appello per aver ritenuto di non poter decidere sulla domanda relativa all’accertamento del diritto del ricorrente ad essere assunto da impresa subentrante in appalto da cui era cessata l’azienda che lo aveva licenziato, alla luce dell’utilizzazione del rito di cui all’art. 1, comma 48 e ss. L. n. 92 del 2012.

2. Il primo motivo è infondato.

2.1. Come risulta dalla narrativa della sentenza e dalle stesse deduzioni di parte ricorrente, il primo licenziamento è stato reputato illegittimo alla luce della ritenuta insussistenza del fatto posto a base del medesimo, in quanto, dall’interdittiva prefettizia il nominativo del Messina figurava fra i dipendenti della società nei cui riguardi erano stati accertati precedenti penali, ma non figurava, invece, tra quelli che risultavano appartenere in modo conclamato a Cosa Nostra, né tra i numerosi altri dipendenti segnalati all’Autorità Giudiziaria e/o condannati per reati gravi indicati nell’interdittiva medesima, escludendosi chiaramente l’appartenenza del Messina a cosche mafiose.

La Corte, tuttavia, condividendo correttamente l’iter decisorio del Tribunale, ha escluso che dall’accertata illegittimità del licenziamento intimato potessero discendere le tutele invocate, posto che ad esso (che avrebbe dovuto produrre effetti a decorrere dal 23/11/2015, giorno della comunicazione dell’avvio della procedura) era seguito altro recesso, comunicato con missiva del 28/12/2015 fondato sulla scadenza, in data 31/12/2015, dell’appalto del servizio di igiene urbana con il Comune di Gravina di Catania, licenziamento che, non avendo formato oggetto di alcuna impugnativa ad hoc, costituiva autonoma causa di risoluzione del rapporto di lavoro.

2.2. La Corte, in particolare, ha evidenziato, condividendo le argomentazioni del primo giudice, che il tenore letterale della missiva del 28/12/2015 rendeva palese, contrariamente a quanto sostenuto dal ricorrente, la volontà risolutoria del rapporto, in relazione alla cessazione dell’appalto, là dove, l’espressione ivi contenuta “vorrà… considerare che l’esito della procedura potrebbe determinare l’anticipazione della data di risoluzione del rapporto” doveva reputarsi chiaramente riferita alla pendenza ed agli effetti “della procedura introdotta nei suoi confronti avanti alla direzione del lavoro di Catania ex art. 1 della legge 28 giugno 2012, n. 92”.

Orbene, deve ritenersi non implausibile ed anzi, supportata da adeguato fondamento, l’interpretazione offerta dalla Corte, in uno al Tribunale, nella parte in cui ha ritenuto che dalla piana lettura della missiva considerata emergesse la volontà espulsiva, connessa all’estinzione dell’appalto del servizio di igiene urbana e la chiarificazione circa l’eventuale anticipata cessazione del rapporto lavorativo per effetto dell’esito della procedura introdotta innanzi alla Direzione del lavoro di Catania ex art. 1 lege 28 giugno 2012, n. 92.

La Corte ha, altresì, precisato non solo e non tanto che non si sarebbe fatto luogo al risarcimento per la inoperatività della presunzione assoluta di danno pari a cinque mensilità ai sensi del novellato art. 18 St. Lav., ma, soprattutto, per aver comunque il dipendente continuato a lavorare, percependo la relativa retribuzione, nel periodo compreso tra il 23/11/2015 – data di decorrenza dell’efficacia del primo licenziamento, considerato illegittimo – e il 31/12/2015 – data di definitiva cessazione del rapporto alla luce della comunicazione della volontà espulsiva correlata all’estinzione dell’appalto.

In particolare, entrambi i giudici hanno sottolineato come nella richiamata comunicazione risultasse palese la volontà risolutoria del rapporto a motivo della scadenza dell’appalto ed a prescindere dall’esito della procedura avviata con lettera del 23/11/2015, essendosi il ricorrente, a fronte di tale argomentata motivazione, limitato a fornire la propria personale interpretazione della comunicazione in oggetto, in totale difetto di riferimenti testuali pertinenti e sulla scorta, sostanzialmente, del solo uso del verbo condizionale, riferito, tuttavia, alla procedura introdotta innanzi alla direzione del lavoro di Catania.

Giova evidenziare, al riguardo, che l’interpretazione negoziale espletata secondo i dettami di cui all’art. 1362 e segg. cod. civ., è attività riservata al giudice di merito, pertanto sottratta al sindacato di legittimità, salvo che per il caso della violazione delle regole legali di ermeneutica contrattuale, la quale, tuttavia, non può dirsi esistente sul semplice rilievo che il giudice di merito abbia scelto una piuttosto che un’altra tra le molteplici interpretazioni del testo negoziale, sicché, quando di una clausola siano possibili due o più interpretazioni, non è consentito alla parte, che aveva proposto l’interpretazione disattesa dal giudice, dolersi in sede di legittimità del fatto che ne sia stata privilegiata un’altra (sul punto, ex plurimis, Cass. n. 11254 del 10/05/2018).

Deve, inoltre, sottolinearsi che il richiamo alla comune intenzione delle parti impone di estendere l’indagine ai criteri logici, teleologici e sistematici quando il senso letterale è oscuro o incerto ovvero là dove risulti incoerente con indici esterni che rivelano una diversa volontà dei contraenti (Cass. 12568 del 2021) e tale ipotesi non ricorre, senza dubbio, nel caso di specie.

3. Il secondo motivo merita accoglimento nei termini che seguono.

3.1. L’art. 18, comma 7, della legge n. 300 del 1970 (come novellato dalla legge n.92 del 2012) – che regola l’apparato sanzionatorio da applicare in caso di accertamento della illegittimità di un licenziamento per giustificato motivo oggettivo – è stato inciso da due recenti sentenze della Corte Costituzionale, successive alla pronuncia rescindente, proprio con riguardo ai requisiti per l’applicazione della tutela reintegratoria: la sentenza n. 59 del 2021 ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 18, settimo comma, secondo periodo, della legge 20 maggio 1970, n. 300, come modificato dall’art. 1, comma 42, lettera b), della legge 28 giugno 2012, n. 92, nella parte in cui prevede che il giudice, quando accerti la manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, «può altresì applicare» – invece che «applica altresì» – la disciplina di cui al medesimo art. 18, quarto comma; la sentenza n. 125 del 2022 ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 18, settimo comma, secondo periodo, della legge 20 maggio 1970, n. 300, come modificato dall’art. 1, comma 42, lettera b), della legge 28 giugno 2012, n. 92, limitatamente alla parola «manifesta». Per effetto dell’intervento della Corte costituzionale, il giudice, una volta accertata l’insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, ordina – in simmetria col regime dei licenziamenti soggettivi – la reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro, senza alcuna facoltà di scelta tra tutela ripristinatoria e tutela economica (cfr., sul punto, Cass. n. 30167 del 2022).

Ha ritenuto invero questa Corte, quanto all’indennità risarcitoria prevista dall’art. 18, (cfr. Cass. n. 28703 del 2011) che il risarcimento del danno, stabilito dall’art. 18 della legge n. 300 del 1970 nella misura minima di cinque mensilità, sia dovuto per il solo fatto dell’intimazione di un licenziamento illegittimo, indipendentemente dalla necessità di un intervento reintegratorio, e, pertanto, anche quando il rapporto di lavoro non abbia avuto un’effettiva interruzione.

In particolare, è stato affermato che, riconosciuto illegittimo il licenziamento, va condannato il datore di lavoro a pagare il risarcimento in questione, pur nelle ipotesi in cui egli abbia scelto di non eseguire il licenziamento medesimo e di rinnovarlo per altra causale (Cfr. Cass. n. 28703/2011 cit).

Come ritenuto, fra le altre, da Cass. n. 7049 del 2007, n. 6751, essendosi il primo licenziamento, in quanto negozio unilaterale recettizio, già perfezionato nel momento in cui la manifestazione di volontà del datore di lavoro recedente è giunta a conoscenza del lavoratore e, quindi, ancor prima del verificarsi dell’effetto risolutivo, differito a data successiva, è comunque dovuta la condanna al pagamento del risarcimento dei danni nella misura minima inderogabile di cinque mensilità.

Nella specie, risulta accertato e pacifico, altresì, fra le parti, che il Messina abbia continuato a lavorare – percependo la relativa retribuzione – fra il 23/11/2015 (data di decorrenza del primo licenziamento) e il 31/12/2015 (data di decorrenza del secondo licenziamento), talché non può essere disposta in suo favore alcuna condanna alla corresponsione delle retribuzioni, atteso che la stessa si tradurrebbe in una illegittima locupletazione.

Deve, tuttavia, ritenersi, alla luce della richiamata giurisprudenza di legittimità, la sussistenza del diritto al risarcimento del danno, nella misura minima di cinque mensilità, per effetto del combinato disposto dei commi 7 (come riformulato da Corte cost. n. 59/2021), 2 e 4 dell’art. 18 della legge n. 300 del 1970.

4. Il terzo motivo è infondato.

Occorre premettere che questa Corte ha chiarito (cfr., sul punto, da ultimo, Cass. n. 38209 del 2021) come nel rito cd. ” Fornero”, ai sensi dell’art. 1, comma 48, della l. n. 92 del 2012, possono essere proposte, oltre alle domande relative all’impugnativa del licenziamento nelle ipotesi regolate dall’art. 18 Stat. lav., soltanto quelle fondate sui medesimi fatti costitutivi – la cessazione del rapporto di lavoro – perché il loro esame non comporta un indebito ampliamento del tema sottoposto a decisione e consente di evitare il frazionamento dei processi e le pronunzie di mero rito; sono invece inammissibili le domande fondate su fatti differenti anche ove originati dallo stesso accertamento dell’illegittimità del licenziamento.

In particolare, in sede di legittimità è stato affermato (cfr., fra le altre, Cass. n. 7586 del 2018; Cass. n. 20772 del 2018; Cass. n. 30433 del 2018; Cass. n. 10415 del 2020) che non può realizzarsi un indebito ampliamento del thema decidendum, non coerente con i principi e le esigenze acceleratorie sottese all’introduzione della norma di cui al comma 48 dell’art. 1 della legge n. 92/2012.

Al comma 48 dell’art. 1 della legge n. 92 del 2012, che prevede testualmente che “con il ricorso non possono essere proposte domande diverse da quelle di cui al comma 47 del presente articolo, salvo che siano fondate sugli identici fatti costitutivi”, deve essere ricondotto un significato che risponda all’intento di evitare che il “thema decidendum”, individuato con riferimento al nucleo della controversia necessariamente assoggettato al rito speciale, si allarghi con l’introduzione di nuovi temi d’indagine, tali da ritardare il processo, vanificando la celerità della sua conclusione (in questi termini, Cass. n. 17091/2016).

In applicazione di tale principio, deve ritenersi corretta la valutazione di inammissibilità delle domande dirette al riconoscimento del diritto del ricorrente alla costituzione di un rapporto di lavoro con la società M.M., successore della G. S.p.A. per effetto del cambio appalto, avendo correttamente escluso entrambi i giudici di merito la possibilità di far confluire tale domanda nell’ambito delle “domande diverse” fondate sugli identici fatti costitutivi di cui all’art. 48 L. n. 92 del 2012 (ndr comma 48 dell’art. 1 della legge n. 92/2012), proprio alla luce della diversità dei fatti posti a fondamento della mancata assunzione.

5. Alla luce delle suesposte argomentazioni, quindi, respinti il primo ed il terzo motivo di ricorso, deve essere accolto il secondo nei termini di cui in motivazione.

6. La sentenza deve essere cassata in relazione al motivo accolto e la causa rinviata alla Corte d’appello di Catania, in diversa composizione, anche in ordine alle spese relative al giudizio di legittimità.

7. Le spese nei confronti della costituita società MO.SE.MA S.p.A. seguono la soccombenza e si liquidano come in dispositivo.

7.1. Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.P.R. n. 115 del 2002, da atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, a norma dell’art. 1 –bis dello stesso articolo 13 (ndr comma 1 –bis dello stesso articolo 13), se dovuto.

P.Q.M.

Respinge il primo ed il terzo motivo di ricorso, accoglie il secondo nei termini di cui in motivazione. Cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia la causa alla Corte d’appello di Catania, in diversa composizione anche per le spese del presente giudizio di legittimità nei rapporti tra il ricorrente e l’intimata G. S.p.A . Condanna parte ricorrente alla rifusione delle spese processuali in favore della M.M. S.p.A. in liquidazione, in complessivi euro 3500,00 per compensi e 200,00 per esborsi, oltre spese generali al 15% e accessori di legge. Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.P.R. n. 115 del 2002, da atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, a norma dell’art. 1 –bis dello stesso articolo 13 (ndr comma 1 –bis dello stesso articolo 13), se dovuto.