Corte di Cassazione sentenza n. 4148 depositata il 21 febbraio 2018

ELUSIONE FISCALE – CESSIONE D’AZIENDA – FATTISPECIE

FATTI DI CAUSA

L’Agenzia delle entrate propone ricorso per cassazione con un motivo nei confronti della sentenza della Commissione tributaria regionale della Lombardia che, confermando la decisione di primo grado, nel giudizio introdotto dalla spa ACSA in liquidazione, esercente l’attività di produzione di acciai stampati, con l’impugnazione dell’avviso di rettifica della dichiarazione IRPEG per l’anno 1999 – con il quale era stato contestato il carattere elusivo di operazioni collegate poste in essere tra il 1997 ed il 1999, determinando una maggiore imposta conseguente ai maggiori ricavi derivanti dalla cessione di un’azienda, ed era stata stabilita l’indeducibilità di minusvalenze conseguenti alla cessione del diritto di usufrutto su azioni della ACSA Steel Forging spa – ha confermato l’annullamento dell’atto impositivo in relazione al primo rilievo, mentre ha confermato il fondamento della pretesa dell’ufficio con riguardo al secondo rilievo.

La prima contestazione concerne la cessione ad opera della contribuente, il 21 ottobre 1999, della azienda di lavorazione e stampaggio di acciai per Lire 100.000.000 alla ACSA Steel Forging spa alla quale in precedenza, nel marzo del 1997, quando quest’ultima era appena stata costituita, la medesima azienda era stata affittata al canone di Lire 7.500.000.000, elevato qualche settimana dopo a Lire 9.500.000.000; due mesi dopo la cessione dell’azienda, il 29 dicembre 1999, i beni strumentali, le attrezzature, erano state vendute alla stessa ACSA Steel Forging spa per Lire 2.000.000.000. L’ufficio riteneva che l’accordo dell’ottobre 1999 fosse stato stipulato in frode alla legge o quanto meno in via elusiva, ed aveva percio’ accertato induttivamente, ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 37 bis un maggiore valore del bene determinando conseguentemente l’imposta con l’avviso.

Il giudice d’appello, premesso che si discute di imposta sui redditi e non di registro, con la conseguenza che onere dell’amministrazione non e’ dimostrare il maggior valore del bene azienda ceduto, ma “provare che tra le parti sono “transitati” prezzi effettivi maggiori di quelli praticati, con conseguenti maggiori ricavi e dunque maggiori imposte”, osserva che occorre stabilire se, al di là del valore dichiarato o accertato, siano passate tra le parti somme superiori a quelle ricavate dalla lettura degli atti; ed in proposito “l’onere probatorio, incombente sull’ufficio, non puo’ dirsi assolto, non essendovi traccia di accertamenti bancari o di documentazione extracontabile che deponga in tal senso, ma solo una serie di presunzioni, ben poco precise e concordanti. E’ certo vero che l’azienda valeva molto piu’ dei 100 milioni stabiliti dalle parti, come emerge dai canoni d’affitto, stabiliti e pure aumentati due anni prima, tanto che in sede di accertamento di imposta di registro tale valore e’ stato aumentato fin a oltre due, miliardi. Ma non c’e’ alcuna prova certa che ACSA non abbia inteso cedere a prezzo vile il bene. In fondo si tratta di beni appartenenti allo stesso gruppo, ed e’ ben possibile che in un’ottica di gruppo si sia deciso di transitare l’azienda da ACSA spa a ACSA Steel Forgings spa a cifre irrisorie Argomentare sull’ammontare dei canoni di affitto di due anni prima giova a poco. Nulla e’ stato detto, e nulla e’ stato provato, circa il fatto che tra il 1997 ed il 1999 il valore dell’azienda sotto il profilo del suo avviamento sia drammaticamente crollato e che dunque la contenuta cifra su cui le parti si sono trovate d’accordo rispecchi veramente la realtà.

La seconda contestazione concerne la deducibilità della minusvalenza realizzata dalla società contribuente per effetto dell’alienazione del diritto di usufrutto su azioni della ACSA Steel Forgings spa, contro il pagamento di un corrispettivo al nudo proprietario, la lussemburghese Societe’ Financiere Senningerberg S.A., con atto del 18 marzo 1997, e con un secondo atto del 1 luglio 1997, il quale prevedeva l’aumento del corrispettivo, ma ometteva, rispetto al primo, la considerazione del periodo 01.07.2000-30.06.2001, e quindi la relativa quota annuale di Lire 8.500.000.000, la quale, non essendo, come si e’ visto, prevista dalle parti nel contratto, non poteva essere presa in considerazione ai fini del calcolo della minusvalenza.

Secondo la società contribuente si sarebbe trattato solo di un errore contabile, e quindi essa avrebbe pagato alla nuda proprietaria tutti i corrispettivi di godimento, anche per il periodo “mancante” (01.07.2000-30.06.2001), mentre per l’ufficio in quel periodo i corrispettivi sarebbero stati come da contratto sospesi, sicche’ “essi non possono essere calcolati allorche’ e’ emersa la minusvalenza”.

Il giudice d’appello ha ritenuto non provato l’errore addotto dalla contribuente, in mancanza di “prove documentali convincenti in tal senso, come scambio di lettere, nuovi accordi scritti, contratti pre negoziali, storni di pagamento etc.”, ed apparendo “inverosimile che le parti non si siano accorte prima dell’accertamento, di molto successivo al 1999, di quel “buco” nella successione delle rate”.

La ACSA spa resiste con controricorso articolando due motivi di ricorso incidentale, illustrati con successiva memoria, concernente il secondo rilievo, che l’ha vista soccombente in appello.

RAGIONI DELLE DECISIONE

Con l’unico motivo del ricorso principale l’amministrazione denuncia “omessa o insufficiente motivazione su punti di fatto decisivi, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5. Violazione e falsa applicazione del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 37 bis in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3”. Richiamando la ricostruzione della vicenda operata nell’atto di appello, in larga parte trascritto, osserva che il punto decisivo andrebbe individuato nella risoluzione del contratto di affitto di azienda, avvenuta contestualmente alla cessione d’azienda, scorporandone in realtà i beni strumentali per cederli, per Lire 2 miliardi, con un successivo contratto del dicembre 1999. Era cosi’ rimasta da cedere un’azienda al netto dei beni strumentali, alla quale si era attribuito il valore residuo di Lire 100.000.000: “tuttavia, il contratto di affitto di azienda nella stessa data in cui venne stipulata la cessione dell’azienda era stato risolto indicando un valore residuo dell’azienda a quel momento – ottobre 1999 – di ben Lire 17.963.275.300, il che escludeva che, anche al netto dei beni strumentali valutati Lire 2.000.000.000, il valore residuo dell’azienda potesse essere pari a Lire 100.000.000 con la conseguenza che il detto complesso di negozi tendeva solo a mascherare tale valore effettivo in modo che non dovesse emergere nell’atto di cessione e generare una plusvalenza tassabile. L’amministrazione censura percio’ la decisione per aver offerto una motivazione insufficiente del convincimento (della CTR) che il valore netto dei beni strumentali potesse anche essere pari a Lire 100.000.000, perche’ basato solo sul fatto che non sarebbe stato contestato il calo di utili dedotto dalla società laddove l’ufficio aveva dedotto altra circostanza di fatto – la stima in Lire 17.963.275.300 del valore dell’azienda al 21 ottobre 1999 fatta dalle medesime parti lo stesso giorno in cui venne stipulata la cessione di azienda che avrebbe potuto condurre, se adeguatamente motivato, a conclusione diversa circa il valore dell’azienda ceduta al netto dei beni strumentali. Trascurando di motivare a tale proposito la CTR avrebbe offerto una motivazione insufficiente su un punto di fatto decisivo – gli indizi del reale valore dell’azienda, al netto dei beni strumentali, al momento della cessione – al fine di valutare la congruità economica del negozio di cessione, e cosi’ di qualificarlo come negozio elusivo o meno.

Del pari insufficiente sarebbe la motivazione addotta dalla CTR per smentire la ricostruzione dell’ufficio, secondo cui questo non avrebbe fornito indizi di pagamenti effettivi superiori a quelli dichiarati. Il punto, infatti, sarebbe giuridicamente irrilevante, donde anche la denunciata violazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 37 bis perche’ la tesi di esso ufficio dichiaratamente basata su tale norma era che i negozi fossero stati elusivi, cioe’ volti ad impedire che la plusvalenza si formasse, con i suoi effetti fiscali, non che fosse stato occultato un maggior corrispettivo effettivamente pagato: tali negozi dovevano quindi essere disconosciuti e sostituiti con la stima del valore normale dell’azienda ceduta.

Le censure sono fondate.

A norma del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 37 bis infatti, sono inopponibili all’amministrazione finanziaria gli atti i fatti e i negozi – fra i quali sono espressamente previsti i negozi aventi ad oggetto il trasferimento o il godimento di aziende -, anche collegati fra loro, privi di valide ragioni economiche, diretti ad aggirare obblighi o divieti previsti dall’ordinamento tributario e ad ottenere riduzioni di imposte o rimborsi, altrimenti indebiti.

Incorre quindi nell’errore di diritto ad essa addebitato la CTR, la quale postula invece essere essenziale stabilire (“ora incombe il compito di stabilire…”) “se tra le parti siano passate somme superiori a quelle ricavate dalla lettura degli atti”, e rileva che “non v’e’ traccia di accertamenti bancari o di documentazione extra contabile che deponga in tal senso, ma solo una serie di presunzioni ben poco precise e concordanti”. Il giudice d’appello erroneamente configura la condotta abusiva nell’occultamento di un maggiore corrispettivo effettivamente pagato, piuttosto che riscontrare nei negozi collegati lo schema elusivo contestato.

Secondo il principio in piu’ occasioni affermato da questa Corte, infatti, “in materia tributaria, costituisce condotta abusiva l’operazione economica che abbia quale suo elemento predominante ed assorbente lo scopo di eludere il fisco, sicche’ il divieto di siffatte operazioni non opera qualora esse possano spiegarsi altrimenti che con il mero intento di conseguire un risparmio di imposta, fermo restando che incombe sull’Amministrazione finanziaria la prova sia del disegno elusivo che delle modalità di manipolazione e di alterazione degli schemi negoziali classici, considerati come irragionevoli in una normale logica di mercato e perseguiti solo per pervenire a quel risultato fiscale: in applicazione dell’anzidetto principio, la S.C. ha cassato la sentenza impugnata, che aveva ritenuto che l’Agenzia delle Entrate non avesse fornito la prova che l’intento economico unico dell’operazione fosse un indebito risparmio fiscale, senza invece valorizzare i diversi elementi sintomatici della sussistenza dell’abuso allegati dalla stessa” (Cass. n. 4603 del 2014, n. 9610 del 2017).

Va del pari ravvisato nella decisione impugnata il vizio di motivazione.

A fronte delle articolate deduzioni formulate nuovamente dall’ufficio nell’appello secondo cui i negozi collegati tendevano solo a mascherare il valore effettivo della cessione d’azienda in modo che esso non emergesse nell’atto di cessione e generasse una plusvalenza tassabile; e secondo cui la risoluzione del contratto di affitto dell’azienda (stipulato il 19 marzo 1997 per Lire 7.500.000.000 annui, poi elevato il 1 luglio 1997 a Lire 9.500.000.000 annui) nella stessa data in cui veniva stipulata la cessione dell’azienda, indicando un valore residuo dell’azienda a quel momento, ottobre 1999, di ben Lire 17.963.275.300, portava ad escludere che, anche al netto dei beni strumentali valutati Lire 2.000.000.000, il valore residuo dell’azienda potesse essere pari a Lire 100.000.000 – il giudice d’appello ha dato una motivazione – oltre che tutt’altro che immune dall’erronea applicazione della norma del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 37 bis di cui supra – insufficiente, inadeguata e perplessa, su un punto di fatto decisivo, gli elementi per individuare il reale valore dell’azienda al momento della cessione, al fine di valutare la congruità economica del negozio di cessione, e cosi’ di qualificarlo come negozio elusivo o meno, e quindi che il valore della cessione, anche al netto dei beni strumentali, potesse essere pari a Lire 100.000.000, osservando “che e’ certo vero che l’azienda valeva molto di piu’ dei 1000 milioni stabiliti dalle parti, come emerge dai canoni d’affitto, stabiliti e pure aumentati due anni prima, tanto che in sede di accertamento dell’imposta di registro tale valore e’ stato aumentato fino a oltre 2 miliardi. In fondo non c’e’ alcuna prova certa che ACSA non abbia inteso cedere a prezzo vile il bene. In fondo si tratta di entità appartenenti allo stesso gruppo, ed e’ ben possibile che, in un’ottica di gruppo, si sia deciso di far transitare l’azienda da ACSA spa ad ACSA Steel Forgino a cifre irrisorie. Se cio’ puo’ apparire difficilmente verosimile, si deve pero’ rammentare che l’azienda di cui si discute e’ quella priva di beni strumentali Argomentare sull’ammontare dei canoni d’affitto di due anni prima giova a poco. Nulla e’ detto (e nulla e’ stato provato) circa il fatto che tra il 1997 e il 1999 valore dell’azienda sotto il profilo del suo avviamento sia drammaticamente crollato e che dunque la contenuta cifra su cui le parti si sono trovate d’accordo rispecchi veramente la realtà.

Col primo motivo del ricorso incidentale la contribuente denuncia, in riferimento all’art. 360 c.p.c., n. 3, violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 e dell’art. 1362 cod. civ., in tema di onere della prova circa la volontà delle parti di un contratto, assumendo che la CTR avrebbe dovuto analizzare il testo degli accordi conclusi dalle parti (quello originario e la successiva integrazione) prodotti in giudizio dalla contribuente e da quelli desumere la volontà dei contraenti: esigendo non ben precisate prove documentali, peraltro non nella disponibilità della contribuente, la CTR avrebbe violato il disposto delle norme in rubrica; con il secondo, denuncia insufficiente motivazione circa un fatto controverso e decisivo del giudizio con riferimento all’art. 360 c.p.c., n. 5, assumendo che il giudice di merito non avrebbe tenuto conto del fatto che le parti, nell’addivenire all’accordo integrativo, avevano espresso la volontà di integrare l’originario accordo, e non di sostituirlo.

I due motivi, da esaminare congiuntamente in quanto strettamente legati, sono in parte inammissibili ed in parte infondati.

Quanto al primo, la ricorrente non sembra individuare una specifica violazione di legge, limitandosi a richiedere una diversa lettura del materiale probatorio.

Con riguardo al secondo motivo, il Collegio osserva che secondo il proprio consolidato indirizzo “il vizio di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5 non conferisce alla Corte di cassazione il potere di riesaminare e valutare autonomamente il merito della causa ma solo quello di controllare, sotto il profilo logico – formale e della correttezza giuridica – in relazione ad un punto decisivo della controversia prospettato dalle parti o rilevabile d’ufficio -, le argomentazioni svolte dal giudice del merito, al quale esclusivamente spetta individuare le fonti del proprio convincimento, esaminare le prove, controllarne l’attendibilità e la concludenza, scegliere tra le risultanze istruttorie quelle ritenute piu’ idonee a dimostrare i fatti in discussione, dare la prevalenza all’uno o all’altro mezzo di prova, salvi i casi tassativamente previsti dalla legge” (ex multis, Cass. n. 5806 del 2000, n. 4766 del 2006).

Nella specie, il giudice di merito ha dato conto dei criteri seguiti nell’esame del materiale probatorio e della ragioni della prevalenza accordata all’uno o all’altro elemento, con motivazione priva di vizi logici.

La Commissione regionale ha ritenuto non provato l’errore addotto dalla contribuente in quanto “non vi sono in atti prove documentali convincenti in tal senso come scambio di lettere, nuovi accordi scritti, contatti pre-negoziali, storni di pagamenti etc.”. La tesi secondo cui non vi sarebbe stata ragione perche’ le parti non prevedessero per quell’anno il pagamento per il godimento del bene “e’ pero’ mera asserzione che lascia il tempo che trova, una petizione di principio, potendo essere mille e una le cause per cui si decida che per un certo periodo del contratto non si debba far luogo a pagamenti Appare viceversa inverosimile che le parti non si siano accorte prima dell’accertamento (di molto successivo al 1999) di quel “buco” nella successione delle rate. Stiamo parlando infatti di cifre imponenti: oltre 8 miliardi, che ogni contabile interno o ogni organo di controllo (collegio sindacale, società di revisione, istituti bancari) non avrebbe mancato di notare e segnalare. Ebbene solo una convincente documentazione bancaria e contabile potrebbe smentire la netta sensazione che non si sia trattato di un mero errore, ma di una precisa scelta contrattuale. E si badi, che dovrebbe trattarsi dei documenti contabili (illustranti l’operatività economica) e bancari (illustranti l’effettività del movimento finanziario) realmente pertinenti”. A tal proposito, “la società appellante ha prodotto solo le contabili bancarie e le annotazioni del libro giornale di ACSA limitatamente al periodo 1997-1999 e non quello 2000-2001. Si e’ ben consci che si tratta di documenti contabili da richiedersi a terzi, la Finarmo usufruttuaria (recte, nuda proprietaria) del bene dal 1999 in poi. Tuttavia si ritiene che tale documentazione avrebbe potuto essere oggetto di una istanza istruttoria apposita alla Commissione, cosa che ci si e’ ben guardati dal fare, ne’ in sede giudiziaria (in primo e secondo grado), ne’ (ed e’ quel che piu’ conta), in sede di verifica preliminare all’accertamento che qua”.

In conclusione, il ricorso principale deve essere accolto, mentre va rigettato il ricorso incidentale, la sentenza impugnata deve essere cassata in relazione al motivo accolto e la causa rinviata, anche per le spese, alla Commissione tributaria regionale della Lombardia in diversa composizione.

P.Q.M.

La Corte accoglie il ricorso principale e rigetta il ricorso incidentale, cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia, anche per le spese, alla Commissione tributaria regionale della Lombardia in differente composizione.