CORTE di CASSAZIONE – Sentenza n. 5331 depositata il 21 febbraio 2023
Tributi – Avviso di accertamento – IRPEF, IRAP e IVA – Sottofatturazione dei ricavi – Accessi, ispezioni e verifiche presso i locali destinati alle attività commerciali che siano anche residenza del contribuente – Accoglimento – La violazione degli artt. 115 e 116 cod. proc. civ. afferenti alla prova e alla sua valutazione, va ricondotta nella critica alla motivazione, censurabile nei limiti consentiti dall’art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ., dovendosi invece escludere un vizio di violazione o falsa applicazione di norme processuali, sussumibile nella fattispecie di cui all’art. 360, comma 1, n. 4, cod. proc. civ.
Fatti di causa
Dalla sentenza impugnata e dal ricorso si evince che a seguito di una verifica relativa a più anni d’imposta, condotta da militari della GdF nei confronti del B., titolare di una attività commerciale, e del rinvenimento di brogliacci relativi alla vendita di merce “in nero”, l’Agenzia delle entrate notificò gli avvisi d’accertamento (per quanto qui di interesse) per le annualità 2007, 2008, 2009 e 2010. Per ciascun anno accertò un maggior imponibile, così rideterminando le imposte ai fini Irpef, Irap ed Iva. Irrogò anche le sanzioni.
Il B., che contestava la legittimità dell’accesso presso i locali, nei quali era stata acquisita la documentazione, perché adibiti esclusivamente ad abitazione e dunque in assenza di autorizzazione del Procuratore della Repubblica, e che censurava gli avvisi di accertamento per varie altre ragioni, impugnò gli atti impositivi dinanzi alla Commissione tributaria provinciale di Vicenza. Il giudice provinciale, con sentenza n. 147/04/2014, afferente all’anno d’imposta 2007, accolse il ricorso; con sentenza n. 355/03/2014, afferente gli anni d’imposta 2008/2010, accolse in parte le ragioni del ricorrente.
Entrambe le pronunce furono appellate dall’Agenzia delle entrate e, la seconda, anche dal contribuente per quanto soccombente, dinanzi alla Commissione tributaria regionale del Veneto, che con sentenza n. 1705/24/2015, riuniti gli appelli, accolse le ragioni dell’ufficio, confermando integralmente gli atti impositivi.
Il giudice regionale ha considerato legittima l’acquisizione della documentazione presso il locale-taverna dell’immobile del B., ritenendolo adibito ad una funzione “mista” di abitazione/luogo di esercizio dell’attività, rispetto al quale era rituale e sufficiente l’autorizzazione rilasciata dal Procuratore della Repubblica, ex art. 52, comma 1, del d.P.R. 26 settembre 1972 (ndr art. 52, comma 1, del d.P.R. 26 ottobre 1972). Ha affermato che comunque l’eventuale carenza di autorizzazione non avrebbe comportato la inutilizzabilità della documentazione acquisita. Ha criticato poi il criterio di determinazione del reddito del contribuente, utilizzato nella sentenza n. 355/03/2014.
Il ricorrente ha censurato la decisione con sette motivi, chiedendone la cassazione. L’Amministrazione finanziaria ha depositato un “atto di costituzione”, al solo fine della eventuale partecipazione all’udienza di discussione.
All’esito della udienza pubblica del 24 gennaio 2023 la causa è stata riservata e decisa.
Il contribuente ha depositato memoria difensiva ai sensi dell’art. 378 cod. proc. civ.
Ragioni della decisione
Con il primo motivo il ricorrente ha denunciato la nullità della sentenza per violazione dell’art. 36 del d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, nonché degli artt. 115 e 116 cod. proc. civ., in relazione all’art. 360, primo comma, n. 4, cod. proc. civ., quanto all’erronea valutazione della documentazione allegata al processo.
Nello specifico la difesa del B. sostiene che, fondandosi l’accertamento sul rinvenimento di 290 cartelline di clienti, da cui si era desunta la tenuta di una contabilità in nero e la sottofatturazione dei ricavi, era palese la illegittima acquisizione di quei documenti, rinvenuti presso l’abitazione del contribuente e non nei locali adibiti all’attività commerciale, così che per l’esecuzione dell’accesso sarebbe stato necessario richiedere al Procuratore della Repubblica l’autorizzazione ai sensi dell’art. 52, comma 2, del d.P.R. n. 633 del 1972, sulla base di indizi gravi. Ha ritenuto che la decisione, ritenendo legittima l’acquisizione della documentazione pur senza quella autorizzazione, concessa invece ai sensi del comma 1 della medesima norma, e comunque solo per l’accesso ai locali in cui il B. esercitava la propria attività economica, fosse affetta dall’assenza di una motivazione logica, supportata da prove idonee e sufficienti, secondo quanto prescritto dall’art. 36 cit. e dagli artt. 115 e 116 cod. proc. civ.
Il motivo, per come formulato, è inammissibile.
Intanto, sotto il profilo strettamente interpretativo, l’art. 36 cit. afferisce alle prescrizioni relative al contenuto della sentenza, la cui violazione va ricondotta nel vizio processuale e nella nullità della sentenza.
Gli artt. 115 e 116 cod. proc. civ. afferiscono invece alla prova e alla sua valutazione, così che la loro violazione va ricondotta nella critica alla motivazione, censurabile nei limiti consentiti dall’art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ., dovendosi invece escludere un vizio di violazione o falsa applicazione di norme processuali, sussumibile nella fattispecie di cui all’art. 360, comma 1, n. 4, cod. proc. civ., (Cass., 12 ottobre 2021, n. 27847; 11 febbraio 2021, n. 3572; 12 ottobre 2017, n. 23940; 30 novembre 2016, n. 24434).
Quanto all’art. 36 cit., esso, richiamando tra le prescrizioni del contenuto della sentenza la motivazione su cui deve fondarsi il dispositivo, in parallelo con l’art. 132, secondo comma, n. 4, cod. proc. civ., va riferito al vizio radicale, quale l’assenza di motivazione o la sua apparenza, non invece all’addebitata erronea ponderazione delle prove allegate al processo.
Ne discende che la critica formulata con il primo motivo, con cui si lamenta l’errata valutazione dei fatti e delle prove addotte, è del tutto inammissibile.
Con il secondo motivo il ricorrente denuncia l’omesso esame di un fatto decisivo, che è stato oggetto di discussione tra le parti, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ., quanto alla mancata valutazione della perizia di parte, depositata nel processo, che provava l’indipendenza dei locali in cui il B. esercitava l’attività economica, rispetto all’abitazione, in cui quella documentazione era stata materialmente rinvenuta.
Anche questo motivo è inammissibile. Va premesso che la sentenza impugnata è stata pubblicata l’11 novembre 2015. Ad essa trova applicazione l’art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ., come riformulato dall’art. 54 del d.l. 22 giugno 2012, n. 83, convertito con modificazioni dalla I. 7 agosto 2012, n. 134. Con la nuova formulazione del n. 5 lo specifico vizio denunciabile per cassazione deve essere relativo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, e che, se esaminato, avrebbe potuto determinare un esito diverso della controversia. Pertanto l’omesso esame di elementi istruttori non integra, di per sé, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorché la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie (Cass., 29/10/2018, n. 27415).
Quand’anche l’omessa ammissione di una prova possa essere denunciata per cassazione nel caso in cui essa abbia determinato l’assenza di motivazione su un punto decisivo della controversia e, quindi, ove la prova non ammessa ovvero non esaminata in concreto sia idonea a dimostrare circostanze tali da invalidare, con un giudizio di certezza e non di mera probabilità, l’efficacia delle altre risultanze istruttorie che hanno determinato il convincimento del giudice di merito, nel caso di specie ciò che il ricorrente lamenta è il mancato esame di una perizia di parte, che non assume alcuna valenza probatoria (sarebbe stato al più necessario disporre la nomina di un ausiliario del giudice). Ed in ogni caso la sentenza, al contrario di quanto pretende la difesa del B., ha espressamente esaminato la questione relativa alla contiguità dei luoghi, tra quelli destinati all’attività propriamente economica e quelli deputati ad abitazione -ma anche a domicilio fiscale del ricorrente-, riconoscendo, per il rapporto logistico esistente tra le due unità (stessi immobili, posti ad angolo tra le due vie, agevole comunicabilità tra i medesimi) l’utilizzo promiscuo, sufficiente a supportate le conclusioni, in punto di diritto, cui la Commissione regionale è pervenuta.
A prescindere dalla condivisibilità o meno delle valutazioni del giudice regionale, è indiscusso che si trattasse di una valutazione in fatto, non censurabile in sede di legittimità.
Con il terzo motivo il ricorrente si duole della violazione e falsa applicazione degli artt. 52, comma 1, del d.P.R. n. 633 del 1972, e degli artt. 13 e 14 della Costituzione, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., laddove la commissione regionale non ha riconosciuto la necessità di specificare i “gravi indizi di violazione delle norme tributarie” in ogni caso e dunque anche nelle ipotesi di accesso a locali ad uso promiscuo.
Con il quarto motivo il contribuente ha lamentato la violazione e falsa applicazione dell’art. 52, comma 2, del d.P.R. n. 633 del 1972, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., laddove il giudice d’appello non ha inteso che la fattispecie trovava disciplina nel suddetto comma, con necessità di autorizzazione fondata su gravi ragioni. Con il quinto motivo la difesa del B. lamenta la violazione e falsa applicazione degli artt. 52 del d.P.R. n. 633 del 1972, degli artt. 14, 24 e 111 della Costituzione, perché la commissione ha ritenuto utilizzabili le prove illegittimamente rinvenute presso la taverna del ricorrente.
I tre motivi possono essere trattati congiuntamente perché con essi il contribuente ha criticato la sentenza nella parte in cui ha ritenuto legittimo l’accesso e l’acquisizione della documentazione posta poi a fondamento dell’avviso d’accertamento.
La difesa del B. si sviluppa, in senso progressivo, nel seguente ordine: 1) l’autorizzazione del Procuratore della Repubblica, richiesta per l’accesso a locali che, anche in forma promiscua, sono destinati alla abitazione del contribuente e alla sua attività lavorativa, deve essere sempre fondata su gravi ragioni, altrimenti violandosi i principi costituzionali della inviolabilità del domicilio; 2) in ogni caso la fattispecie andava sussunta nella disciplina più rigorosa apprestata per le ipotesi di accessi e perquisizioni nell’unità adibita esclusivamente ad abitazione del contribuente; 3) la mancata osservanza delle regole di garanzia preposte alla tutela del domicilio del contribuente hanno consentito l’utilizzo, illegittimo, della documentazione trovata in occasione dell’accesso presso l’abitazione del B..
I motivi sono infondati.
Va intanto affermato che la disciplina dettata dal citato art. 52 in materia di Iva, applicabile anche in tema di imposte dirette per il rinvio che a quella norma è operato dall’art. 33, comma 1, del d.lgs. 29 settembre 1973, n. 600, distingue tre ipotesi. Nel primo comma è previsto che per gli accessi, le ispezioni e le verifiche presso i locali destinati alle attività commerciali, agricole, artistiche o professionali (oltre che per gli enti in esso espressamente richiamati), gli impiegati dell’Amministrazione finanziaria devono essere muniti dell’autorizzazione, «che ne indica lo scopo, rilasciata dal capo dell’ufficio da cui dipendono».
Quando tuttavia i suddetti locali siano anche adibiti ad abitazione del contribuente il medesimo comma prescrive che quella autorizzazione venga rilasciata dal Procuratore della Repubblica.
Dalla piana lettura del primo comma si desume che l’accesso, anche quando riferito ai locali adibiti ad uso esclusivamente commerciale, deve essere preceduto dal rilascio dell’autorizzazione da parte del capo dell’ufficio, autorizzazione munita dalla esplicitazione dello scopo per il quale la pubblica autorità “invade” la sfera privata del contribuente. Nella ricerca di “elementi utili all’accertamento dell’imposta e per la repressione dell’evasione e di ogni altra violazione”, la motivazione a supporto del provvedimento autorizzativo consiste nella indicazione delle ragioni dell’accesso, in rapporto alle finalità fiscali. Non è richiesto alcun grave indizio.
Parimenti, quando i luoghi nei quali il personale dell’agenzia delle entrate (o i militari della GdF) siano deputati ad un utilizzo misto, ossia anche abitativo, il maggior controllo è assicurato dalla provenienza dell’autorizzazione dal Procuratore della Repubblica. Non ne muta dunque il contenuto, perché, a fronte della scelta del contribuente di destinare ad uso promiscuo i locali della sua abitazione anche a scopi commerciali, per tali intendendosi anche quelli in cui sono compiute ed evase le attività e le incombenze amministrative dell’attività commerciale medesima, il bilanciamento degli interessi in gioco è assicurato dall’emissione dell’autorizzazione da parte dell’autorità giudiziaria. Si tratta cioè di un soggetto terzo, dotato di particolare capacità di controllo, che compie una preventiva verifica delle ragioni dell’accesso al fine di riconoscere la sua legittimità operativa.
Ove invece l’accesso deve compiersi in locali diversi da quelli deputati all’attività economica esercitata, per essere invece destinata ad abitazione del contribuente, il secondo comma dell’art. 52 prevede che l’autorizzazione debba essere rilasciata solo dal Procuratore della Repubblica e che inoltre si tratti di ipotesi in cui sia rappresentata la sussistenza di gravi indizi di violazione delle norme fiscali. È solo questa l’ipotesi in cui l’autorizzazione deve essere accompagnata da specifiche emergenze indiziarie, tali da giustificare l’invadenza nel domicilio del contribuente, inteso non quale domicilio fiscale ma quello adibito in via esclusiva alla sua sfera privata.
A tal fine la giurisprudenza di legittimità ha opportunamente chiarito che l’art. 52 del d.P.R. n. 633 del 1972 prevede, al primo comma, l’accesso degli impiegati dell’Amministrazione finanziaria presso i locali destinati all’esercizio dell’attività commerciale, agricola, artistica o professionale, ovvero presso i locali adibiti ad uso promiscuo (e, dunque, anche abitativo) e, al secondo comma, l’accesso presso i locali adibiti ad uso diverso e, dunque, esclusivamente abitativo: nel primo caso, è richiesta la semplice autorizzazione del capo dell’ufficio e del procuratore della Repubblica, senza l’indicazione di specifici presupposti, ponendosi tali autorizzazioni come meri adempimenti procedimentali, legati alla necessità che la perquisizione sia avallata da un’autorità gerarchicamente o funzionalmente sovraordinata; nel secondo caso, invece, l’autorizzazione del Procuratore della Repubblica presuppone la sussistenza di gravi indizi di violazione tributaria, trovando il suo fondamento nell’inviolabilità del domicilio di cui all’art. 14 Cost. Ne consegue che, in tale ultima ipotesi, l’effettiva sussistenza dei gravi indizi di violazione tributaria è soggetta alla verifica della legittimità formale e sostanziale della pretesa impositiva, che coinvolge la legittimità del procedimento accertativo su cui la stessa si fonda (così Cass., 18 dicembre 2014, n. 26829; 6 ottobre 2020, n. 21411).
Quanto poi alla identificazione del concetto di uso misto, o promiscuo, dei locali, va confermato il consolidato principio secondo il quale il significato non si riduce alla sola ipotesi in cui i locali siano fisicamente e contestualmente utilizzati ad uso economico-professionale e ad uso abitativo, circostanza in verità ben rara nella pratica, ma ricorre ogni qual volta si riscontri l’agevole possibilità di comunicazione interna tra gli ambienti, che consenta il trasferimento di documenti propri dell’attività commerciale nei locali abitativi (Cass., 28 marzo 2018, n. 7723; 16 dicembre 2013, n. 28068; 5 febbraio 2007, n. 2444; 27 ottobre 1998, n. 10664; n. 21411 del 2020 cit.).
Ebbene, nel caso di specie il giudice regionale ha rilevato che la posizione logistica dei locali del contribuente, parte destinati alla propria attività economica, parte all’abitazione, ancorché forniti di accessi diversi da civici e strade diverse, ma compresi in un unico manufatto edilizio posto ad angolo tra due strade, assicurasse l’agevole comunicazione tra le due aree. Ha dunque ritenuto che la fattispecie rientrasse tra quelle regolate dal primo comma dell’art. 52 cit., così aderendo alla interpretazione consolidata della norma. Per conseguenza ha ritenuto che fosse sufficiente l’osservanza dei preventivi controlli formali richiesti dal primo comma, che prevede, per i locali destinati “anche” ad abitazione e non “esclusivamente” ad abitazione, l’autorizzazione rilasciata dal Procuratore della Repubblica, senza necessità di indicazione delle gravi ragioni a giustificazione dell’accesso. Si tratta di un accertamento in fatto, cui ha trovato corretta applicazione la regola giuridica individuata.
L’osservazione sollevata dalla difesa del B., il richiamo cioè nell’atto autorizzativo ai soli “locali di esercizio dell’attività nei cui confronti deve essere avviata la verifica”, è suggestiva ma si rivela speciosa se solo si considera che la premessa dell’autorizzazione era quella che l’attività doveva eseguirsi “in luoghi adibiti anche ad abitazione privata”. Si tratta della premessa del provvedimento autorizzativo rilasciato, descrittiva degli ambienti nei quali l’accesso sarebbe stato eseguito. E d’altronde è l’unica interpretazione logica, atteso che, ove fosse stata indirizzata solo ai luoghi deputati all’attività economica, essa non avrebbe avuto necessità di autorizzazione da parte dell’autorità giudiziaria, per essere sufficiente quella del capo dell’ufficio degli impiegati dell’amministrazione finanziaria, o dei militari della GdF, così come previsto dall’art. 52, comma, 1, prima parte, del d.P.R. n. 633 del 1972.
Per mera completezza, non era neppure privo di rilievo che lo stesso B. avesse indicato, quale domicilio fiscale dell’attività economica, l’indirizzo della propria abitazione. Questo perché al domicilio fiscale non è infrequente associare proprio il luogo della tenuta della documentazione amministrativa/fiscale.
La statuizione secondo la quale ai fini dell’accertamento potessero essere acquisiti, vagliati e utilizzati i documenti -brogliacci e cartellini clienti[1]rinvenuti nella taverna dell’abitazione del B. e probanti la vendita a nero di merce, è la conseguenza corretta, sul piano giuridico e logico, della altrettanto corretta interpretazione della disciplina degli accessi e verifiche regolata dall’art. 52 del d.P.R. n. 633 del 1972.
I motivi vanno dunque rigettati.
Con il sesto motivo il contribuente si duole della nullità della sentenza per violazione dell’art. 36 del d.lgs. n. 546 del 1992, nonché dell’art. 112 cod. proc. civ., laddove il giudice d’appello ha dichiarato di non riconoscere la sussistenza di maggiori costi, con motivazione contraddittoria o illogica.
Il motivo è in parte inammissibile e in parte infondato.
Il giudice regionale ha nella sostanza affermato che il rinvenimento di documentazione extracontabile presso la società “R. s.r.l”, fornitrice del B., da cui si evincevano vendite di prodotti al ricorrente per un valore di 40.000,00 €, non costituiva da sola la prova per “l’intera ripresa dei ricavi in capo al B.”. Ha ritenuto che per determinare i maggiori ricavi del B. non potesse dunque assumersi la percentuale di ricarico (26%, così determinata nell’atto impositivo relativo alla diversa annualità 2006) sul valore della merce acquistata in nero dalla R..
È inammissibile perché con una censura di nullità investe una statuizione motivata certamente con un argomentare involuto, ma non privo di logica, con il quale nella sostanza si fanno coincidere i maggiori ricavi con il valore della merce commercializzata, emergente dalla documentazione extracontabile rinvenuta presso il B. medesimo (i 299 cartellini clienti), disconoscendo ulteriori costi perché non provati dal contribuente.
È infondato perché con il rinvenimento della documentazione extracontabile l’Amministrazione finanziaria aveva provveduto ad eseguire un accertamento analitico-induttivo, fondato appunto sui ricavi a “nero” emersi.
Ebbene, costituisce principio di diritto, cui questo collegio intende dare continuità, quello secondo cui in tema di imposte sui redditi, l’Amministrazione finanziaria deve riconoscere una deduzione in misura percentuale forfettaria dei costi di produzione soltanto in caso di accertamento induttivo “puro” ex art. 39, comma 2, del d.P.R. n. 600 del 1973, mentre in caso di accertamento analitico induttivo incombe sul contribuente l’onere di provare l’esistenza di costi deducibili, afferenti ai maggiori ricavi o compensi, senza che l’Ufficio possa, o debba, procedere al loro riconoscimento forfettario (cfr. ex multis, Cass., 28 novembre 2022, n. 34996; 29 settembre 2017, n. 22868; 19 aprile 2017, n. 9888).
Nel caso di specie il contribuente non ha mai dato prova di ulteriori costi, come correttamente avvertito dal giudice d’appello.
Peraltro dal medesimo ricorso del contribuente (pag. 4) si evince che l’Amministrazione finanziaria provvide a defalcare dai ricavi in nero accertati i costi in nero “corrispondenti ai presunti acquisti dalla R.” per le annualità oggetto del presente giudizio.
Il contribuente null’altro ha provato.
Il motivo va dunque rigettato.
Con il settimo motivo il B. denuncia la nullità della sentenza e la violazione dell’art. 112 cod. proc. civ., in relazione all’art. 360, primo comma, n. 4, cod. proc. civ., per l’omessa pronuncia su una serie di altre questioni, pur controverse nei giudizi introdotti dinanzi al giudice provinciale con più ricorsi, e poi decisi dal giudice regionale previa riunione dei rispettivi appelli, e da quest’ultimo mai esaminati (alcuni costi indeducibili per importi minori, la legittimità dell’accertamento parziale, inoltre le illegittimità denunciate quanto alla formazione dell’avviso di accertamento e sulle regole applicate in materia di sanzioni).
Ad eccezione della prima delle questioni (errata individuazione dei maggiori ricavi, per non aver tenuto conto che i maggiori corrispettivi sono comprensivi di iva, questione del tutto incomprensibile perché al più a quei maggiori ricavi doveva aggiungersi anche l’iva non versata all’erario), tutte le altre questioni evidenziate nel motivo non risultano esaminate in sentenza, pur trattandosi di contestazioni riprodotte negli atti d’appello.
Il motivo deve pertanto accogliersi e la sentenza, limitatamente all’accoglimento del suddetto motivo, va cassata e rinviata alla Corte di giustizia tributaria di II grado del Veneto, che in diversa composizione, oltre che liquidare le spese del giudizio di legittimità, dovrà esaminare le questioni mai trattate.
P.Q.M.
Accoglie il settimo motivo, rigetta gli altri. Cassa la sentenza in relazione al motivo accolto e rinvia alla Corte di giustizia tributaria di II grado del Veneto, cui demanda, in diversa composizione, anche la liquidazione delle spese di legittimità.
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