Corte di Cassazione sentenza n. 5935 depositata il 12 marzo 2018
APPALTO – NOZIONE E CARATTERI VENDITA – DISTINZIONE CON L’APPALTO – CRITERI – PREVALENZA DEL LAVORO SULLA MATERIA – FATTISPECIE
RAGIONI IN FATTO ED IN DIRITTO
1. La S.G. S.p.A. conveniva in giudizio dinanzi al Tribunale di Monza la C. S.p.A., assumendo che nel 1999, in esecuzione di un contratto di fornitura la convenuta aveva installato presso gli uffici dell’attrice siti in (OMISSIS), un pavimento modulare sopraelevato, completo di struttura metallica, che pero’ nel 2002 aveva presentato gravi vizi, consistenti in infiltrazioni di umidità, deformazione, scheggiatura e scricchiolio, vizi segnalati alla fornitrice e dalla medesima verificati in loco.
Chiedeva pertanto la condanna della controparte al risarcimento del danno anche in forma specifica.
Nella resistenza della convenuta, che eccepiva anche la prescrizione e la decadenza dell’azione di garanzia in base alle norme in tema di contratto di vendita, riassunta la causa dinanzi al Tribunale di Milano a seguito della dichiarazione di incompetenza del primo giudice adito, con sentenza n. 5079 del 2009 era accolta la domanda attorea, con la condanna della C. al pagamento della somma di Euro 111.610,30, sul presupposto che il contratto dovesse essere ricondotto alla figura dell’appalto e che ricorrevano le condizioni di cui all’art. 1669 c.c., rispetto al quale non erano maturati i termini per la prescrizione e la decadenza.
A seguito di appello proposto dalla C. S.p.A., la Corte d’Appello di Milano con la sentenza n. 1416 del 3 aprile 2013, ha riformato la decisione di prime cure, rigettando tutte le domande attoree.
A tal fine reputava che fosse meritevole di accoglimento il sesto motivo di appello con il quale la convenuta contestava la corretta qualificazione del contratto intercorso con la controparte in termini di appalto.
La Corte distrettuale, pur condividendo i criteri in base ai quali per il Tribunale doveva accertarsi l’effettiva natura giuridica del contratto, e per i quali occorre valutare la prevalenza del lavoro rispetto alla materia, sulla base degli accordi intercorsi e del tipo di prestazione oggetto del contratto, nel caso in esame reputava alla luce delle caratteristiche del pavimento modulare oggetto della fornitura, che dovesse propendersi per la natura della compravendita.
Richiamata la conformazione del pavimento, rilevava che lo stesso non era stabilmente ancorato al piano calpestabile dell’immobile, ma era semplicemente appoggiato mediante colonnine regolabili in altezza, con funzioni di supporto dei pannelli che componevano il pavimento, favorendo in tal modo la creazione di un’intercapedine destinata ad alloggiare gli impianti.
Si trattava di un bene oggetto di produzione ordinaria e seriale, sicche’ doveva escludersi che fosse un bene realizzato su misura per la S., essendo prefabbricato e destinato solo ad essere assemblato ed installato, non potendosi reputare che fosse divenuto parte integrante dell’immobile.
Nella specie non si trattava di un’attività di elaborazione della materia, ma l’attività di installazione e montaggio erano il mezzo per permettere alla società attrice di poter conseguire il pavimento, da intendersi come bene acquistato.
Confortava la conclusione in termini di vendita anche la lettura del contratto, concluso tra soggetti che rivestono entrambi la qualità di imprenditori, nel quale era reiterata la denominazione di vendita per designare il contratto, ribadendosi che i servizi di installazione erano di carattere solo complementare.
Doveva quindi ritenersi che gli elementi oggettivi caratterizzanti la prestazione dedotta in contratto, e deponenti per la vendita, avevano altresi’ riscontro nella definizione di cui si erano avvalse le parti nel documento contrattuale.
Una volta ricondotta la vicenda alla compravendita, risultava fondata l’eccezione di decadenza e prescrizione della garanzia per i vizi, ancorche’ il relativo termine fosse stato fissato in contratto in dodici mesi.
Infatti, il pavimento era stato consegnato nel febbraio del 1999, laddove i vizi erano stati denunziati nel corso del 2002, dovendosi altresi’ escludere che vi fosse stato un riconoscimento dell’esistenza dei vizi con contestuale impegno alla loro eliminazione da parte della venditrice, in quanto la missiva del 9 aprile 2003, inviata all’attrice dal difensore della convenuta, contestava che la causa dei vizi fosse ascrivibile alla propria assistita, manifestando solo una generica disponibilità ad eliminare i vizi stessi.
Quanto alle prove orali articolate dall’attrice in primo grado, la sentenza di appello rilevava che le stesse non erano state reiterate in sede di conclusioni, dovendosi quindi ritenere che fossero state rinunciate, palesandosi quindi come inammissibile la loro reiterazione solo in sede di appello (e cio’ a prescindere dalla circostanza che la formulazione della prova non avrebbe consentito, anche in caso di esito positivo del mezzo istruttorio, di poter ritenere dimostrato il riconoscimento della responsabilità per i vizi da parte della venditrice).
La S.G. S.p.A. ha proposto ricorso per la cassazione di tale sentenza sulla base di quattro motivi, illustrati anche con memorie.
La C. S.p.A. ha resistito con controricorso.
2. L’ordine logico delle questioni impone in via preliminare la disamina del secondo e del terzo motivo di ricorso, la cui evidente connessione ne suggerisce la comune trattazione.
Il secondo motivo denuncia la violazione e falsa applicazione degli artt. 1655 e 1470 c.c..
Richiamando i criteri elaborati da questa Corte al fine di accertare quale sia il contratto effettivamente voluto dalle parti, si deduce che occorre fare sempre precipuo riferimento all’effettiva volontà dei contraenti, e che nel caso di specie, la Corte distrettuale si era discostata da tale insegnamento, in quanto si doveva avere riguardo alla notevole dimensione del pavimento ed all’incidenza considerevole dei costi di installazione sul prezzo complessivo.
Il terzo motivo invece denuncia l’omessa disamina di un fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione tra le parti e la violazione dell’art. 116 c.p.c., per non avere la sentenza gravata preso in esame le risultanze probatorie, ed in particolare gli esiti della consulenza tecnica d’ufficio ed il tenore letterale del contratto.
I motivi sono infondati.
Ed, invero la decisione impugnata ha chiaramente richiamato la costante giurisprudenza di questa Corte che, già con la sentenza delle Sezioni Unite n. 1196/1983, ebbe ad affermare che con riguardo al contratto avente ad oggetto la costruzione ed installazione di un impianto, la configurabilità di una vendita di cosa futura, anziche’ di un appalto, ove le parti abbiano considerato l’attività produttiva come mero strumento per ottenere il bene da trasferire, va riconosciuta non soltanto quando detto impianto configuri un prodotto strettamente di serie del venditore, ma anche quando, pur rientrando nella sua normale attività e non richiedendo modifiche della sua organizzazione imprenditoriale, debba presentare caratteristiche e qualità specifiche, con riguardo al compratore, ed espressamente promesse dal venditore medesimo, si’ da giustificare, in caso di mancanza, la risoluzione a norma dell’art. 1497 c.c..
Trattasi di principi successivamente ribaditi da questa Corte che anche di recente ha riconfermato che (Cass. n. 20301/2012) si ha contratto di appalto, e non contratto di vendita, quando, secondo la volontà dei contraenti, la prestazione della materia e’ un semplice mezzo per la produzione dell’opera, il lavoro essendo prevalente rispetto alla materia (conf. Cass. n. 20391/2008; Cass. n. 3807/1995; Cass. n. 5074/1993).
I giudici di merito, con accertamento in fatto, non sindacabile in questa sede, anche perche’ corredato da logica e coerente motivazione, sono partiti dalla natura oggettiva del bene oggetto del contratto, osservando come si trattasse di un prodotto industriale realizzato in via ordinaria e seriale, che non risultava essere stato realizzato su misura per la ricorrente.
Hanno altresi’ rimarcato le peculiari caratteristiche di installazione, che determinavano la non incorporazione del pavimento con l’immobile, essendo semplicemente appoggiato, sebbene per il tramite di una struttura portante metallica, sul piano calpestabile, ribadendo quindi il carattere meramente strumentale ed accessorio dell’attività di montaggio demandata alla stessa fornitrice.
Alla valutazione in chiave oggettiva, la sentenza di appello ha accompagnato anche un’indagine di natura soggettiva, volta a ricostruire quella che doveva reputarsi essere l’effettiva volontà dei contraenti, partendo a tal fine dal tenore del contratto, che recava la denominazione di vendita per l’accordo raggiunto.
A conforto della conclusione a favore della vendita ha sottolineato la qualifica professionale di entrambi i contraenti, che induceva a reputare che l’utilizzo di un determinato termine giuridico trovasse corrispondenza nell’effettivo intento dei contraenti, attesa anche la definizione come complementare dei servizi di installazione, che dovevano quindi reputarsi secondari rispetto alla finalità di addivenire all’acquisto di un determinato prodotto della convenuta.
Poste tali premesse, va ricordato che il vizio di violazione o falsa applicazione di norma di legge ex art. 360 c.p.c., n. 3, consiste nella deduzione di un’erronea ricognizione della fattispecie astratta di una norma di legge e, percio’, implica necessariamente un problema interpretativo della stessa, con la conseguenza che il ricorrente che presenti la doglianza e’ tenuto a prospettare quale sia stata l’erronea interpretazione della norma in questione da parte del giudice che ha emesso la sentenza impugnata, a prescindere dalla motivazione posta a fondamento di questa (Cass., Sez. L., sentenza n. 26307 del 15 dicembre 2014, Rv. 633859). Al contrario, se l’erronea ricognizione riguarda la fattispecie concreta, il gravame inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, la cui censura e’ possibile, in sede di legittimità, solo ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5, (Cass., Sez. 5, sentenza n. 8315 del 4 aprile 2013, Rv. 626129).
Nel caso in esame, pur a fronte della denuncia di un vizio ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3 la censura si risolve unicamente nella contestazione in merito all’apprezzamento dei fatti ed alla ricostruzione della vicenda contrattuale operata dal giudice di merito, contestandosi quindi non già la corretta esegesi delle norme e dei principi dalle stesse tratti dalla giurisprudenza, quanto l’accertamento in fatto operato dalla Corte distrettuale.
A cio’ va aggiunto che l’interpretazione di un atto negoziale e’ tipico accertamento in fatto riservato al giudice di merito, incensurabile in sede di legittimità, se non nell’ipotesi di violazione dei canoni legali di ermeneutica contrattuale, di cui all’art. 1362 c.c. e segg., o di motivazione inadeguata (ovverosia, non idonea a consentire la ricostruzione dell’iter logico seguito per giungere alla decisione). Sicche’, per far valere una violazione sotto il primo profilo, occorre non solo fare puntuale riferimento alle regole legali d’interpretazione (mediante specifica indicazione dei canoni asseritamente violati ed ai principi in esse contenuti), ma altresi’ precisare in qual modo e con quali considerazioni il giudice del merito se ne sia discostato; con l’ulteriore conseguenza dell’inammissibilità del motivo di ricorso che si fondi sull’asserita violazione delle norme ermeneutiche o del vizio di motivazione e si risolva, in realtà, nella proposta di una interpretazione diversa (Cass. 26 ottobre 2007, n. 22536). Ne consegue che non puo’ trovare ingresso in sede di legittimità la critica della ricostruzione della volontà negoziale operata dal giudice di merito che si traduca esclusivamente nella prospettazione di una diversa valutazione degli stessi elementi già dallo stesso esaminati; sicche’, quando di una clausola contrattuale sono possibili due o piu’ interpretazioni, non e’ consentito, alla parte che aveva proposto l’interpretazione poi disattesa dal giudice di merito, dolersi in sede di legittimità del fatto che fosse stata privilegiata l’altra (Cass. 7500/2007; 24539/2009).
Passando invece piu’ in dettaglio al terzo motivo, questa Corte ha piu’ volte affermato (Cass. 4.3.2014, n. 4980) che, qualora con il ricorso per cassazione venga dedotta l’incongruità o illogicità della motivazione della sentenza impugnata per l’asserita mancata valutazione delle risultanze processuali, e’ necessario, al fine di consentire al giudice di legittimità il controllo della decisività della risultanza non valutata (o insufficientemente valutata), che il ricorrente precisi – se del caso mediante trascrizione della medesima nel ricorso – la risultanza che egli asserisce decisiva non valutata o non sufficientemente valutata, dato che solo tale specificazione consente alla Corte, alla quale e’ precluso l’esame diretto degli atti di causa, di delibare la decisività della risultanza stessa, laddove nella fattispecie la parte si limita a richiamare il contenuto della consulenza tecnica d’ufficio e del contratto, senza nemmeno riportarne gli elementi che a suo dire avrebbero dovuto indurre ad una diversa soluzione della controversia, impedendo quindi al Collegio di apprezzare la decisività della censura.
Infine, la deduzione della violazione dell’art. 116 c.p.c. e’ ammissibile ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, ove si alleghi che il giudice, nel valutare una prova o, comunque, una risultanza probatoria, non abbia operato – in assenza di diversa indicazione normativa – secondo il suo “prudente apprezzamento”, pretendendo di attribuirle un altro e diverso valore oppure il valore che il legislatore attribuisce ad una differente risultanza probatoria (come, ad esempio, valore di prova legale), nonche’, qualora la prova sia soggetta ad una specifica regola di valutazione, abbia invece dichiarato di valutare la stessa secondo il suo prudente apprezzamento, mentre, ove si deduca, come appunto nel caso in esame, che il giudice ha solamente male esercitato il proprio prudente apprezzamento della prova, la censura era consentita ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, nella sua formulazione previgente, e non applicabile alla vicenda.
Ne consegue l’inammissibilità della doglianza che sia stata prospettata sotto il profilo della violazione di legge ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3 (Cass. Sez. L, Sentenza n. 13960 del 19/06/2014; Cass. n. 26965 del 2007).
3. Il primo motivo di ricorso denuncia invece la violazione e falsa applicazione dell’art. 1669 c.c.
Ed, infatti, anche a voler ricondurre la vicenda negoziale alla fattispecie della compravendita, la giurisprudenza di legittimità ha in piu’ occasioni ribadito che la norma de qua sia applicabile anche nei confronti del venditore, sicche’ si appalesa erronea la conclusione dei giudici di appello che ne hanno escluso nel caso in esame l’applicabilità.
Il motivo e’ infondato.
Ed, invero, se deve concordarsi con parte ricorrente circa la possibilità di estendere la previsione di cui all’art. 1669 c.c. anche nei confronti del venditore, si e’ pero’ precisato che tale estensione va limitata al caso in cui la compravendita abbia ad oggetto l’immobile che presenti gravi difetti.
In tal senso si e’ affermato che (cfr. ex multis Cass. n. 9370/2013) l’azione di responsabilità per rovina e difetti di cose immobili, prevista dall’art. 1669 c.c., puo’ essere esercitata anche dall’acquirente nei confronti del venditore che risulti fornito della competenza tecnica per dare direttamente, o tramite il proprio direttore dei lavori, indicazioni specifiche all’appaltatore esecutore dell’opera, gravando sul medesimo venditore l’onere di provare di non aver avuto alcun potere di direttiva o di controllo sull’impresa appaltatrice, cosi’ da superare la presunzione di addebitabilità dell’evento dannoso ad una propria condotta colposa, anche eventualmente omissiva (conf. Cass. n. 12675/2014; Cass. n. 2238/2012; Cass. n. 16202/2007).
Nel caso di specie, invece, come si ricava in maniera inequivoca dal tenore della sentenza impugnata, si e’ ritenuto che l’oggetto della compravendita non fosse un immobile ne’ tanto meno un bene stabilmente incorporato nell’immobile dell’attrice, ma una struttura di carattere mobile, quale il pavimento fornito dalla C., che risultava semplicemente poggiato sul piano sottostante preesistente, suscettibile quindi di agevole rimozione.
In tal senso appare risolutiva l’affermazione dei giudici di appello di cui al rigo 8 della pag. 5, laddove si afferma che il pavimento venduto non e’ divenuto parte integrante dell’immobile, conservando pertanto la natura di bene mobile, per il quale appare in radice preclusa la possibilità di invocare la garanzia di cui all’art. 1669 c.c.
4. Il quarto motivo infine denuncia la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 1495 c.c., in quanto, a detta della ricorrente, anche ad optare per la compravendita, era intervenuto un riconoscimento dei vizi da parte della venditrice.
Si osserva che la sentenza gravata non ha tenuto conto di tale circostanza, oltre tutto documentata in atti dalla corrispondenza intercorsa tra i legali.
Il motivo va parimenti disatteso.
La sentenza impugnata, con accertamento tipicamente di merito ha ritenuto che la missiva del 9 aprile 2003 inviata dal difensore della convenuta non potesse in alcun modo contenere un riconoscimento dei vizi ed un impegno a rimuovere gli stessi (avendo appunto evidenziato che vi era stata una disponibilità ad intervenire per eliminare i vizi, ma sul presupposto che le cause fossero estranee alla natura ed alle caratteristiche del bene venduto).
Anche in tal caso la formale denuncia di violazione di legge mira surrettiziamente a contestare l’accertamento in fatto operato dal giudice di merito, palesandosi il motivo, alla luce di quanto sopra esposto in occasione della disamina del secondo e del terzo motivo di ricorso, privo del carattere di specificità ex art. 366 c.p.c, comma 1, n. 6, riferendo in maniera del tutto generica dell’esistenza di corrispondenza intercorsa tra i legali delle parti confermativa del riconoscimento del vizio, senza riportarne il contenuto e senza nemmeno peritarsi di indicare in quale fase del processo tali atti siano stati prodotti ed ove gli stessi siano attualmente reperibili all’interno delle produzioni di parte.
Anche tale motivo va pertanto disatteso, con il conseguente rigetto del ricorso.
5. Le spese del giudizio seguono la soccombenza
e si liquidano come da dispositivo.
6. Poiche’ il ricorso e’ stato proposto successivamente al 30 gennaio 2013 ed e’ rigettato, sussistono le condizioni per dare atto – ai sensi della L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – Legge di stabilità 2013), che ha aggiunto il comma 1-quater del testo unico di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 1 quater – della sussistenza dell’obbligo di versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al rimborso delle spese che liquida in complessivi Euro 4.700,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali pari al 15 % sui compensi, ed accessori come per legge;
Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, dichiara la sussistenza dei presupposti per il versamento da parte della ricorrente del contributo unificato dovuto per il ricorso principale a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.
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