CORTE di CASSAZIONE – Sentenza n. 6678 depositata il 6 marzo 2023
Tributi – Avvisi di accertamento – IRES, IRAP e IVA – Operazioni soggettivamente inesistenti – Interposizione di persona – Assunzione operai extracomunitari – Delega alla sottoscrizione dell’avviso di accertamento – Raddoppio dei termini a provvedere in sede tributaria ove il fatto contestato comporti l’obbligo di denuncia penale – Omissione di pronuncia su doglianze precise – Accoglimento – vizio di omessa o apparente motivazione della sentenza – vizio di violazione di legge – è tenuto ad un’esplicita confutazione degli altri elementi probatori non accolti – allegazione di un’erronea ricognizione della fattispecie concreta
Fatti di causa
A seguito di pvc formato il 30 aprile 2012, la società ricorrente era attinta da avvisi di accertamento per gli anni di imposta da 2003 a 2006 compresi, con ripresa a tassazione a fini IRES, IRAP e IVA su operazioni contestate come soggettivamente inesistenti, in relazione ad interposizione di persona ovvero di tre società a responsabilità limitata ed una ditta individuale che avrebbero reso compiacenti scritture per consentire a soggetto privo delle qualificazioni necessarie di assumere operai extracomunitari e portare a compimento lavori edili per conto della ricorrente.
Gli atti impositivi erano avversati dalla contribuente che trovava apprezzamento delle proprie ragioni in primo grado sull’argomento fondamentale – per quanto maggiormente interessa il prosieguo- della prorogabilità (raddoppio) dei termini a provvedere in sede tributaria ove il fatto contestato comporti l’obbligo di denuncia penale, secondo il paradigma del d.lgs. n. 74/2000 come limato dalla sentenza della Corte costituzionale n. 247/2011.
La sentenza del collegio di prossimità veniva riformata in appello, su diversa interpretazione del quadro normativo, dei poteri dell’Ufficio e delle condizioni per la loro proroga, anche alla luce delle evenienze nel parallelo processo penale, nel frattempo risoltosi favorevolmente per la parte privata.
Ricorre quindi la società contribuente con sedici mezzi, mentre è rimasta resistente l’Agenzia delle entrate, riservandosi di spiegare difese in udienza.
Ragioni della decisione
.I. Vengono proposti sedici motivi di ricorso.
Con il primo motivo si prospetta censura ex art. 360 n. 3 c.p.c. per violazione dell’art. 42, primo e terzo comma, d.P.R. n. 600/1973, dell’art. 56, primo comma, d.P.R. n. 633/1972, dell’art. 2697 c.c. anche in relazione all’art. 21 septies l. n. 241/1990, nella sostanza lamentando la nullità degli atti impositivi perché sottoscritti da dirigenti dichiarati decaduti, con eccezione rilevabile d’ufficio in ogni stato e grado del giudizio.
Il vizio di sottoscrizione dell’atto impositivo non è stato sollevato in primo grado, né può esserlo nelle fasi successive, donde il motivo è inammissibile, posto che ne è espressamente esclusa la rilevabilità d’ufficio dall’art. 61, secondo comma, del medesimo d.P.R. n. 600/1973.
All’inammissibilità del motivo, comunque, si affianca l’infondatezza poiché sul punto è già intervenuta questa Corte con arresto della Sezione V n. 13126/2016, poi successivamente confermato e di recente affinato con ordinanza della stessa Sezione n. 24669/2021, ove si è affermato che nel processo tributario, la nullità dell’avviso di accertamento – nella quale rientra il caso di sua sottoscrizione da persona diversa da quelle indicate nel primo comma dell’art. 42 del d.P.R. n. 600 del 1973 e per la quale, peraltro, vale anche l’espressa previsione di cui al all’art. 61, secondo comma, del d.P.R. cit. – non è rilevabile d’ufficio e la relativa eccezione, se non formulata nel giudizio di primo grado, non è ammissibile qualora venga proposta nelle successive fasi del giudizio.
Né in questa sede è produttivo il richiamo alla legge generale sul procedimento amministrativo ed alle categorie in essa plasmate della nullità del provvedimento, sia perché si tratta di legge generale applicabile solo in via sussidiaria agli atti impositivi tributari, sia perché la disciplina in essa richiamata trova deroga dalle regole speciali di cui al d.P.R. n. 600/1973,
Parimenti l’argomento della sottoscrizione è stato risolto con pronuncia della Sezione V, n. 11013/2019, affermando che la delega alla sottoscrizione dell’avviso di accertamento ad un funzionario diverso da quello istituzionalmente competente ex art. 42 del d.P.R. n. 600 del 1973 ha natura di delega di firma – e non di funzioni – poiché realizza un mero decentramento burocratico senza rilevanza esterna, restando l’atto firmato dal delegato imputabile all’organo delegante, con la conseguenza che, nell’ambito dell’organizzazione interna dell’ufficio, l’attuazione di detta delega di firma può avvenire anche mediante ordini di servizio, senza necessità di indicazione nominativa, essendo sufficiente l’individuazione della qualifica rivestita dall’impiegato delegato, la quale consente la successiva verifica della corrispondenza tra sottoscrittore e destinatario della delega stessa. Il principio è stato precisato anche in rapporto all’intervento della Consulta in ordine alla decadenza dell’inquadramento nella dirigenza dell’Agenzia delle entrate, affermando che in tema di accertamento tributario, ai sensi dell’art. 42, primo e terzo comma, del d.P.R. n. 600 del 1973, gli avvisi di accertamento in rettifica e gli accertamenti d’ufficio devono essere sottoscritti a pena di nullità dal capo dell’ufficio o da altro funzionario delegato di carriera direttiva, cioè da un funzionario di area terza di cui al contratto del comparto agenzie fiscali per il quadriennio 2002-2005, di cui non è richiesta la qualifica dirigenziale, con la conseguenza che nessun effetto sulla validità di tali atti può conseguire dalla declaratoria d’incostituzionalità dell’art. 8, comma 24, del d.l. n. 16 del 2012, convertito dalla l. n. 44 del 2012 (cfr. Cass. V, n. 5177/2020).
Il primo motivo è quindi inammissibile prima ancora che infondato.
.II. Con il secondo motivo si prospetta ancora censura ex art. 360 n. 3 c.p.c. per violazione dell’art. 57, terzo comma, d.P.R. n. 633/1972 e dell’art. 43, terzo comma, d.P.R. n. 600/1973, ritenendo illegittimo il raddoppio dei termini in assenza di denuncia e, tantomeno, di procedimento penale a carico della società o del suo legale rappresentante. Per queste ragioni sarebbe viziato l’atto impositivo che non contenga copia della denuncia penale a giustificazione dell’estensione temporale dei poteri impositivi dell’Ufficio.
Con il terzo motivo si prospetta ancora censura ex art 360 n. 3 c.p.c. per violazione dell’art. 2697 c.c., lamentando violazione del riparto dell’onere della prova, ove la contribuente aveva affermato che la denuncia era stata inoltrata dopo la prescrizione del reato e quindi al di fuori dei presupposti di raddoppio dei termini impositivi.
Con il quarto motivo si prospetta sempre censura ex art. 360 n. 3 c.p.c. per violazione dell’art. 57, terzo comma, d.P.R. n. 633/1972 e dell’art. 43, terzo comma, d.P.R. n. 600/1973, dolendosi che il collegio d’appello abbia ritenuto tempestiva la notizia di reato a carico del legale rappresentante della contribuente per essere stata presentata prima della prescrizione del reato.
I motivi possono essere trattati insieme per evidente connessione, essendo il seguente specificazione del precedente e sono tutti e tre infondati, vertendosi in fattispecie antecedente la novella del 2015, quindi secondo il paradigma che non prevede(va) l’effettiva presentazione della denuncia. Ed infatti, in tema di accertamento tributario, il raddoppio dei termini previsti dagli artt. 43 del d.P.R. n. 600 del 1973 per l’IRPEF e 57 del d.P.R. n. 633 del 1972 per l’IVA consegue, nell’assetto anteriore alle modifiche di cui al d.lgs. n. 128 del 2015, alla ricorrenza di seri indizi di reato che facciano insorgere l’obbligo di denuncia penale, indipendentemente dall’effettiva presentazione della stessa, dall’inizio dell’azione penale e dall’accertamento del reato nel processo (cfr. Cass. V, n. 22337/2018, poi ampliato ed affinato da Cass. V, n. 11156/2021).
La presentazione della denuncia -tempestiva o tardiva che sia- è dunque indifferente alla questione del raddoppio dei termini secondo le diposizioni vigenti ratione temporis, né peraltro spetta al giudice tributario vagliarne tempestività e fondatezza, ma al giudice penale, sufficiente essendo ai fini della duplicazione dei termini che all’avvio della procedura impositiva sussistessero elementi da far scaturire l’obbligo di denuncia, in disparte poi la presentazione effettiva.
Pertanto, i motivi sono infondati e vanno disattesi.
.III. Con il quinto motivo si prospetta censura ex art. 360 n. 3 c.p.c. per violazione dell’art. 57, terzo comma, d.P.R. n. 633/1972 e dell’art. 43, terzo comma, d.P.R. n. 600/1973, nella sostanza lamentando che il raddoppio dei termini impositivi non possa esserci per riprese a tassazione IRAP, sull’argomento che tale imposta non è assistita da sanzione penale e quindi non opera l’estensione temporale in presenza di fatti che comportino denuncia, poiché estranei alla disciplina IRAP.
Ed infatti, questa Corte ha ritenuto che in tema di accertamento, il cd. “raddoppio dei termini”, previsto dall’art. 43 del d.P.R. n. 600 del 1973, non può trovare applicazione anche per l’IRAP, poiché le violazioni delle relative disposizioni non sono presidiate da sanzioni penali (cfr. Cass. VI – 5, n. 10483/2018, conforme n. 4742/2020).
Donde il motivo è fondato e la sentenza dev’essere cassata con rinvio al giudice del merito perché ridetermini l’ammontare della ripresa a tassazione per questo tributo.
.IV. Con il sesto motivo si prospetta censura ex art. 360 n. 4 c.p.c. per violazione dell’art. 36 d.lgs. n. 546/1992, nella sostanza lamentando nullità della sentenza per non essere state riportate le controdeduzioni della contribuente nella, pur concisa, esposizione dello svolgimento del processo.
Nell’elencare gli elementi formali della sentenza la norma richiamata non prevede contenuti essenziali, essendo sufficiente sia possibile la ricostruzione logico-giuridica del percorso seguito dal giudicante per giungere al decisum (cfr. Cass. V, n. 5583/2011; S.U. n. 8053/2014), né dovendosi necessariamente – allo scopo – riportare le controdeduzioni delle parti, lasciando al giudicante la libertà argomentativa nel dedurre e controdedurre dalle diverse tesi prospettate in giudizio, nel limite del “minimo costituzionale” di cui alla citata sentenza delle S.U. n.8053/2014, al di sopra del quale si colloca senz’altro la sentenza in oggetto.
Il motivo è quindi infondato e va disatteso.
.V. Con il settimo motivo si prospetta censura ex art. 360 n. 5 c.p.c. per omesso esame di fatto decisivo, ovvero vizio ex art. 360 n. 4 c.p.c. per omessa pronuncia su fatto decisivo in violazione dell’art. 112 c.p.c., per non aver esaminato e pronunciato sul lamentato vizio di motivazione degli atti impositivi che, richiamandosi ai verbali della Guardia di Finanza, li allegano, omettendo però di allegare anche quei verbali a cui i primi fanno a loro volta riferimento: nella sostanza, vi sarebbe un rinvio su rinvio per relationam, il cui principio non sarebbe conosciuto né nella disponibilità della parte contribuente.
Con l’ottavo motivo si prospetta censura ex art. 360 n. 5 c.p.c. per omesso esame di fatto decisivo, ovvero vizio ex art. 360 n. 4 c.p.c. per omessa pronuncia su fatto decisivo in violazione dell’art. 112 c.p.c., per non aver la sentenza proceduto alla corretta ricostruzione del fatto processuale.
I due motivi, strettamente consequenziali tra di loro, possono essere trattati congiuntamente e sono infondati.
Preliminarmente, occorre ricordare che per questa Corte è ammissibile il ricorso per cassazione, il quale cumuli in un unico motivo le censure di cui all’art. 360, primo comma, c.p.c., allorché esso comunque evidenzi specificamente la trattazione delle doglianze relative all’interpretazione o all’applicazione delle norme di diritto appropriate alla fattispecie ed i profili attinenti alla ricostruzione del fatto (Cass. V, 11 aprile 2018, n. 8915), essendo sufficiente che la formulazione del motivo consenta di cogliere con chiarezza le doglianze prospettate, sì da consentirne, se necessario, l’esame separato esattamente negli stessi termini in cui lo si sarebbe potuto fare se essere fossero state articolate in motivi diversi, singolarmente numerati (Cass., S.U., 6 maggio 2015, n. 9100, in linea Cass. V. n. 14756/2020).
I motivi – ove vi è commistione fra censure ex n. 4 e n. 5 del prefato articolo del codice di rito – rientrano nei parametri di ammissibilità indicati da questa Corte con gli arresti citati e possono quindi essere scrutinati.
Nel merito delle censure, se è pur vero che questa Corte ha ritenuto necessaria l’allegazione dei documenti su cui si basa l’atto impositivo, ha anche precisato che tali documenti debbono essere posti nella conoscibilità del contribuente, quindi, da lui conosciuti o facilmente conoscibili, senza pe questo oberare l’Ufficio di allegazioni plurime, attenendosi al principio di prova e di indicazione dell’atto cui si fa rinvio (cfr. Cass. V, n. 2222/2021; n. 32127/2018).
Nel caso specifico, poi, sollevandosi censura in parametro al n. 4 dell’art. 360 c.p.c., questa Corte è giudice del fatto processuale e, dall’esame dei fascicoli, emerge che negli atti impositivi versati in atti vi sia riferimento agli atti presupposti a loro volta allegati (cfr., p. es, doc. 6, di produzione di parte ricorrente, a pag. 9 sono richiamati gli atti presupposti che seguono come allegati nella foliazione). La produzione e l’allegazione soddisfa il dovere della p.a. di porre la parte privata nelle condizioni di spiegare utili difese.
.VI. Con il nono motivo si prospetta censura ex art. 360 n. 5 c.p.c. per omesso esame decisivo per il giudizio, ovvero censura ex art. 360 n. 4 c.p.c. per omessa pronuncia su fatto decisivo della controversia, in violazione dell’art. 112 c.p.c., lamentando non sia stata considerata e non si sia pronunciato sulla contraddittorietà degli avvisi di accertamento, sia per aver ritenuto i rapporti tra società ricorrente e propri fornitori come soggettivamente inesistenti, oltre ad aver ritenuto indeducibili i costi per difetto di inerenza, ai fini delle imposte dirette.
Con il decimo motivo si prospetta ancora censura ex art. 360 n. 5 c.p.c. per omesso esame decisivo per il giudizio, ovvero censura ex art. 360 n. 4 c.p.c. per omessa pronuncia su fatto decisivo della controversia, in violazione dell’art. 112 c.p.c., lamentando non sia stata considerata e non si sia pronunciato sulla temerarietà degli avvisi di accertamento in ragione alla contestata inerenza dei costi.
I motivi possono essere trattati congiuntamente, per evidenti profili di connessione, vertendo sul richiamo ai -e sulla pronuncia sui- precisi motivi di controdeduzioni in appello, con riproposizione di argomenti del primo grado.
Il principio di autosufficienza del ricorso per cassazione, ai sensi dell’art. 366, comma 1, n. 6), c.p.c. – quale corollario del requisito di specificità dei motivi – anche alla luce dei principi contenuti nella sentenza CEDU Succi e altri c. Italia del 28 ottobre 2021 – non deve essere interpretato in modo eccessivamente formalistico, così da incidere sulla sostanza stessa del diritto in contesa, e non può pertanto tradursi in un ineluttabile onere di integrale trascrizione degli atti e documenti posti a fondamento del ricorso, insussistente laddove nel ricorso sia puntualmente indicato il contenuto degli atti richiamati all’interno delle censure, e sia specificamente segnalata la loro presenza negli atti del giudizio di merito (Cass. S.U. n. 8950/2022). A tali criteri si rassegnano i motivi in scrutinio che possono quindi esser esaminati.
Deve premettersi che è ormai principio consolidato nella giurisprudenza di questa Corte l’affermazione secondo la quale (Cass. VI- 5, n. 9105/2017) ricorre il vizio di omessa o apparente motivazione della sentenza allorquando il giudice di merito ometta ivi di indicare gli elementi da cui ha tratto il proprio convincimento ovvero li indichi senza un’approfondita loro disamina logica e giuridica, rendendo, in tal modo, impossibile ogni controllo sull’esattezza e sulla logicità del suo ragionamento. In tali casi la sentenza resta sprovvista in concreto del c.d. “minimo costituzionale” di cui alla nota pronuncia delle Sezioni Unite di questa Corte (Cass. S.U, n. 8053/2014, seguita da Cass. VI – 5, n. 5209/2018). In termini si veda anche quanto stabilito in altro caso (Cass. Sez. L, Sentenza n. 161 del 08/01/2009) nel quale questa Corte ha ritenuto che la sentenza è nulla ai sensi dell’art. 132, secondo comma, n. 4, c.p.c., ove risulti del tutto priva dell’esposizione dei motivi sui quali la decisione si fonda ovvero la motivazione sia solo apparente, estrinsecandosi in argomentazioni non idonee a rivelare la ratio decidendi (cfr. Cass V, n. 24313/2018).
Nella sentenza in scrutinio non si evince alcun riferimento alle precise doglianze, analiticamente esposte, con particolare riguardo alla deducibilità delle spese anche per le operazioni soggettivamente inesistenti (ma oggettivamente esistenti), che devono concorrere alla somma algebrica per formare la massa imponibile, ove ne sia dimostrata l’esistenza e la coerenza. I motivi sono quindi fondati e meritano accoglimento.
.VII. Con i motivi da undicesimo a sedicesimo si prospetta censura ex art. 360 n. 5 c.p.c. per omesso esame decisivo per il giudizio, ovvero censura ex art. 360 n. 4 c.p.c. per omessa pronuncia su fatto decisivo della controversia, in violazione dell’art. 112 c.p.c., lamentando non sia stata esaminata l’eccezione di infondatezza dell’atto impugnato rispettivamente: al ruolo di E.L. quale collegamento fra la ricorrente e le quattro ditte fornitrici; tra la ricorrente e la soc. C.C.I. srl; tra la ricorrente e la soc. E.P. s.r.l.; tra la ricorrente e la soc. E.R. s.r.l.; tra la ricorrente e la soc. M.&M. di M.D.; sugi risultati economici della ricorrente).
È appena il caso di rammentare che il vizio di violazione di legge consiste in un’erronea ricognizione da parte del provvedimento impugnato della fattispecie astratta recata da una norma di legge implicando necessariamente un problema interpretativo della stessa; viceversa, l’allegazione di un’erronea ricognizione della fattispecie concreta, mediante le risultanze di causa, inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito la cui censura è possibile, in sede di legittimità, attraverso il vizio di motivazione (tra le tante: Cass. 11 gennaio 2016 n. 195; Cass. 30 dicembre 2015, n. 26610).
Come è noto, il ricorso per cassazione conferisce al giudice di legittimità non il potere di riesaminare il merito dell’intera vicenda processuale, ma solo la facoltà di controllo, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico-formale, delle argomentazioni svolte dal giudice di merito, al quale spetta, in via esclusiva, il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di controllarne l’attendibilità e la concludenza e di scegliere, tra le complessive risultanze del processo, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad essi sottesi, dando così liberamente la prevalenza all’uno o all’altro dei mezzi di prova acquisiti, salvo i casi tassativamente previsti dalla legge (Cass. 4 novembre 2013 n. 24679; Cass. 16 novembre 2011 n. 27197; Cass. 6 aprile 2011 n. 7921; Cass. 21 settembre 2006 n. 20455; Cass. 4 aprile 2006 n. 7846; Cass. 9 settembre 2004 n. 18134; Cass. 7 febbraio 2004 n. 2357).
Nel caso in esame, a fronte della produzione documentale, qui riprodotta assolvendo l’onere della completezza, nessuna statuizione, neppur implicita, può desumersi dalla motivazione della gravata sentenza, poiché se è vero che il giudice del merito, che attinga il proprio convincimento da quelle prove che ritenga più attendibili, è tenuto ad un’esplicita confutazione degli altri elementi probatori non accolti, anche se allegati dalle parti (ad es.: Cass. 7 gennaio 2009 n. 42; Cass. 17 luglio 2001 n. 9662), non è men vero che il rigetto implicito deve risultare a contrariis dalla statuizione positiva, ma non può valere qualora le censure siano attinenti a profili completamente eccentrici rispetto ai motivi accolti, riducendosi ad un’omissione di pronuncia (cfr. Cass. S.U. n. 8053/2014).
In conclusione, il ricorso è fondato per le ragioni attinte dal quinto motivo, in ordine all’insussistenza di raddoppiamento dei termini impositivi limitatamente all’IRAP, e dai motivi da nono a sedicesimo per omissione di pronuncia su doglianze precise.
P.Q.M.
Accoglie i motivi quinto e da nono a sedicesimo, rigettati o dichiarati inammissibili gli altri, cassa la sentenza impugnata in relazione ai motivi accolti e rinvia alla Corte di giustizia tributaria di secondo grado per la Lombardia – Sezione staccata di Brescia, in diversa composizione, cui demanda altresì la regolazione delle spese del presente giudizio di legittimità.
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