CORTE di CASSAZIONE – sentenza n. 6687 depositata il 6 marzo 2023

L’imposta regionale sulle vendite di benzina per autotrazione (IRBA) non è più dovuta, nemmeno relativamente alle obbligazioni sorte prima dell’entrata in vigore della L. 178/2020 (Legge di Bilancio 2021), che ne ha disposto l’abrogazione solo a partire dal 1° gennaio 2021

L’imposta regionale sulle vendite di benzina per autotrazione (IRBA) non è più dovuta, nemmeno relativamente alle obbligazioni sorte prima dell’entrata in vigore della L. 178/2020 (Legge di Bilancio 2021), che ne ha disposto l’abrogazione solo a partire dal 1° gennaio 2021

Massima:

In materia di efficacia del diritto comunitario, il contrasto tra norme statali e disciplina comunitaria non dà luogo ad invalidità o alla illegittimità delle prime, ma comporta la loro “non applicazione”, che consiste nell’impedire che la norma interna venga in rilievo per la definizione della controversia davanti al giudice nazionale L’interpretazione del diritto comunitario, con efficacia vincolante per tutte le autorità (giurisdizionali o amministrative) degli Stati membri, anche ultra partes compete alla Corte di Lussemburgo.

Esposizione dei fatti di causa

1. I contribuenti indicati in epigrafe impugnavano l’avviso di accertamento ed irrogazione contestuale di sanzione notificato loro il 29.10.2013, con il quale la Regione Campania ingiungeva il pagamento di Euro 6.779,91 a titolo di imposta evasa(IRBA) e sanzioni per l’annualità 2005, eccependo la decadenza dal potere accertativo, nonchè la prescrizione del termine quinquennale ed il difetto di legittimazione passiva. La CTP di Napoli respingeva il ricorso.

Interposto appello, la commissione tributaria regionale della Campania confermava la decisione di primo grado, riconoscendo la legittimazione passiva dei ricorrenti ed individuando il dies a quo per la decorrenza del termine prescrizionale dalla scoperta del fatto illecito, avvenuta in data 24.04.2013.

Avverso la sentenza n. 1036/2016, propongono ricorso per cassazione i contribuenti, sulla base di due motivi.

La Regione Campania replica con controricorso.

Il P.G. ha concluso per l’accoglimento del ricorso.

Esposizione dei motivi della decisione

2. Con il primo motivo di ricorso si lamenta, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione e falsa applicazione dell’art. 15 D.Lgs. 26 ottobre 1995, n. 540, nonchè omessa ed insufficiente motivazione sulla prescrizione.

2.1 Nella illustrazione del motivo così rubricato, la ricorrente reitera tutte le difese già svolte nel giudizio di merito, lamentando che la commissione tributaria regionale non ha fatto applicazione dell’art. 15 cit., che stabilisce che, in caso di comportamenti omissivi, il termine di prescrizione del credito per accise decorre dalla data della scoperta del fatto illecito. A dire dei ricorrenti, il comportamento omissivo non può essere rappresentato dalla dichiarazione presentata dal gestore che aveva indicato movimentazioni non veritiere dei carburanti. In ogni caso, poichè la Regione era già a conoscenza, a far tempo dall’anno 2006, della dichiarazione IRBA, il ritardato invio da parte dell’Agenzia delle dogane delle relative risultanze delle verifiche non integrerebbe la scoperta del fatto illecito.

2.2.Con la seconda parte della prima censura e la seconda doglianza si lamenta la carenza di legittimazione passiva per non aver i ricorrenti commesso il fatto illecito ascrivibile al gestore, non essendo a loro addebitabile la sanzione applicata, la cui disciplina impositiva esige sia l’elemento oggettivo che quello soggettivo (dolo o colpa); con il secondo strumento di ricorso si deduce, in particolare, l’omessa motivazione, ex art. 360 c.p.c., n. 5, in relazione alla carenza di legittimazione passiva e la contestuale violazione del D.Lgs. 18.12.1997, n. 472, reiterando le critiche svolte con la precedente censura.

3. Le censure che attingono la motivazione gravata concernono la disciplina nazionale – D.Lgs. 26 ottobre 1995, n. 540, relativa ai crediti per accise – contrastante con la direttiva Europea 92/12/CEE del Consiglio del 25 febbraio 1992 relativa al regime generale, alla detenzione, alla circolazione ed ai controlli dei prodotti soggetti ad accisa, nonchè con la Direttiva 2008/118/CE del Consiglio del 16 dicembre 2008 relativa al regime generale delle accise, che abroga la direttiva 92/12/CEE. 3.2 Va considerato che, in virtù del principio iura novit curia di cui all’art. 113, comma 1, c.p.c., il giudice ha il potere-dovere di assegnare una diversa qualificazione giuridica ai fatti e ai rapporti dedotti in giudizio, nonchè all’azione esercitata in causa, potendo porre a fondamento della sua decisione disposizioni e principi di diritto diversi da quelli erroneamente richiamati dalle parti, purchè i fatti necessari al perfezionamento della fattispecie ritenuta applicabile coincidano con quelli della fattispecie concreta sottoposta al suo esame, essendo allo stesso vietato, in forza del principio di cui all’art. 112 c.p.c., porre a base della decisione fatti che, ancorchè rinvenibili all’esito di una ricerca condotta sui documenti prodotti, non siano stati oggetto di puntuale allegazione o contestazione negli scritti difensivi delle parti (Cass., 27 novembre 2018, n. 30607; Cass., 10 giugno 2020, n. 11103; Cass., 25 ottobre 2022 n. 31561).

4. Ebbene, la commissione tributaria regionale non ha colto la peculiarità della questione giuridica sottesa; in quanto di puro diritto, il profilo va rilevato d’ufficio in base al citato principio iura novit curia, non essendo la decisione, nella corrispondente parte, coperta dal giudicato interno (v. in generale Cass. del 21 12.1999, n. 14421: Cass. del 18/02/2021, n. 4272);

5.La disciplina concernente l’imposta in esame non assume alcun più rilievo alla luce della sentenza della Corte di Giustizia Europea del 9 novembre 2021 che, nell’interpretare la citata direttiva 2008/118 – sostanzialmente riproduttiva delle disposizioni di cui all’art. 3, paragrafo 2, della direttiva 92/12, la quale disponeva che ” i prodotti sottoposti ad accisa possono essere oggetto di altre imposte indirette aventi finalità specifiche” (cfr. CGUE, 9 novembre 2021, causa C-255/20, Agenzia delle Dogane e dei Monopoli, punto 27; CGUE, 5 marzo 2015, causa C-553/13, Statoil Fuel & Retail, punto 34) -, recepita nell’ordinamento nazionale con D.Lgs. n. 29/3/2010, n. 48, ha chiarito che i prodotti energetici possono essere gravati da tributi ulteriori purchè il relativo gettito sia vincolato ab origine ad una finalità specifica.

6. La Corte di Giustizia dell’Unione Europea è intervenuta in materia di I.R.B.A. con detta ordinanza, a seguito di rinvio pregiudiziale nella causa C255/20. Nello specifico, la domanda di pronuncia pregiudiziale verteva sull’interpretazione dell’art. 3, paragrafo 2, della direttiva 92/12 alla luce dell’art. 1, paragrafi 1 e 2 della direttiva n. 118 del 26 ottobre 2008, recepita nell’ordinamento nazionale con D.Lgs. n. 29/3/2010 n. 48, che prevede che i prodotti energetici possono essere gravati da tributi ulteriori purchè il relativo gettito sia vincolato ab origine ad una finalità specifica.

6.1 Occorre premettere che la Direttiva 2008/118 ha stabilito che, “poichè la direttiva 92/12/CEE del Consiglio, del 25 febbraio 1992, relativa al regime generale, alla detenzione, alla circolazione ed ai controlli dei prodotti soggetti ad accisa ha più volte subito modifiche sostanziali e sono necessarie ulteriori modifiche, per motivi di chiarezza è opportuno sostituirla; stabilendo che le condizioni per la riscossione delle accise sui prodotti contemplati dalla direttiva 92/12/CEE (“prodotti sottoposti ad accisa”) devono rimanere armonizzate al fine di garantire il corretto funzionamento del mercato interno”.

Il considerando 3 della direttiva 92/12 così recitava:

“(C)onsiderando che deve essere definita la nozione di prodotti soggetti ad accisa; che solo le merci considerate tali in tutti gli Stati membri possono essere oggetto di norme comunitarie; che tali prodotti possono formare oggetto di altre imposizioni indirette aventi finalità specifiche; che il mantenimento o l’introduzione di altre imposizioni indirette non devono dar luogo a formalità connesse al passaggio di una frontiera”.

L’art. 3 di tale direttiva disponeva quanto segue:

“1. La presente direttiva è applicabile, a livello comunitario, ai prodotti seguenti, come definiti nelle direttive ad essi relative:

– gli oli minerali, – l’alcole e le bevande alcoliche, – i tabacchi lavorati.

I prodotti di cui al paragrafo 1 possono formare oggetto di altre imposizioni indirette aventi finalità specifiche, nella misura in cui esse rispettino le regole di imposizione applicabili ai fini della accise o dell’IVA per la determinazione della base imponibile, il calcolo, l’esigibilità e il controllo dell’imposta.

(…)”.

La direttiva 92/12 è stata abrogata, a decorrere dal 1 aprile 2010, e sostituita dalla direttiva 2008/118/CE del Consiglio, del 16 dicembre 2008, relativa al regime generale delle accise e che abroga la direttiva 92/12 (GU 2009, L 9, pag. 12).

6.3 La Corte di Giustizia ha statuito che l’art. 1, paragrafo 2, della direttiva 2008/118/CE del Consiglio, del 16 dicembre 2008, relativa al regime generale delle accise e che abroga la direttiva 92/12/CEE, deve essere interpretato nel senso che esso osta a una normativa nazionale che istituisce un’imposta regionale sulle vendite di benzina per autotrazione, dal momento che non si può ritenere che tale imposta abbia una “finalità specifica” ai sensi di tale disposizione(ovvero di quella precedentemente in vigore), il suo gettito essendo inteso solo a contribuire genericamente al bilancio degli enti territoriali.

Per la Corte, “anche se l’art. 1, paragrafo 2, della direttiva 2008/118 (che riproduce la direttiva 9/712) prevede che gli Stati membri possono applicare ai prodotti sottoposti ad accisa altre imposte indirette, è necessario che tali imposte abbiano “finalità specifiche” e che siano conformi alle norme fiscali dell’Unione applicabili per le accise o per l’imposta sul valore aggiunto in materia di determinazione della base imponibile, calcolo, esigibilità e controllo dell’imposta”, dunque “siccome qualsiasi imposta persegue necessariamente uno scopo di bilancio, la sola circostanza che un’imposta miri a un obiettivo di bilancio non può, di per sè sola, salvo privare l’art. 1, paragrafo 2, della direttiva 2008/118 di qualsivoglia sostanza, essere sufficiente a escludere che l’imposta in parola possa essere considerata dotata parimenti di una “finalità specifica” ai sensi di tale disposizione (sentenza del 5 marzo 2015, Statoil Fuel & Retail, C-553/13, EU:C:2015:149, punto 38 e giurisprudenza ivi citata) (…)sebbene la destinazione al bilancio degli enti territoriali del gettito di un’imposta per il finanziamento da parte di tali enti di competenze loro attribuite possa essere un elemento da prendere in considerazione per identificare l’esistenza di una “finalità specifica” ai sensi di detta disposizione, una simile destinazione, che si configura come una semplice modalità di organizzazione interna del bilancio di uno Stato membro, non può, in quanto tale, costituire una condizione sufficiente al riguardo.(…) In assenza di un siffatto meccanismo di destinazione predeterminata del gettito, un’imposta che grava sui prodotti sottoposti ad accisa può essere considerata perseguire una “finalità specifica” ai sensi dell’art. 1, paragrafo 2, della direttiva 2008/118 soltanto qualora tale imposta sia concepita, quanto alla sua struttura, segnatamente riguardo alla materia imponibile o all’aliquota d’imposta, in modo tale da influenzare il comportamento dei contribuenti nel senso di consentire la realizzazione della finalità specifica invocata, ad esempio mediante una forte tassazione dei prodotti di cui trattasi al fine di scoraggiarne il consumo (sentenza del 5 marzo 2015, Stato il Fuel & Retail, C-553/13, EU:C:2015:149, punto 42 e giurisprudenza ivi citata)(…).” Alla luce dell’insieme delle suesposte considerazioni, la Corte risponde alla questione sollevata dichiarando che l’art. 1, paragrafo 2, della direttiva 2008/118 deve essere interpretato nel senso che esso osta a una normativa nazionale che istituisce un’imposta regionale sulle vendite di benzina per autotrazione, dal momento che non si può ritenere che tale imposta abbia una “finalità specifica” ai sensi di tale disposizione, il suo gettito essendo inteso solo a contribuire genericamente al bilancio degli enti territoriali. L’ordinamento italiano, dal canto suo, aveva già provveduto, prima della sentenza citata, ad abrogare il tributo di cui si discute.

Tuttavia, ad un attento esame, dall’esegesi della disposizione dell’art. 1, comma 628, L. 30 DICEMBRE 2020, n. 178 (Legge di Bilancio 2021), con decorrenza dal 01.01.2021, emerge che essa, pur avendo abrogato tutte le norme afferenti all’imposta regionale sulla benzina per autotrazione, e, a cascata, di quella regionale, “ha fatti salvi gli effetti delle obbligazioni tributarie già insorte”. In altri termini, con la disposizione normativa in commento (ex art. 1, comma 628, cit) il legislatore ha inteso preservare e circoscrivere nel tempo la legittimità dell’IRBA, prevedendo che essa dia diritto al rimborso o l’obbligo della debenza solo per quelle obbligazioni sorte a partire dal 1 gennaio 2021.

6.4. Ciò significa che il legislatore nazionale ha inteso assicurare la debenza dell’IRBA per i rapporti pregressi, ancorchè il tributo sia stato istituito da una norma adottata in contrasto con il diritto dell’Unione Europea (direttiva 2008/118), così come interpretato dalla sentenza della Corte di giustizia, che ha consegnato la corretta interpretazione dell’art. 1, paragrafo 2, della direttiva citata, ritenendo che il suo disposto osti a una normativa nazionale che istituisce un’imposta regionale sulle vendite di benzina per autotrazione.

Va, innanzitutto, rammentato che . Su tale questione questa Corte ha ripetutamente affermato che alla natura dichiarativa delle sentenze della Corte di Giustizia discende l’efficacia retroattiva, sin dal momento dell’entrata in vigore delle norme interpretate. La retroattività significa che il diritto comunitario, così come interpretato dalla Corte suddetta, può essere applicato ad ogni rapporto giuridico già sorto, purchè non esaurito. (Sez. U. del 16.06.2014, n. 13676; vedi anche Cass. del 27.11.2014, n. 25268; Cass. del 11/09/2015, n. 17993, in motiv.; Cass. del 27.07.2021, n. 21419, in motiv.).il dictum della Corte di Giustizia costituisce una regula iuris applicabile dal giudice nazionale in ogni stato e grado di giudizio; con la conseguenza che la sentenza della Corte di Giustizia è fonte di diritto oggettivo (Cass. 9/02/2012, n. 9217; Cass. del 2.03.2005, n. 4466; Cass. 857/95). Inoltre, va rammentato che l’interpretazione di una norma di diritto comunitario data dalla Corte di Giustizia può e deve essere applicata dal giudice anche ai rapporti giuridici sorti e costituiti prima della sentenza interpretativa (CG del 15 settembre 1998, C-231/96; Cass. dell’11.09.2015, n. 17994)

7.Ciò vale non soltanto per le pronunce rese in sede di interpretazione, ma anche per quelle in sede di apprezzamento di validità. (Cass. del 20.07.1998, n. 7105; Cass. del 7.08.1999, n. 8504). E’ stato altresì precisato che la pronuncia comunitaria, non può configurarsi come espressione di “overruling” e, come tale, inidonea ad operare retroattivamente (Cass. del 25.07.2012. n. 13087). Anche le Sezioni Unite di questa Corte hanno ribadito che l’efficacia retroattiva di dette sentenze – come quella che assiste la declaratoria di illegittimità costituzionale – incontra solamente il limite dei rapporti esauriti, ipotizzabile allorchè sia maturata una causa di prescrizione o decadenza, trattandosi di istituti posti a presidio del principio della certezza del diritto e delle situazioni giuridiche (circostanze queste che non ricorrono nel caso di specie) (Sez. U. del 16.06.2014, n. 13676, citata).

7.1 Da ultimo, va ricordato l’importante principio affermato da questa Corte, secondo cui l’interpretazione del diritto comunitario, adottata dalla Corte di giustizia, ha efficacia “ultra partes”, sicchè alle sentenze dalla stessa rese, sia pregiudiziali e sia emesse in sede di verifica della validità di una disposizione, va attribuito il valore di ulteriore fonte del diritto comunitario, non nel senso che esse creino “ex novo” norme comunitarie, bensì in quanto ne indicano il significato ed i limiti di applicazione, con efficacia “erga omnes” nell’ambito della Comunità (Cass. dell’11.12.2014, n. 22577; Cass. dell’08/02/2016, n. 2468; Cass. 03/03/2017, n. 5381). Ancora, questa Corte ha già affermato che in tema di efficacia del diritto comunitario, il fondamento della diretta applicazione e della prevalenza delle norme comunitarie su quelle statali si rinviene essenzialmente nell’art. 11 della Costituzione, laddove stabilisce che l’Italia consente alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni (Cass. 4466/05 citata).

7.1 Il contrasto tra norme statali e disciplina comunitaria non dà luogo ad invalidità o alla illegittimità delle prime, ma comporta la loro “non applicazione”, che consiste nell’impedire che la norma interna venga in rilievo per la definizione della controversia davanti al giudice nazionale (Cass. del 2.3.2005, n. 4466, in motiv.). L’interpretazione del diritto comunitario, con efficacia vincolante per tutte le autorità (giurisdizionali o amministrative) degli Stati membri, anche ultra partes compete alla Corte di Lussemburgo. Spetta infatti alla Corte di Giustizia, ai sensi dell’art. 164 del Trattato CEE, assicurare il rispetto del diritto nell’interpretazione e nell’applicazione del medesimo trattato. Da ciò se ne deve dedurre che qualsiasi sentenza che applica e/o interpreta una norma comunitaria ha indubbiamente carattere di sentenza dichiarativa del diritto comunitario, nel senso che la Corte di Giustizia, come interprete qualificato di questo diritto, ne precisa autoritariamente il significato con le proprie sentenze e, per tal via, ne determina, in definitiva, l’ampiezza e il contenuto delle possibilità applicative (Cass. n. 4466/05, cit.).

E’ alla luce dei detti principi che va riconosciuto alle sentenze della Corte di Giustizia il valore di ulteriore fonte del diritto comunitario, non nel senso – come già rilevato – che esse creino ex novo norme comunitarie, bensì in quanto ne indicano il significato ed i limiti di applicazione, con efficacia erga omnes nell’ambito della Comunità (Cass. 22577/12, cit.).

7.3 La Corte Costituzionale ha poi in particolare affermato che tale efficacia va riconosciuta a tutte le sentenze della Corte di Giustizia, sia pregiudiziali ai sensi dell’art. 177 del citato Trattato CEE (Corte Cost. n. 113/1985), sia che siano emesse in sede contenziosa ai sensi dell’art. 169 dello stesso Trattato (Corte Cost. n. 389/89, Corte Cost. n. 168/91). Giova, altresì, rammentare che sulla base del c.d. principio del “primato” della normativa comunitaria il giudice nazionale può disapplicare la normativa interna di uno Stato membro aderente alla Comunità Europea quando essa contrasta con il diritto Comunitario derivato. E invero, il diritto dell’Unione gode di una posizione di supremazia rispetto alle norme interne, espressamente desumibile, nell’ordinamento italiano, all’art. 11 ed all’art. 117, comma 1, della Costituzione. Ciò comporta che, in via generale, nessuna norma nazionale può porsi in contrasto con il diritto Eurounitario, con la conseguenza che il giudice ordinario che, nel caso concreto, rilevi tale violazione, deve comportarsi in modo tale da risolvere egli stesso tale antinomia.

I giudici nazionali, infatti, attraverso gli strumenti, quali l’interpretazione conforme, la disapplicazione, la sospensione provvisoria della misura nazionale ritenuta incompatibile con il diritto UE (anche prima della decisione della Corte), deve rendere omogenei l’ordinamento Eurounitario e quello nazionale.

8.Ciò posto, il principio secondo il quale la sentenza della Corte di giustizia Europea deve essere applicata dal giudice anche ai rapporti giuridici sorti e costituiti prima della sentenza interpretativa – come confermato sia dalla Corte Europea che da questa Corte di cassazione – si pone in contrasto con l’art. 1, comma 628, L. 30.12.2020, n. 178 (la legge di bilancio 2021) che, al contrario, vorrebbe applicare ai rapporti pregressi ancora non esauriti in quanto sub iudice, l’Irba in contrasto con il diritto unionale sin dal 1992, ancorchè priva della finalità specifica prevista dalle direttive sopra citate, di guisa che, nella impossibilità di procedere ad un’interpretazione della normativa nazionale (legge di bilancio 2021) conforme alle prescrizioni del diritto dell’Unione, la disposizione di cui all’art. 1, comma 628, L. 30.12.2020, n. 178 deve essere disapplicata, in quanto in contrasto con la direttiva n. 2008/118 che ha abrogato e sostituito quella n.. 12/92, come interpretate dalla ordinanza del 9 novembre 2021 della Corte di Giustizia Europea di diritto dell’Unione.

11. In definitiva, il ricorso va accolto; la sentenza impugnata va cassata e, decidendo nel merito, deve essere accolto l’originario ricorso dei contribuenti.

12. In considerazione della evoluzione normativa e della giurisprudenziale unionale, ricorrono i presupposti per la compensazione delle spese dell’intero giudizio.

P.Q.M.

La Corte accoglie il ricorso; cassa la sentenza impugnata e, decidendo nel merito, accoglie l’originario ricorso dei contribuenti.

Compensa le spese dell’intero giudizio.