Corte di Cassazione sentenza n. 8147 depositata il 3 aprile 2018
SOCIETA’ DI CAPITALI – SOCIETA’ PER AZIONI – ORGANI SOCIALI – AMMINISTRATORI – RAPPRESENTANZA – FIRMA CONGIUNTA DEGLI AMMINISTRATORI – PREVISIONE NELLO STATUTO DELLA SOCIETA’ – OPPONIBILITA’ AI TERZI – CONFIGURABILITA’ – FONDAMENTO – FATTISPECIE
FATTI DI CAUSA
T.A. adiva il Tribunale di Piacenza deducendo di aver lavorato con mansioni e qualifica di operaio alle dipendenze della Camuzzi Gasometri s.p.a. dal 28/3/1991 al 6/4/2001 allorquando aveva rassegnato le proprie dimissioni. Riferiva di essere stato assunto in pari data come collaboratore familiare da G.F. il quale, nella rivestita qualità di vicepresidente della predetta società Camuzzi (oggi Enel Rete Gas s.p.a.), aveva sottoscritto l’impegno della sua riassunzione presso la sede societaria di Piacenza, nel caso di risoluzione del rapporto di lavoro appena instaurato. Intervenuto detto evento in data 18/6/2009, il ricorrente lamentava l’inadempimento della società alla obbligazione assunta dal vicepresidente, ed invocava l’applicazione della tutela approntata dall’art. 2932 c.c. oltre al pagamento delle retribuzioni maturate dal giugno 2009 sino alla effettiva riassunzione.
Il Tribunale adito respingeva il ricorso con pronuncia che veniva confermata dalla Corte d’Appello di Bologna.
Il giudice del gravame condivideva l’iter argomentativo seguito dal giudice di prima istanza in ordine alla inidoneità della sottoscrizione apposta in calce alla lettera in data 6/4/2001, a vincolare la società in difetto dei poteri rappresentativi, risultando conferito al G. un potere di firma congiunta con G.S. il quale alla data descritta, tuttavia, non ricopriva più la carica di vicepresidente.
Né poteva reputarsi ammissibile la circostanza – per la prima volta introdotta in giudizio in grado di appello – alla cui stregua G.F. doveva ritenersi in possesso dei poteri di rappresentanza idonei a vincolare la società, rivestendo la qualifica di amministratore delegato al momento della sottoscrizione dell’atto, stante la novità della questione sottoposta allo scrutinio della Corte.
Questa, da ultimo, confermava la statuizione con la quale era stata dal primo giudice negata la applicabilità alla fattispecie, dell’art. 2384 c.c., comma 2 in quanto tale norma, riguardava unicamente il contenuto della rappresentanza e non l’esistenza stessa del relativo potere nella gestione della società sicché la previsione di firma congiunta non doveva ritenersi attinente alla estensione del potere rappresentativo ma ad una modalità del suo esercizio, e, in definitiva, alla sua titolarità.
La cassazione di tale decisione è domandata da T.A. sulla base di quattro motivi.
Resiste con controricorso la società intimata.
Entrambe le parti hanno depositato memoria illustrativa ai sensi dell’art. 378 c.p.c..
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. Con il primo motivo si denuncia omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5. Ci si duole che la Corte di merito abbia omesso di valutare la Delib. c.d.a. 29 marzo 2000 con la quale il Consiglio di Amministrazione della società aveva conferito a G.F., tutte le attribuzioni per la straordinaria amministrazione conferendogli il potere di rappresentare la società stessa con firma libera, la cui produzione in grado di appello, era stata ammessa, nella assenza di qualsiasi contestazione da parte appellata.
2. Il motivo va disatteso.
Deve al riguardo considerarsi che il nuovo testo dell’art. 360 c.p.c., n. 5 come novellato dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83 conv. in L. 7 agosto 2012, n. 134 applicabile alla fattispecie ratione temporis, introduce nell’ordinamento un vizio specifico che concerne l’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (vale a dire che se esaminato avrebbe determinato un esito diverso della controversia).
La parte ricorrente deve dunque indicare – nel rigoroso rispetto delle previsioni di cui all’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6) e all’art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4), – il “fatto storico”, il cui esame sia stato omesso, il “dato”, testuale o extratestuale, da cui ne risulti l’esistenza, il “come” e il “quando” (nel quadro processuale) tale fatto sia stato oggetto di discussione tra le parti, e la “decisività” del fatto stesso” (Cass. sez. un. 22/9/2014 n. 19881, Cass. sez. un. 7/4/2014 n.8053). Nella riformulazione dell’art. 360 c.p.c., n. 5 è dunque scomparso ogni riferimento letterale alla “motivazione” della sentenza impugnata e, accanto al vizio di omissione (seppur cambiato d’ambito e di spessore), non sono più menzionati i vizi di insufficienza e contraddittorietà. Ciò a supporto della generale funzione nomofilattica della Corte di Cassazione, quale giudice dello ius constitutionis e non, se non nei limiti della violazione di legge, dello ius litigatoris.
In questa prospettiva, proseguono le Sezioni Unite, la scelta operata dal legislatore è quella di limitare la rilevanza del vizio di motivazione, quale oggetto del sindacato di legittimità, alle fattispecie nelle quali esso si converte in violazione di legge: e ciò accade solo quando il vizio di motivazione sia così radicale da comportare la nullità della sentenza per “mancanza della motivazione”.
Pertanto, l’anomalia motivazionale denunciabile in sede di legittimità quale violazione di legge costituzionalmente rilevante attiene solo all’esistenza della motivazione in sé, e si esaurisce nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile fra affermazioni inconciliabili”, nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”.
Con riferimento poi, all’omesso esame di elementi istruttori, con condivisibile approccio, questa Corte ha affermato (vedi Cass. cit. SU n. 8053/2014) che lo stesso non integra di per sé vizio di omesso esame di un fatto decisivo, se il fatto storico rilevante in causa sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, benché la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie.
3. Nello specifico va rimarcato come l’iter motivazionale che innerva l’impugnata sentenza, non risponda ai requisiti dell’assoluta omissione o della mera apparenza, che avrebbero potuto giustificare l’esercizio del sindacato di legittimità, avendo la Corte distrettuale dato atto di non aver proceduto alla disamina della circostanza attinente alla titolarità dei poteri rappresentativi rivestiti dal G. anche in qualità di amministratore delegato della società, in ragione della non rituale allegazione formulata per la prima volta in grado di appello.
4. Con la seconda censura è denunciata nullità della sentenza per violazione dell’art. 414 c.p.c., nn. 4 e 5.
Si critica la statuizione con la quale la Corte distrettuale ha ritenuto inammissibile, per violazione del divieto di nova in appello, la allegazione concernente la titolarità in capo al G., del potere di rappresentanza della società quale amministratore delegato della stessa. Si deduce che gli oneri gravanti sulla parte ricorrente si esaurivano nella deduzione dell’esistenza del contratto e nella sua produzione, non anche nella allegazione dei titoli in forza dei quali il sottoscrittore del contratto aveva il potere di impegnare la società. Si precisa, quindi che a seguito delle eccezioni sollevate dalla convenuta, in sede di memoria difensiva, tempestivamente, era stata prodotta alla prima udienza la visura camerale dalla quale risultava che dal 29/3/2000 il G. rivestiva la carica di amministratore delegato della società.
5. La doglianza è priva di fondamento ove si consideri che la circostanza inerente alla titolarità dei poteri di rappresentanza sociale in capo al G. concerneva una situazione giuridica non prospettata in ricorso introduttivo di primo grado, perché fondata su un fatto costitutivo differente, (la rivestita qualità di amministratore delegato all’epoca della sottoscrizione della scrittura); circostanza questa che finiva per porre al giudice un nuovo tema d’indagine, spostando in tal modo i termini della controversia con l’effetto di alterare il regolare svolgimento del processo (cfr. Cass. 27/07/2009 n. 17457), giacché il fatto che giustificava la pretesa azionata risultava alterato nei suoi elementi materiali, non essendo in questione solamente una diversa qualificazione giuridica ma una immutazione dei fatti posti a fondamento del diritto (vedi al riguardo, con riferimento al divieto di modifica della “causa petendi” in appello, Cass. 25/8/2003 n.12460 secondo cui nel processo del lavoro, si ha introduzione di una domanda nuova per modificazione della “causa petendi”, non consentita in appello, quando il fatto che giustifica la pretesa sia alterato nei suoi elementi materiali, e, quindi, non sia in questione solamente una diversa qualificazione giuridica).
Il ricorrente non aveva, infatti, posto a fondamento del diritto azionato l’obbligazione assunta dalla società in persona dell’organo legittimato a rappresentare la società stessa, bensì l’obbligazione assunta dalla società nella persona di G.F. quale vicepresidente; figura questa, cui era risultato demandato il potere di sostituzione del presidente, congiuntamente all’altro vicepresidente G.S. il quale alla data di sottoscrizione dell’obbligazione, non ricopriva più detta carica.
Nell’ottica descritta, devono condividersi gli approdi ai quali è pervenuta la Corte di merito laddove ha reputato preclusa la successiva, tardiva allegazione della circostanza perché non compatibile con il sistema delle preclusioni che scandisce il rito del lavoro; e tali conclusioni possono bene essere condivise anche laddove si reputi che l’allegazione di altri fatti costitutivi realizzi un’ipotesi di mera emendatio libelli.
Ove ricorrano gravi motivi, ai sensi dell’art. 420 c.p.c., è infatti consentita la possibilità di modifica della domanda previa autorizzazione del giudicante (vedi Cass. S.U. 13/7/1993 n. 7708, cui adde, ex multis, Cass. 25/11/2005 n. 24900) secondo cui nel rito del lavoro, l’onere imposto al ricorrente dall’art. 414 c.p.c., n. 4, relativo all’esposizione degli elementi di fatto e di diritto che integrano la fattispecie costitutiva del diritto fatto valere in giudizio, è sanzionato dalla decadenza, come si desume dalla norma dell’art. 420 stesso codice secondo la quale l’attore può modificare la domanda giudiziale, ed in particolare la “causa petendi”, solo se ricorrono gravi motivi e previa autorizzazione del giudice. Tale decadenza non può essere vinta dall’eventuale accettazione del contraddittorio ad opera della controparte, atteso che nel rito del lavoro la disciplina della fase introduttiva del giudizio – e, a maggior ragione, quella (art. 437 c.p.c., comma 2) del giudizio di appello risponde ad esigenze di ordine pubblico attinenti al funzionamento stesso del processo, in aderenza ai principi di immediatezza, oralità e concentrazione che lo informano, nonché in linea con il principio della ragionevole durata del processo.
Tuttavia nella specie, detta autorizzazione non risulta rilasciata dal giudice di prima istanza; onde, sotto tale profilo, la pronuncia resiste alla censura all’esame.
6. Con il terzo motivo si prospetta violazione dell’art. 1388 c.c. in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3. Si critica la sentenza impugnata laddove, “sia pure con subordinata argomentazione”, ha ritenuto irrilevante la circostanza che all’epoca della sottoscrizione della lettera di impegno de qua, il G. avesse comunque poteri rappresentativi della società quale Amministratore Delegato, in quanto tale lettera era stata da lui firmata come “Vice Presidente” e non già quale amministratore delegato. Si deduce che, alla stregua della disposizione di cui all’art. 1388 c.c., ai fini della riferibilità al mandante della attività svolta dal mandatario, non è necessario che venga indicato il titolo in forza del quale il mandatario è titolare del potere rappresentativo, sicché l’eventuale omessa indicazione del titolo, risulta irrilevante ai fini della imputabilità degli effetti dell’atto alla sfera giuridica del mandante.
Alla stregua delle considerazioni espresse in relazione al motivo che precede, la questione trattata rimane logicamente assorbita, considerato che:
a) l’argomentazione adottata dalla Corte distrettuale era di natura meramente subordinata, come tale inidonea a definire il nucleo decisionale fondante della pronuncia;
b) in base alle considerazione espresse in relazione al motivo che precede, inammissibile si palesa la configurazione dell’esistenza di un potere rappresentativo della società in capo al G. quale amministratore delegato.
7. Con il quarto motivo il ricorrente denuncia violazione dell’art. 2384 c.c. in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3. Ribadisce la tesi già formulata in grado di appello, e che assume erroneamente non considerata dalla Corte distrettuale, secondo cui l’eventuale carenza di poteri rappresentativi in capo al G. in qualità di vice presidente, costituirebbe una “limitazione” in senso tecnico in quanto tale inopponibile ai terzi, alla stregua della citata disposizione.
8. Il motivo va disatteso alla stregua delle considerazioni di seguito esposte.
Per un ordinato iter motivazionale, occorre premettere che l’art. 2384 c.c. come sostituito con il citato D.P.R. n. 1127 del 1969, art. 5 così statuisce: “Gli amministratori che hanno la rappresentanza della società possono compiere tutti gli atti che rientrano nell’oggetto sociale, salvo le limitazioni che risultano dalla legge o dall’atto costitutivo. Le limitazioni al potere di rappresentanza che risultano dall’atto costitutivo o dallo statuto, anche se pubblicate, non sono opponibili ai terzi, salvo che si provi che questi abbiano intenzionalmente agito a danno della società”.
Detta disposizione, nella opinione di autorevole dottrina, è stata interpretata nel senso che l’inopponibilità ai terzi delle limitazioni ai poteri di rappresentanza di cui all’art. 2384 c.c., comma 2, riguardi unicamente il contenuto della rappresentanza, come avviene allorquando, ad esempio, nell’atto costitutivo sia previsto che i poteri degli amministratori siano limitati agli atti di ordinaria gestione, ovvero che gli atti comportanti disposizioni al di là di un determinato valore (o prezzo) o di un determinato tipo vengano preventivamente deliberati dall’assemblea dei soci; e che la società, invece, possa opporre ai terzi il mancato rispetto della clausola statutaria che prescrive la firma congiunta dei rappresentanti della società, sul presupposto che tale clausola riguarda l’esistenza stessa del potere di rappresentanza e non il contenuto dello stesso.
Tale assunto rinviene fondamento nel combinato disposto di cui agli artt. 2383 c.c., comma 6, e art. 2457 ter c.c., atteso che con tali disposizioni il legislatore italiano ha mostrato di volersi avvalere della facoltà attribuitagli dall’art. 9, n. 3, della direttiva comunitaria n. 151/68 (che consente agli Stati membri di rendere opponibili ai terzi la disposizione statutaria che attribuisce la rappresentanza congiuntamente a più persone, sempre che siano rispettati gli adempimenti di pubblicità previsti dall’art. 3 della stessa direttiva); non potrebbe altrimenti trovare spiegazione la duplice pubblicità (iscrizione nel registro delle imprese e menzione nel bollettino ufficiale delle s.p.a. e delle s.r.l., quest’ultima prima della abrogazione del comma 5) cui viene sottoposta l’indicazione della titolarità (congiunta o disgiunta) della rappresentanza pluripersonale (vedi sul punto, Cass. 20/8/2004 n.16376).
Deve pertanto ritenersi che gli approdi ai quali è pervenuta la Corte di merito siano conformi a diritto perché – incontroverso essendo il presupposto del regime di pubblicità cui era stato sottoposto il verbale del consiglio di amministrazione che riconosceva il potere congiunto dei vicepresidenti di sostituire il Presidente in caso di impedimento – si palesano coerenti con il ricordato e condiviso orientamento.
9. A conforto della correttezza della tesi patrocinata dai giudici del gravame e qui condivisa, appare, infine, pregnante il richiamo agli ulteriori principi affermati da questa Corte, secondo cui quando l’attività di gestione di una società dotata di personalità giuridica è affidata ad un consiglio d’amministrazione, si verifica (a differenza del caso dell’amministratore unico) una separazione del potere deliberativo, diretto a formare la volontà dell’ente, da quello di rappresentanza esterna, in quanto il primo appartiene al consiglio d’amministrazione, mentre il secondo spetta al presidente o all’amministratore cui esso sia stato espressamente conferito. Pertanto il contratto concluso dal presidente senza la ratifica del consiglio d’amministrazione – così come verificatosi nella specie – essendo stipulato da un rappresentante senza poteri, è inefficace per la società (vedi Cass. 25/3/2005 n.6468).
In definitiva, alla luce delle superiori argomentazioni, il ricorso è respinto.
Il governo delle spese del presente giudizio di legittimità segue il principio della soccombenza, nella misura in dispositivo liquidata.
La circostanza che il ricorso sia stato proposto in tempo posteriore al 30 gennaio 2013 impone di dar atto dell’applicabilità del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, nel testo introdotto dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17 e di provvedere in conformità.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio che liquida in Euro 200,00 per esborsi ed Euro 4.500,00 per compensi professionali, oltre spese generali al 15% ed accessori di legge.
Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, dichiara sussistenti i presupposti per il versamento, a carico del ricorrente, dell’ulteriore importo, a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso ex art. 13, comma 1-bis.
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