Corte di Cassazione sentenza n. 8476 depositata il 6 aprile 2018
CONTENZIOSO TRIBUTARIO – SENTENZA PENALE IRREVOCABILE, DI CONDANNA O DI ASSOLUZIONE, EMESSA SU REATI FISCALI – AUTORITA’ DI COSA GIUDICATA – ESCLUSIONE
Svolgimento del processo – Motivi della decisione
che:
p. 1. F.A. propone due motivi di ricorso per la cassazione della sentenza n. 152/39/12 del 19 aprile 2012 con la quale la commissione tributaria regionale della Campania, a conferma della prima decisione, ha ritenuto legittima la cartella di pagamento notificatagli da Equitalia Polis spa, su iscrizione a ruolo straordinario per Iva, Irap e sanzioni 2001/2005 (di importo complessivo superiore a 61 milioni di Euro). Ciò con riguardo all’avviso di accertamento già notificato alla società irregolare D.T.V. & c., di cui egli era stato ritenuto socio di fatto.
La commissione tributaria regionale, per quanto qui ancora rileva, ha ritenuto che: – non sussistessero i presupposti per disporre la richiesta riunione del presente procedimento a quelli aventi ad oggetto l’accertamento nei confronti della società di fatto, anche considerato che il F. aveva basato la contestazione della cartella, e del prodromico avviso di accertamento a lui relativo, su eccezioni di natura personale (mancata partecipazione alla società di fatto); – la qualità di socio del F. nella società di fatto in questione dovesse desumersi dalle risultanze dell’indagine penale, attestanti “una chiara compenetrazione del ricorrente nella “società irregolare D.T.V.” composta anche da altri soci”; – la contestazione riguardante la pretesa Iva ed Irap non potesse trovare accoglimento, “poichè formulata per la prima volta in questa sede e quindi da ritenersi inammissibile sensi del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 57)”.
Resistono con controricorso tanto l’agenzia delle entrate quanto Equitalia Sud spa.
Quest’ultima ha depositato memoria.
p. 2.1 Con il primo motivo di ricorso il F. lamenta – ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, – violazione o falsa applicazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 29. Per avere la commissione tributaria regionale erroneamente rigettato la sua istanza di riunione del presente giudizio a quelli aventi ad oggetto l’accertamento fiscale notificato alla società di fatto. Il che aveva precluso al giudice di merito di valutare unitariamente le risultanze dell’indagine penale “fondate su fatti comuni rilevanti ai due processi (pvc Guardia di Finanza”, intercettazioni telefoniche, attribuzione della qualifica di socio al F. solo a seguito di tali intercettazioni)”. Tale qualifica doveva comunque ritenersi insussistente in base alla sentenza n. 2504 del 16 febbraio 2012 (successiva alla deliberazione della sentenza CTR qui impugnata) con la quale il Tribunale di Napoli aveva assolto esso ricorrente dal reato di cui al D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 5, “perchè il fatto non sussiste”.
p. 2.2 I motivo non può trovare accoglimento.
Esso risulta finanche inammissibile là dove mira a suscitare, nella presente sede di legittimità, un sindacato sull’esercizio discrezionale, da parte del giudice di merito, del potere di disporre la riunione tra procedimenti connessi.
Deducendo la violazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 29, il F. lamenta infatti il cattivo esercizio di tale potere, assumendo che il giudice di appello avrebbe dovuto ravvisare i presupposti della connessione – anche probatoria – tra il presente procedimento (concernente la cartella notificatagli e l’avviso di accertamento sociale negli effetti a lui relativi) ed i procedimenti concernenti l’avviso notificato alla società.
Senonchè, si tratta di valutazione di merito non sindacabile dal giudice di legittimità; dovendosi, in proposito, riaffermare il principio secondo cui: “In tema di connessione di cause, il provvedimento di riunione, fondandosi su valutazioni di mera opportunità, costituisce esercizio del potere discrezionale del giudice, ed ha natura ordinatoria, essendo pertanto insuscettibile di impugnazione ed insindacabile in sede di legittimità”(Cass. SSUU 2245/15; conf. Cass. 1053/16).
A diversa conclusione non potrebbe giungersi nemmeno se alla censura in esame – che resterebbe comunque impropriamente formulata con riguardo alla violazione di norma sostanziale ai sensi del n. 3), e non già alla nullità del procedimento e della sentenza ai sensi del n. 4), dell’art. 360 cit. – si attribuisse l’intento di far emergere, non lo scorretto esercizio del potere ordinatorio di riunione da parte del giudice di merito, bensì un vero e proprio error in procedendo per mancata instaurazione del simultaneus processus in fattispecie di litisconsorzio necessario nell’accertamento fiscale societario.
Ora, opportunamente richiamato il principio generale per cui il motivo di cassazione deve essere formulato in maniera specifica, esaustiva, diretta, pertinente ai fatti di causa, inequivoca, immediatamente percepibile ed intelligibile (dunque, senza ingenerare la necessità, per il giudice di legittimità, di un’operazione di ricerca e ricostruzione di una eventualmente diversa e non esplicitata volontà impugnatoria della parte), è dirimente osservare come la censura in esame sarebbe comunque infondata pur se in tal senso orientata e, per così dire, “recuperata”. Posto che se è vero che “in materia tributaria, l’unitarietà dell’accertamento, che è alla base della rettifica delle dichiarazioni dei redditi delle società di persone e delle associazioni di cui al D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, art. 5 e dei soci delle stesse e la conseguente automatica imputazione dei redditi a ciascun socio, comporta che il ricorso tributario proposto, anche avverso un solo avviso di rettifica, da uno dei soci o dalla società, riguarda inscindibilmente sia la società che tutti i soci (…), sicchè tutti questi soggetti devono essere parte dello stesso procedimento e la controversia non può essere decisa, a pena di nullità assoluta rilevabile anche d’ufficio in ogni stato e grado del procedimento, limitatamente ad alcuni soltanto di essi” (Cass. 25300/14 in applicazione di quanto stabilito da SSUU 14815/08; conf. Cass. ord. 7789/16 ed altre), altrettanto indubbio è che questa regola (ritenuta non valevole in caso di accertamento ai fini Irap ed Iva: Cass. ord. 25136/13 ed altre), non ha comunque ragione d’essere applicata quando l’opposizione del socio abbia ad oggetto unicamente “questioni a lui personali” (così la giurisprudenza su cit.).
E ciò era esattamente ciò che accadeva nella fattispecie in esame, nella quale il F. fondava la propria opposizione – non già sulla non debenza, da parte del D.T. e della società di fatto da lui costituita, degli importi accertati – bensì sulla radicale insussistenza del rapporto societario tra esso F. e tale società irregolare; costituente il presupposto della sua responsabilità illimitata solidale per i debiti della società stessa.
Ora, questo aspetto di causa è stato correttamente colto dal giudice di appello, il quale ha rilevato l’insussistenza, nella specie, di un litisconsorzio necessario originario, atteso che il F. basava la propria contestazione (e della cartella, e dell’avviso di accertamento a lui relativo) non sulla insussistenza dei presupposti “obiettivi” dell’imposizione, ma appunto sulla insussistenza dei presupposti “soggettivi” di estensione della responsabilità tributaria sociale ai singoli soci; e ciò proprio per l’affermata deduzione di una “questione personale” insita nella negazione del rapporto sociale a lui relativo.
p. 3.1 Con il secondo motivo di ricorso il F. lamenta – ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, – omessa motivazione circa un punto decisivo della controversia, individuabile in quanto dedotto nel “quarto ed ultimo motivo di appello” da lui proposto avverso la sentenza di primo grado. Motivo concernente l’insussistenza di prova che egli fosse stato socio della presunta società di fatto. Tale profilo non era stato preso in esame dal giudice di merito proprio per effetto dell’erroneo rigetto dell’istanza di riunione da lui formulata.
p. 3.2 Il motivo è infondato.
Contrariamente a quanto sostenuto dal ricorrente, il giudice di appello ha preso in esame il motivo di gravame dal contribuente proposto in ordine al fatto che non risultasse in atti “giusta contestazione dell’avviso di accertamento, la benchè minima prova che il F. fosse stato socio della presunta società” (così la ricostruzione del “quarto ed ultimo motivo” di appello, come resa dal F. stesso a pag. 4 del ricorso per cassazione).
La commissione tributaria regionale ha infatti escluso la fondatezza della doglianza così formulata, assumendo invece che tale rapporto sociale dovesse ritenersi provato; risultando dalle indagini penali “una chiara compenetrazione del ricorrente nella società irregolare D.T.V. composta anche da altri soci”. Ciò è stato dal giudice di merito affermato a conferma della prima decisione di merito – all’esito della valutazione degli elementi posti a supporto dimostrativo dei prodromici avvisi di accertamento; scaturiti dal processo verbale redatto il 4.12.2006 dal Nucleo di Polizia Tributaria di Napoli nell’ambito di un’indagine su frodi Iva UE, nella quale erano emersi sufficienti elementi attestanti il ruolo di socio di fatto rivestito dal F. nel rapporto con il D.T., principale responsabile delle truffe.
Ora, tale affermazione viene confutata dal ricorrente esclusivamente in forza della su citata sopravvenuta sentenza del tribunale penale di Napoli n. 2504/12, assolutoria con formula il fatto non sussiste.
La censura – comunque pur essa ancora impropriamente incentrata sul rigetto dell’istanza di riunione, profilo di mera “opportunità” della cui inconsistenza si è appena detto – non si fa minimamente carico di specificare in che termini tale decisione assolutoria (di cui, tra il resto, neppure si deduce in ricorso l’avvenuto passaggio in giudicato) sia idonea a concretamente invalidare la pretesa impositiva dedotta nella cartella opposta; stante l’autonomia di tale pretesa rispetto all’accertamento dei presupposti di responsabilità penale per il reato di omessa dichiarazione di cui al D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 5 (reato dal quale il F. è stato prosciolto).
Tanto più considerato che la responsabilità solidale di quest’ultimo per il debito tributario della società di fatto ben potrebbe sussistere pur a fronte della ritenuta insussistenza, a suo carico, di un obbligo fiscale di natura dichiarativa.
Il motivo di ricorso in esame non si fa carico, in definitiva, di specificare l’asserita interferenza tra l’accertamento penale ed i presupposti della responsabilità tributaria qui dedotta; nè di indicare le ragioni per le quali l’esito del procedimento penale avrebbe dovuto determinare – in termini di certezza – un diverso avviso nel giudice tributario.
Specificazioni ed indicazioni tanto più necessarie alla luce della non preclusività (di cui lo stesso ricorrente mostra di essere consapevole) dell’accertamento del giudice penale – ancorchè assolutorio – rispetto a quello del giudice tributario (e viceversa).
Non – preclusività a sua volta discendente dall’autonomia dei diversi presupposti delle rispettive responsabilità, oltre che dei diversi principi informatori dei relativi procedimenti accertativi; quanto, a tacer d’altro, al peculiare atteggiarsi, in ciascuno di essi, della prova presuntiva e di quella testimoniale. Il che osterebbe, di per sè, a dare ingresso a quella libera circolazione probatoria genericamente invocata dal ricorrente.
Si è in proposito stabilito che: “In materia di contenzioso tributario, nessuna automatica autorità di cosa giudicata può attribuirsi alla sentenza penale irrevocabile, di condanna o di assoluzione, emessa in materia di reati fiscali, ancorchè i fatti esaminati in sede penale siano gli stessi che fondano l’accertamento degli Uffici finanziari, dal momento che nel processo tributario vigono i limiti in tema di prova posti dal D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 7, comma 4, e trovano ingresso, invece, anche presunzioni semplici, di per sè inidonee a supportare una pronuncia penale di condanna. Ne consegue che l’imputato assolto in sede penale, anche con formula piena, per non aver commesso il fatto o perchè il fatto non sussiste, può essere ritenuto responsabile fiscalmente qualora l’atto impositivo risulti fondato su validi indizi, insufficienti per un giudizio di responsabilità penale, ma adeguati, fino a prova contraria, nel giudizio tributario” (Cass. 16262/17; così anche Cass. 8129/12 ed altre).
Nè, sotto diverso ed ultimo profilo, il F. ha censurato l’ulteriore ratio decisoria – che deve dunque ritenersi ormai intangibile – sottesa alla statuizione qui impugnata; con la quale la commissione tributaria regionale ha ritenuto comunque inammissibilmente proposta, per violazione del divieto di novità in appello D.Lgs. n. 546 del 1992, ex art. 57, “la contestazione riguardante la richiesta delle imposte Irap ed Iva”.
Ne segue, in definitiva, il rigetto del ricorso, con condanna del ricorrente alla rifusione delle spese del presente giudizio di legittimità, liquidate come in dispositivo.
P.Q.M.
La Corte:
– rigetta il ricorso;
– condanna parte ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di cassazione, che liquida: – in Euro 15.000,00 a favore dell’agenzia delle entrate, oltre spese prenotate a debito; – in Euro 15.000,00 a favore di Equitalia, oltre rimborso forfettario spese generali ed accessori di legge;
v.to D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, come modificato dalla L. n. 228 del 2012;
– dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, a carico della parte ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso principale.
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