Corte di Cassazione sentenza n. 884 depositata il 16 gennaio 2019
Compenso amministratore – delibera assembleare
FATTI DI CAUSA
1. La F. s.r.l. propone ricorso per cassazione avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale della Toscana, depositata il 23 novembre 2009, che, in parziale riforma della sentenza di primo grado, ha dichiarato la legittimità dell’avviso di accertamento impugnato limitatamente al rilievo avente ad oggetto l’indebita deduzione del costo sostenuto per compensi agli amministratori.
2. Dall’esame della sentenza impugnata si evince che l’atto impositivo, emesso con riferimento al periodo di imposta 2003, si fonda sulla indebita deduzione di alcuni costi – quali quelli aventi ad oggetto i compensi agli amministratori e i relativi oneri contributivi, la svalutazione delle partecipazione in altra società, spese ritenute non inerenti e componenti positivi e interessi attivi non contabilizzati – e sul disconoscimento del diritto alla detrazione dell’i.v.a. per alcune operazioni e che la Commissione provinciale aveva accolto il ricorso, ad eccezione del rilievo relativo al costo rappresentato dall’acquisto di un software, ritenuto non inerente.
2.1. Il giudice di appello ha parzialmente accolto il gravame dell’Agenzia delle entrate limitatamente al rilievo avente ad oggetto le deduzioni operate per compensi agli amministratori, ritenendo che tali compensi fossero carenti dei requisiti di certezza e determinatezza per non essere stati oggetto di apposita delibera assembleare, ma previsti e approvati solo in sede di approvazione del bilancio.
3. Il ricorso è affidato a tre motivi.
4. Resiste con controricorso l’Agenzia delle Entrate.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. Con il primo motivo di ricorso la contribuente denuncia la violazione e falsa applicazione degli artt. 52 (ora, 83), 62 (ora, 95) e 75 (ora, 109), d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, e 2389 c.c., per aver la sentenza impugnata escluso il diritto alla deduzione dei compensi per difetto di apposita delibera assembleare, benché il relativo costo fosse stato effettivamente sostenuto e contabilizzato e fosse inerente rispetto all’attività della società.
1.1. Il motivo è infondato.
Con riferimento alla determinazione della misura del compenso degli amministratori di società di capitali, la disciplina previgente alla riforma del diritto societario introdotta dal d.lgs. 17 gennaio 2003, n. 6, stabilisce, all’art. 2364, primo comma, n. 3), c.c., applicabile alle società a responsabilità limitata, in virtù dell’espresso rinvio contenuto nell’art. 2486, secondo comma, c.c.41 che l’assemblea «determina il compenso degli amministratori e dei sindaci, se non è stabilito nell’atto costitutivo», e, al successivo art. 2389, primo comma, c.c., applicabile alle società a responsabilità limitata in virtù dell’espresso rinvio contenuto nell’art. 2487, secondo comma, c.c., che «i compensi,.— spettanti ai membri del consiglio di amministrazione e del comitato esecutivo sono stabiliti nell’atto costitutivo o dall’assemblea».
La richiamata riforma del diritto societario, per effetto della quale è venuta meno l’applicazione alle società a responsabilità limitata della previsione di cui agli artt. 2363, primo comma, n. 3, e 2389, primo comma, c.c., è entrata in vigore solo il 10 gennaio 2004 e, dunque, il suo ambito di operatività, sotto il profilo temporale, non si estende anche al caso in esame, avente ad oggetto un’operazione posta in essere nell’anno 2003.
Ciò posto, questa Corte, con sentenza pronunciata a sezioni unite, ha affermato, con riferimento ad un caso assoggettato alla previgente disciplina, che la determinazione del compenso degli amministratori di una società di capitali, qualora non sia stabilita nell’atto costitutivo, necessita una esplicita delibera assembleare, che non può considerarsi implicita in quella di approvazione del bilancio, la quale, dunque, non è idonea a configurare la specifica delibera richiesta dall’art. 2389 c.c., salvo che un’assemblea convocata solo per l’approvazione del bilancio, essendo totalitaria, non abbia espressamente discusso e approvato la proposta di determinazione dei compensi degli amministratori (cfr., Cass., sez. un., 29 agosto 2008, n. 21933).
Alla configurabilità di una delibera di determinazione del compenso degli amministratori implicita in quella di approvazione del bilancio ostano: la natura imperativa e inderogabile della previsione normativa, discendente dall’essere la disciplina del funzionamento delle società dettata, anche, nell’interesse pubblico al regolare svolgimento dell’attività economica; la distinta previsione della delibera di approvazione del bilancio e di quella di determinazione dei compensi; la mancata liberazione degli amministratori dalla responsabilità di gestione, nel caso di approvazione del bilancio; il diretto contrasto delle delibere tacite ed implicite con le regole di formazione della volontà della società.
In virtù di tale principio, questa sezione ha ritenuto, con ripetute pronunce, che la mancanza di una determinazione del compenso degli amministratori nelle forme suindicate non consente di considerare il costo sostenuto dalla società dotato dei requisiti di certezza e di oggettiva determinabilità di cui all’art. 109 (già 75), d.P.R. n. 917 del 1986 (così, Cass., ord., 30 marzo 2017, n. 8210; Cass. 28 ottobre 2015, n. 21953; Cass. 4 settembre 2013, n. 20265; Cass. 9 luglio 2013, n. 17673).
2.2. Parte ricorrente dissente dall’interpretazione secondo cui la inosservanza della disciplina civilistica (previgente), nella parte in cui prescrive(va) che, in difetto di previsione dell’atto costitutivo, la determinazione del compenso degli amministratori dovesse essere oggetto di specifica delibera assembleare, assumerebbe rilievo anche ai profili fiscali, dando luogo alla indeducibilità del costo (e alla detrazione della relativa i.v.a.), benché effettivamente sostenuto e contabilizzato.
In proposito, si evidenzia che, a causa della mancanza di una specifica delibera assembleare, l’importo spettante agli amministratori per le prestazioni rese risulta essere privo del carattere della determinatezza, essenziale ai fini della deduzione del costo, non potendo la sua quantificazione essere compiuta unilateralmente dagli amministratori medesimi, soggetti creditori.
A tal fine, è, dunque, necessario il consenso manifestato dalla società mediante una formale deliberazione dell’assemblea dei soci, essendo irrilevante al riguardo il «fatto compiuto» della appostazione in bilancio degli importi fatturati, atteso il vizio di nullità insanabile del consenso sul quantum del compenso prestato con la delibera assembleare di approvazione del bilancio, non conforme alla prescrizione dell’art. 2389 c.c. (cfr., in tal senso, Cass. n. 21953/15).
Orbene, il giudice di appello, nel ritenere insussistente il diritto alla deduzione del costo e alla detrazione della relativa i.v.a. per indeterminatezza del costo medesimo, ha fatto corretta applicazione dei suesposti principi.
2. Con il secondo motivo deduce la violazione e falsa applicazione degli artt. 5, secondo comma, e 19, d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, e 2389 c.c., per aver il giudice di appello escluso, altresì, in presenza delle medesime circostanze di fatto indicate nel primo motivo, il diritto alla detrazione dell’i.v.a. assolta in relazione ai compensi versati agli amministratori.
2.1. Il motivo è inammissibile.
Occorre, in proposito, rilevare che, con riferimento al pagamento dei medesimi compensi agli amministratori e alla conseguente i.v.a. esposta nelle relative fatture e detratta dalla contribuente, l’Ufficio ha provveduto anche al recupero dell’imposta detratta.
Dalla sentenza di appello emerge, come già evidenziato, che il giudice di primo grado aveva integralmente accolto il ricorso della società contribuente, pervenendo, dunque, all’annullamento dell’atto impositivo impugnato nella sua interezza, incluso il rilievo fiscale attinente la detrazione dell’i.v.a. assolta sui compensi versati agli amministratori.
La Commissione regionale si è limitata ad accogliere l’appello dell’Amministrazione finanziaria limitatamente al solo rilievo attinente la deduzione dei costi rappresentati dai compensi versati agli amministratori, confermando nel resto la decisione gravata e, dunque, condividendo tale decisione nella parte in cui ha ritenuto illegittimo il recupero operato ai fini dell’i.v.a. Una siffatta individuazione dell’ambito oggettivo della pronuncia di (parziale) accoglimento dell’appello si impone non solo in considerazione dell’inequivoco tenore del dispositivo – secondo cui, «in parziale riforma della decisione di primo grado, dichiara la legittimità del recupero relativo alla deduzione per compensi agli amministratori. Conferma nel resto» (la decisione impugnata, n.d.r.) -, ma anche del contenuto della motivazione, in cui si chiarisce che l’accoglimento del gravame è circoscritta alla «legittimità del recupero di euro 523.012,61 operato dagli Uffici relativamente ai compensi agli amministratori», importo corrispondente a quello oggetto dei recuperi operati ai soli fini i.r.pe.g. per tale voce di costo.
Orbene, il mancato accoglimento dell’appello dell’Amministrazione finanziaria (anche) relativamente al recupero fiscale in esame determina l’assenza del presupposto della soccombenza e, conseguentemente, la carenza di interesse della ricorrente in ordine all’esame del motivo prospettato.
3. Con l’ultimo motivo di ricorso la contribuente si duole della violazione o falsa applicazione degli artt. 8, d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, 6, secondo comma, d.lgs. 1997, n. 472, 10, terzo comma, l. 27 luglio 2000, n. 212, 52 (ora, 83), 62 (ora, 95) e 75 (ora, 109), d.P.R. n. 917 del 1986, e 19, d.P.R. n. 633 del 1972, per mancato rilievo d’ufficio dell’inapplicabilità delle sanzioni amministrative tributarie comminate, allegando che la violazione è dipesa da obiettive condizioni di incertezza in ordine alla portata e all’ambito di applicazione delle disposizioni alle quali si riferisce.
3.1. Il motivo è inammissibile, in quanto, in tema di sanzioni amministrative per violazioni di norme fiscali, sussiste il potere del giudice tributario di dichiarare l’inapplicabilità delle sanzioni, anche in sede di legittimità, per errore sulla norma tributaria, in caso di obiettiva incertezza sulla portata e sull’ambito applicativo della stessa, solo in presenza di una domanda del contribuente formulata nei modi e nei termini processuali appropriati, che non può essere proposta per la prima volta nel giudizio di appello o nel giudizio di legittimità (cfr. Cass., ord., 14 luglio 2016, n. 14402; Cass. 14 gennaio 2015, n. 440). Non vi è prova agli atti che la ricorrente abbia assolto ad un siffatto onere.
4. Le spese processuali del giudizio di legittimità seguono il criterio della soccombenza e si liquidano come in dispositivo.
P.Q.M.
La Corte rigetta il primo motivo di ricorso e dichiara inammissibili i restanti; condanna parte ricorrente alla rifusion
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