Corte di Cassazione sentenza n. 9280 depositata il 16 aprile 2018
Condominio – condominio minimo – rimborso spese sostenute per la cosa comune nell’interesse dei condomini senza autorizzazione – applicabilita’ art. 1134 c.c. – sussistenza – urgenza delle opere – necessita’ – assenza di tabelle – ripartizione delle spese sostenute per le cose comuni fra i comproprietari – applicazione della disciplina del condominio e non di quella della comunione
FATTI DI CAUSA
RM e PP hanno convenuto dinanzi al tribunale di Brescia Lloyd Duffus (deceduto nel corso del giudizio di secondo grado) e Maria Tosini, esponendo di esser proprietari di due appartamenti ubicati al primo e al secondo piano dell’edificio in – omissis – di Brescia mentre i convenuti sono titolari di un appartamento al piano rialzato; che , avendo eseguito lavori urgenti alle parti comuni, sussistevano i presupposti per il rimborso delle somme anticipate nell’interesse degli altri condomini ai sensi dell’art. 1134 c.c..
Hanno chiesto il pagamento di € 20.432,94, o, in subordine, di un indennizzo a titolo di ingiustificato arricchimento.
I convenuti hanno dedotto che i lavori consistevano in migliorie o in interventi di riparazione dei danni alle porzioni comuni ed esclusive causati dalla realizzazione di un sopralzo nell’abitazione del PP.
Il tribunale ha respinto la domanda, ritenendo che non vi fosse prova dell’entità delle quote di proprietà dei singoli condomini e che non fosse possibile quindi ripartire la spesa, dichiarando inammissibile l’azione di ingiustificato arricchimento, data la sua natura residuale.
L’appello proposto da RM e PP è stato accolto dalla Corte di Brescia.La Corte territoriale, dopo aver rigettato l’eccezione di decadenza dall’impugnazione sollevata da Denise Duffus, ha ritenuto che i lavori eseguiti dagli appellanti fossero, almeno in parte, necessari alla conservazione dei beni e quindi urgenti e ne ha ripartito il costo in base alle presunzione di parità delle quote ai sensi dell’art. 1101 c.c.. Marisa Tosini, Denise Duffus, Davide Duffus e Dianne Duffus, la prima anche in proprio, e gli altri quali eredi di Lloyd Duffus, hanno proposto in 9 motivi. I resistenti si sono costituti con controricorso.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. Il primo motivo censura la violazione dell’articolo 112, e ss., 170,330,331, 332,342 c.p.c. in relazione all’art. 360, comma primo, n. 4, c.p.c., per aver il giudice concesso gli appellanti un duplice termine per integrare il contraddittorio nei confronti degli eredi di Lloyd Duffus, termini entrambi inutilmente decorsi. A parere dei ricorrenti la concessione di un secondo termine poteva aver luogo solo se gli appellanti avessero dimostrato di essere incorsi in decadenza per causa non imputabile; che quindi l’appello doveva dichiararsi inammissibile.
1.1. Il motivo è infondato. Va anzitutto osservato che il vizio di omessa pronuncia può condurre alla cassazione della sentenza solo nel caso in cui possa derivarne una decisione difforme da quella adottata, essendo altrimenti inutile il rinvio della causa al giudice di merito (Cass.11.4.2012, n. 5729; Cass. 25.11.2011, n. 24914; Cass. 3.3.2011, n. 5139). Ciò premesso, la Corte territoriale, preso atto della dichiarazione di decesso di Lloyd Duffus, ha ordinato la riassunzione verso gli eredi della parte deceduta, inclusa Marisa Tosini, la quale era già stata convenuta in proprio, sia dinanzi al tribunale che nel successivo giudizio di gravame.Data l’unicità della parte in senso sostanziale non occorreva, tuttavia, notificarle l’atto di riassunzione anche nella diversa qualità di erede. In tali ipotesi è sufficiente la notifica dell’atto introduttivo del giudizio di secondo grado, dovendo avere prevalenza l’effettività del contraddittorio e non dovendosi necessariamente procedere ad adempimenti che in alcun modo incidano sulla valida costituzione del rapporto processuale (Cass. 23.5.2008, n. 13411; Cass. 4.2.2003, n. 1613; Cass. 23.12.1987, n. 9618). L’integrazione del contraddittorio disposta in carenza dei presupposti e l’inottemperanza all’ordine di notifica risultano quindi ininfluenti, poiché non occorreva chiamare in causa la parte già presente in giudizio in proprio e, quindi, correttamente la causa è stata decisa nel merito (cfr. Cass. 5.2.2008, n. 2672; Cass.7.2.2006, n. 2593; Cass. 8.9.2003, n. 13097).
2. Per ragioni di ordine logico occorre esaminare il terzo motivo, che quale censura la violazione dell’art. 1139, 1123 e 1101 c.c. in relazione all’art. 360 comma primo n. 3 c.p.c.. per aver la Corte territoriale ritenuto che al condominio minimo potesse applicarsi la disciplina della comunione e non quella del condominio degli edifici, giungendo alla conseguenza errata che la spesa potesse essere ripartita in quote uguali.
2.1. Il motivo è fondato. La disciplina del condominio di edifici trova applicazione anche in caso di condominio minimo, cioè di condominio composto da due soli partecipanti, tanto con riguardo alle disposizioni che regolamentano la sua organizzazione interna, quanto, a fortiori, con riferimento alle norme che regolamentano le situazioni soggettive dei partecipanti, tra cui il diritto al rimborso delle spese fatte per la conservazione delle cose comuni (Cass. s.u. 31.1.2006, n. 2046; Cass. 26.5.1993, n. 5914; Cass. 12.10.2011, n. 21015). La quota di partecipazione alla spesa gravante sui proprietari delle porzioni esclusive site all’interno di un edificio condominiale deve essere determinata, quindi, in base all’art. 1123 c.c., tenendo anzitutto conto del valore della proprietà esclusiva, valore che preesiste anche alla formazione della tabella millesimale, la quale ha una funzione non costitutiva ma meramente ricognitiva e valutativa (tra le tante, Cass. 31.3.2017, n. 8520; Cass. 9.8.2011, n. 17115). In materia di comunione è invece operante il criterio sussidiario dell’art. 1101 c.c., secondo cui in mancanza di altra indicazione degli accordi, le quote si presumono uguali, mentre in materia condominiale, il rapporto tra i valori dei piani sussiste oggettivamente ed è come tale sempre accertabile dal giudice (Cass. 20.5.2011, n. 11264; Cass. 32.12.1999, n. 13505). Questi, investito della domanda di suddivisione di una spesa, deve procedere anche incidenter tantum a stabilire quale sia il valore del piano dei condomini obbligati al pagamento, in mancanza di una tabella millesimale regolarmente approvata, (cfr., Cass. 9.2.1985, n. 1057; Cass. 17.2.1971, n. 400; Cass. 24.10.1974, n. 3097). Quindi, la Corte territoriale non poteva presumere che la quota dei resistenti fosse pari ad un terzo dell’intero, ma avrebbe dovuto accertare quale ne fosse la reale consistenza sia pure ai soli fini della pronuncia.
3. Il secondo motivo censura la violazione degli artt. 112 e 345 c.p.c. in relazione all’art. 360, comma primo n. 4 c.p.c., assumendo che, essendo la domanda svolta in primo grado fondata sull’invocazione del regime condominiale, la Corte non poteva applicare la disciplina della comunione ordinaria e ritenere che le quote dei proprietari delle porzioni esclusive si presumessero uguali, in difetto di diverse risultanze. Il motivo è assorbito, poiché, per effetto dell’accoglimento del terzo motivo, è irrilevante stabilire se la Corte distrettuale, nel ritenere applicabile la presunzione dell’art. 1101 c.c., sia incorsa nel vizio di ultrapetizione, dato che la pronuncia è stata cassata in parte qua.
4. Il quarto motivo censura la violazione degli artt. 115 e 116 c.cp.c. e dell’art. 2697 c.c. in relazione all’art. 360, comma primo n. 3 c.p.c. per aver la Corte erroneamente asserito che la parità entità delle quote non fosse contestata.
4.1 D motivo è inammissibile. La Corte territoriale, pur asserendo che i ricorrenti non avessero contestato che la loro quota era pari ad un terzo, ha però fatto applicazione del criterio di cui all’art. 1101 c.c., che è del tutto residuale. Di conseguenza, l’affermazione della sentenza secondo cui il valore delle quote fosse incontestato costituisce un passaggio argomentativo che non esprime la reale ratio decidendi della pronuncia e che la parte non ha, quindi, interesse a censurare.
5. Il quinto motivo deduce la violazione degli artt. 60 e 69 disp. att. c.c., in relazione all’art. 360, comma primo n. 3 c.p.c. nonché degli artt. 132 e 156 c.p.c. e dell’art. 11 Cost. in relazione all’art. 360, comma primo, n.4 c.p.c., per aver la sentenza asserito, sia pure in un obiter dictum, che il tribunale avrebbe dovuto determinare le quote delle singole proprietà anche a prescindere dall’esistenza di una tabella millesimale.
5.1 D motivo è inammissibile poiché il giudice di merito non ha suddiviso la spesa in base al reale valore delle singole proprietà, ma in quote uguali e pertanto tale obiter dictum non ha spiegato alcun effetto sulla decisione adottata.
6. Con il sesto motivo si censura la violazione dell’art. 1134 c.c. in relazione all’art. 360, comma primo n. 3 c.p.c. nonché l’omesso esame di un fatto decisivo del giudizio, oggetto di discussione tra le parti ai sensi dell’art. 360, comma primo, n. 5 c.p.c., per aver la Corte territoriale accolto la domanda asserendo che le opere fossero urgenti in quanto necessarie, sovrapponendo le due nozioni, che invece integrano presupposti e nozioni giuridicamente distinte.Con il settimo motivo si censura la decisione per violazione dell’art.132 e 156 c.p.c. nonché dell’art. 111 Cost ai sensi dell’art. 360, comma primo n. 4 c.p.c. nonché per omesso esame di un fatto decisivo di causa ai sensi dell’art. 360, comma primo, n. 5 c.p.c., per avere la sentenza omesso di motivare sull’urgenza delle opere, avendo recepito acriticamente le conclusioni del c.t.u. che si era espresso solo sulla loro necessità.
6.1. I due motivi, da esaminare congiuntamente vertendo sulle medesime questioni, sono fondati. Il regime del rimborso delle spese per la cosa comune fatte dal singolo condominio nell’interesse anche degli altri è diverso dalla disciplina operante in materia di comunione. Nel primo caso il rimborso è dovuto non in caso di mera trascuranza degli altri comproprietari (art. 1110 c.c), ma solo quando la spesa si palesi urgente. Ciò si spiega con il fatto che nella comunione, i beni comuni costituiscono l’utilità finale del diritto dei partecipanti, i quali, se non vogliono chiedere lo scioglimento, possono decidere di provvedere personalmente alla loro conservazione, mentre nel condominio le porzioni comuni rappresentano necessariamente utilità strumentali al godimento dei beni individuali, sicché la legge regolamenta con maggior rigore la possibilità che il singolo possa interferire nella loro amministrazione. Tale rapporto di necessaria strumentalità caratterizza anche il cd. condominio minimo e, quindi, anche in tal caso la spesa autonomamente sostenuta da uno di essi è rimborsabile se abbia i requisiti dell’art. 1134 cod. civ. (Cass. 12.11.2011, n. 21105; Cass. 23.4.2010, n. 9743; Cass. 19.7.2007, n. 16075; Cass. s.u. 31.1.2006, n. 2046). L’urgenza degli interventi è nozione distinta dalla mera necessità di eseguirli, poiché ricorre quando, secondo un comune metro di valutazione, detti interventi appaiano indifferibili allo scopo di evitare un possibile, anche se non certo, nocumento alla cosa comune (Cass., 6.12.1984, n. 6400; Cass., 26.3. 2001, n. 4364) o ove siano connessi alla necessità di evitare che la cosa comune arrechi a terzi o alla stabilità dell’edificio un danno ragionevolmente imminente, o in presenza per la necessità di restituire alla cosa comune la sua piena ed effettiva funzionalità (Cass. 19.12.2011, n. 27519; Cass. 19.3.2012, n. 4330). Nel valutare l’urgenza occorre che le opere debbano essere eseguite senza ritardo, senza che il singolo abbia la possibilità di preavvertire gli altri condomini o l’amministratore (cfr., Cass.23.9.2016, n. 18759). In carenza di tali inderogabili condizioni non sono ammissibili indebite e non strettamente indispensabili interferenze dei singoli partecipanti alla gestione del fabbricato, la quale è riservata agli organi del condominio, essendo previsti strumenti alternativi (art.1105 c.c., comma 4) al fine di ovviare alla inerzia nella adozione o nella esecuzione di provvedimenti non urgenti, ma tuttavia necessari per la conservazione ed il godimento dell’edificio (cfr., da ultimo, Cass. 30.8.2017, n. 20528).
6.2. Gli interventi per i quali è stato richiesto il rimborso pro quota consistevano nel rifacimento della copertura del tetto, nella scrostatura e verniciatura del portone principale, nella fornitura e posa in opera di un cancello del passaggio carraio e pedonale, nella realizzazione di un armadio per la collocazione dei contatori, nell’adeguamento dell’impianto elettrico, nella tinteggiature delle facciate esterne e delle scale interne con sostituzione delle serrature, nella ricostruzione delle pluviali e dei cornicioni, nel ripristino della pavimentazione del cortile interno reso inevitabile dagli scavi per il rifacimento degli scarichi (cfr. sentenza pag. 4), il tutto per una spesa complessiva, preventivamente quantificata nell’atto introduttivo, di C 61.298,18, esclusi i costi per le migliorie alla proprietà esclusiva degli attori.
Il c.t.u., in applicazione del prezzario opere edili 2000, ha quantificato in € 49.037 la spesa complessivamente rimborsabile per esigenze di conservazione e godimento delle parti comuni, consistenti: a) nell’integrale rifacimento del tetto; b) nella sistemazione della zoccolatura al fabbricato; c) nella sostituzione del portone di ingresso e dei contatori; d) nella sistemazione dell’impianto elettrico del vano scala. Ha invece ritenuto spese voluttuarie quelle relative alla pitturazione del suddetto vano e alla motorizzazione del cancello carraio. I ricorrenti avevano tuttavia obiettato (cfr., relazione del c.t.p. Lutti, depositata all’udienza del 29.9.2005, osservazioni di cui al verbale di udienza del 29.9.2005, conclusioni di primo grado, pagg. 2-4; comparsa di risposta in appello pagg.4-5), che non fosse necessario l’integrale rifacimento della copertura, precisando che la situazione del tetto non era mutata dal 1999 e che inoltre nel settembre 1999 il tecnico incaricato degli attori aveva indicato come indispensabile la sola sostituzione delle pluviali, dei cornicioni e di talune tegole ammalorate, salvo mutare opinione dopo qualche mese allorquando il PP aveva acquistato il vano sottotetto per sopraelevarlo ed adibirlo ad abitazione, assumendo a quel punto come necessario un intervento ben più radicale e costoso, resosi in realtà indifferibile solo in relazione all’esigenza del PP di eseguire le trasformazioni nella propria porzione.
Hanno altresì evidenziato che nella citazione introduttiva il RM aveva dichiarato di aver assentito le sole opere di ordinaria manutenzione, mostrando quindi che la sostituzione della copertura non era indispensabile o indifferibile e che molti dei lavori fossero giustificati dalla sola esigenza di realizzare il ripristino architettonico dell’edificio, non potendo esser decisi unilateralmente in elusione dei poteri deliberativi dell’assemblea; che analoghi rilievi erano stati mossi quanto alla necessità della tinteggiature, alla sostituzione dei cancelli, allo spostamento del contatore. La sentenza di appello ha succintamente asserito che sussistevano i requisiti di urgenza, relativamente a parte delle opere, richiamando le conclusioni del c.t.u. per il quale la maggior parte di esse opere fosse necessaria tenuto conto delle condizioni dell’immobile. In tal modo la Corte distrettuale ha erroneamente desunto l’urgenza dei lavori dalla loro mera necessità, assimilando impropriamente le due nozioni, che invece vanno tenute distinte, ed ha omesso del tutto di pronunciare sui rilievi critici, formulati in modo puntuale, ai risultati della c.t.u., quanto alla reale indifferibilità del lavori e all’urgenza di eseguirli in tempi tali da non consentire di preavvertire gli altri proprietari o di provocare una decisione collegiale, nonché in ordine alla necessità di un intervento tanto radicale al tetto. Questa Corte ha più volte stabilito che il giudice del merito non è tenuto a fornire un’argomentata e dettagliata motivazione se aderisca alle elaborazioni del consulente, solo se esse non siano state contestate in modo specifico dalle parti, mentre, ove siano state sollevate censure dettagliate e non generiche, ha l’obbligo di fornire una precisa risposta argomentativa correlata alle specifiche critiche sollevate, corredando con una adeguata motivazione la propria scelta di confermare le conclusioni del consulente d’ufficio (cfr. Cass. 19.6.2015, n. 12703; Cass. 6.9.2007, n. 18668; Cass.20.5.2005, n. 10668). Sebbene, inoltre, la sentenza sia stata depositata in data 19.10.2012 e ricada quindi nel novellato regime dell’art. 360, comma primo, n. 5 c.p.c. e sebbene il controllo sulla motivazione sia ridotto al minimo costituzionale, nello specifico, in presenza delle analitiche deduzioni sollevate dagli appellati alla consulenza, peraltro dopo che quest’ultima era stata depositata (e senza che risultino rese integrazioni), la Corte territoriale non poteva limitarsi a richiamarne i contenuti, e pertanto il generico richiamo a detta relazione non può che sostanziare un motivazione apparente, con conseguente violazione dell’obbligo di motivazione.
7. L’ottavo motivo deduce la violazione dell’art. 115 c.cpc. e dell’art. 2697 c.c., in relazione all’art. 360, comma primo, n. 3 10 c.p.c.. La Corte avrebbe desunto l’ammontare della spesa sostenuta dai resistenti dalle risultanze dela c.t.u., la quale, a parere dei ricorrenti, poteva utilizzarsi solo per valutarne la congruità, non per accertare l’effettività dell’esborsi, non potendo essa costituire mezzo di prova.
7.1. Il motivo è infondato. La sentenza ha chiarito che i resistenti avevano prodotto le fatture comprovanti i costi sostenuti per l’esecuzione dei lavori all’edificio ma le ha ritenute inutilizzabili per il fatto che non era possibile scorporare quanto versato per le sole opere ritenute urgenti. Ha perciò demandato al c.t.u. il compito di quantificare solo il valore di quelle ammesse a rimborso e di verificare la congruità della spesa secondo il prezzario opere edili. Di conseguenza la Corte distrettuale non ha affatto disatteso l’art.2697 c.c. (avendo i resistenti dimostrato di aver effettuato la spesa e quale ne fosse l’ammontare), né deciso in base a prove non acquisite al giudizio o utilizzato la c.t.u. quale mezzo di prova.
8. Con il nono motivo si censura la violazione degli artt. 35,36, 167, 112, 345 c.pc. in relazione all’art. 360, comma primo n. 4 nonché per omesso esame di un fatto decisivo oggetto di discussione tra le parti, ai sensi dell’art. 360, comma primo, n 5 c.p.c., per aver la sentenza dichiarato l’inammissibilità della domanda di danni, proposta dagli appellati, non avvedendosi che era stata formulata una mera eccezione di compensazione come tale ammissibile anche nel secondo grado.
8.1. Il motivo è fondato. Si evince dalla comparsa di costituzione in primo grado, il cui contenuto è trascritto in ricorso (pag. 3), che gli attuali ricorrenti avevano eccepito che l’eventuale credito degli attori dovesse essere compensato con quello risarcitorio derivante dai danni arrecati alla loro proprietà esclusiva per effetto dell’esecuzione dei lavori.La Corte d’appello ha ritenuto di non poter pronunciare sul controcredito risarcitorio, ritenendo proposta una domanda nuova, inammissibile in appello ai sensi dell’art. 345 c.p.c.. La compensazione può, però, assumere il carattere di eccezione riconvenzionale, qualora la deduzione del controcredito abbia il solo scopo di paralizzare l’avversa pretesa, ovvero quello di domanda riconvenzionale, allorché miri ad ottenere una pronuncia di condanna nei confronti dell’altra parte per l’eventuale eccedenza (cfr., tra le tante, Cass. 2.3.2016, n. 4133). Nel caso in esame, i ricorrenti non avevano chiesto di pronunciare la condanna delle controparti al pagamento di un eventuale residuo a loro favore ma si erano limitati a sostenere che l’eventuale credito derivante dal concorso nella spesa dovesse considerarsi estinto – in tutto o in parte – per la sussistenza di un controcredito derivante dai danni arrecati alle porzioni esclusive. Una tale deduzione, essendo finalizzata a paralizzare la pretesa introdotta in via principale, non integrava la proposizione di una domanda riconvenzionale e pertanto la Corte territoriale, era tenuta ad esaminarla, essendo peraltro la questione sollevata già in primo grado.
9. Segue quindi accoglimento del terzo, settimo e nono motivo, con rigetto degli afrgcon rinvio della causa ad altra sezione della Corte d’appello di Brescia che deciderà anche sulle spese del presente grado.
P.Q.M.
accoglie il terzo, il sesto, il settimo ed il nono motivo, rigetta gli altri motivi, cassa la sentenza impugna in relazione ai motivi accolti e rinvia la causa ad altra sezione della Corte d’appello di rescia,
che deciderà anche sulle spese del presente grado di legittimità.