CORTE DI CASSAZIONE, sentenza penale, Ordinanza n. 8847 depositata il 1° marzo 2019
Fallimento ed altre procedure concorsuali – Bancarotta fraudolenta – Pene accessorie – Determinazione della durata – Art. 216, r.d. n. 267/1942 – Illegittimità costituzionale
Ritenuto in fatto e considerato in diritto
1. Con la sentenza impugnata del 13 marzo 2018, il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Milano ha applicato a G.C. la pena concordata tra le parti di anni due e mesi sei di reclusione in ordine ai delitti di associazione per delinquere e a plurimi fatti di bancarotta, disponendo la condanna alle sanzioni accessorie di cui all’art. 216 u.c. legge fallimentare nella durata prevista dalla legge ed alla interdizione dalla professione di commercialista per anni cinque.
2. Avverso la sentenza del Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Milano ha proposto ricorso l’imputato, per mezzo del difensore Avv. S.F., articolando plurime censure contenute in tre motivi.
2.1. Con il primo motivo, deduce violazione della legge penale e di altre norme giuridiche di cui si deve tener conto nella sua applicazione in riferimento alla condanna alle pene accessorie in seguito all’emissione della sentenza ex artt. 444 e 445 cod. proc. pen. per avere il giudice applicato all’imputato le pene accessorie di cui all’art. 216 u.c. della legge fallimentare nella durata prevista dalla legge, in violazione dei principi enunciati dall’art. 445 comma 1 cod. proc. pen., da interpretarsi come canoni aventi portata generale nella prospettiva del trattamento equo in ipotesi simili.
2.2. Con il secondo motivo, deduce analoga censura in relazione alla quantificazione della durata delle pene accessorie ex art. 216 u.c. legge fallimentare in relazione all’art. 37 cod. pen. per avere omesso il giudice di merito di operarne la determinazione in conformità all’entità della pena principale.
2.3. Con il terzo motivo, deduce mancanza di motivazione in riferimento alla quantificazione della sanzione accessoria di cui all’art. 30 cod. pen., fondata su valutazione meramente reiterative della delibazione ex art. 129 cod. proc. pen..
3. Il ricorso è, in parte, fondato.
4. La sentenza impugnata deve essere annullata in riferimento alla determinazione della durata delle pene accessorie, applicate all’imputato, in seguito alla declaratoria di illegittimità costituzionale dell’art. 216 u.c. I.f..
4.1. Con la sentenza n. 222 del 5 dicembre 2018, la Consulta ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 216, u.c., R.D. 267/1942 nella parte in cui dispone che “la condanna per uno dei delitti previsti nel presente articolo importa per la durata di dieci anni l’inabilitazione all’esercizio di un’impresa commerciale e l’incapacità per la stessa durata ad esercitare uffici direttivi presso qualsiasi impresa”, sostituendo additivamente alla preposizione “per la durata di dieci anni” la indicazione temporale “fino a dieci anni”, e siffatta declaratoria – avente efficacia ex tunc ai sensi dell’art. 30 della L. costituzionale n.87 del 1953 – trova applicazione nell’ambito del presente procedimento in quanto – sebbene la questione sia stata inammissibilmente prospettata nel ricorso invocando l’applicazione dell’art. 445 cod. proc. pen. – la durata delle sanzioni accessorie come determinata nella sentenza impugnata si qualifica in termini di (sopravvenuta) illegalità della pena, apprezzabile ex officio in sede di legittimità (S.U. n.33040 del 26 febbraio 2015, Jazouli, Rv. 264207).
4.2. Nella sentenza additiva richiamata, la Corte costituzionale ha argomentato criticamente riguardo l’applicabilità dello strumento di commisurazione (cor)relativa declinato dall’art. 37 cod. pen. che, in ipotesi di pena accessoria indeterminata, ne declina la durata nella stessa misura della pena principale, ritenendo il relativo meccanismo non adeguato ad assicurare la necessaria autonoma quantificazione in considerazione della specifica e non sovrapponibile funzione del diverso ordine di pene sia in relazione al diverso carico di afflittività rispetto ai diritti fondamentali della persona, che della diversa finalità.
4.3. Siffatta interpretazione non è stata ritenuta vincolante in una prima applicazione giurisprudenziale (Sez. 5, 7 dicembre 2018 in proc. 23648/2016, Piermartiri, notizia di decisione n.16/2018), mentre altro orientamento (Sez. 5, 13 dicembre 2018 in proc. 3703/2018, Retrosi) si è orientato nel senso di dover rimettere al giudice del merito la determinazione discrezionale dell’entità delle pene accessorie ex art. 216 u.c..
4.4.Alla stregua di siffatto contrasto, manifestatosi nell’immediatezza della pronuncia della Consulta, è stata rimessa alle Sezioni Unite (Sez. 5, ord. n. 56458 del 12 dicembre 2018 in proc. Suraci ed altri.) la questione «se le pena accessorie previste per il reato di bancarotta fraudolenta dall’art. 216, ultimo comma, della legge fallimentare, come riformulato ad opera della sentenza n. 222 del 5/12/2018 della Corte costituzionale con sentenza dichiarativa di illegittimità costituzionale, mediante l’introduzione della previsione della sola durata massima “fino a dieci anni” debbano considerarsi pena con durata non predeterminata e quindi ricadere nella regola generale di computo di cui all’art. 37 cod. pen. (che prevede la commisurazione della pena accessoria non predeterminata alla pena principale inflitta), con la conseguenza che è la stessa Cassazione a poter operare la detta commisurazione con riferimento ai processi pendenti; ovvero se, per effetto, della nuova formulazione, la durata delle pene accessorie debba invece considerarsi predeterminata entro la forbice data, con la conseguenza che non trova applicazione l’art. 37 cod. pen. ma, di regola, la rideterminazione involge un giudizio di fatto di competenza del giudice del merito, da effettuarsi facendo ricorso ai parametri di cui all’art. 133 cod. pen.».
4.5. Nel caso in esame, ritiene il Collegio di aderire all’orientamento che ammette l’applicabilità dello strumento di commisurazione declinato dall’art. 37 cod. pen. che, in ipotesi di pena accessoria indeterminata, ne declina la durata nella stessa misura della pena principale (Sez. U, n.6240 del 27/11/2014 – dep. 2015, B., Rv. 262328, n. 4727 del 2000 Rv. 215987, n. 19807 del 2008 Rv. 240006, n. 41874 del 2008 Rv. 241410, n. 29780 del 2010 Rv. 248258, n. 51526 del 2013 Rv. 258666, n. 2925 del 2014 Rv. 257940, n. 20428 del 2014 Rv. 259650).
5. La sentenza impugnata deve essere, pertanto, annullata senza rinvio limitatamente alla determinazione della durata delle sanzioni accessorie di cui all’art. 216 u.c. I.f., irrogate all’imputato nella misura di dieci anni, che si rideterminano nella misura di due anni e sei mesi in conformità alla pena principale applicata.
Siffatta determinazione può essere disposta dalla Corte di cassazione ai sensi della nuova formulazione dell’art. 620, lett. I), cod. proc. pen., come sostituito dall’art. 1, comma 67, legge n. 103 del 2017, sulla base degli elementi di fatto che emergono dal giudizio di merito (Sez. un. n. 3464 del 30/11/2017 – dep. 2018, Matrone, Rv. 271831) e trattandosi di valutazione ancorata alla durata della pena principale oggetto di accordo.
6. E’, invece, aspecifica la doglianza inerente vizio della motivazione riguardo la durata della sanzione accessoria di cui all’art. 30 cod. pen., contenuta nel terzo motivo di ricorso.
Nella sentenza impugnata risulta puntualmente argomentata la funzione e la durata della pena accessoria della interdizione dalla professione di commercialista, ritenuta necessaria – proprio nella durata come determinata – ad assicurare, in unione alla pena detentiva concordata tra le parti, la congruità del trattamento sanzionatone rispetto al fine rieducativo, in presenza di una condotta illecita consumata con “abuso della professione”, locuzione intesa nel senso di uso abnorme del diritto all’esercizio di una determinata professione, con l’intento di conseguire uno scopo diverso da quello al quale l’abilitazione è strumentale (Sez. 6, n. 14368 del 17/11/1999, Rotondo, Rv. 216829).
P.Q.M.
Annulla la sentenza impugnata limitatamente alla durata della inabilitazione dall’esercizio di impresa commerciale e dell’incapacità ad esercitare uffici direttivi presso qualsiasi impresa, che ridetermina in anni due e mesi sei. Dichiara inammissibile nel resto il ricorso.
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