Corte di Cassazione, Sez. UU., sentenza n. 758 depositata il 12 gennaio 2022

giudice di pace – erronea scelta del rito ordinario

FATTI DI CAUSA

In data 23 giugno 2014 la G.I. srl riceveva la notifica della cartella di pagamento n. 0932013000318444-1000, trasmessa da Equitalia Centro S.p.A., recante un credito del Comune di Porto Viro (RO) per sanzioni amministrative conseguenti ad una violazione del codice della strada.

Con atto di citazione notificato il 15-18 luglio  2014,  la  G.I. conveniva in giudizio  innanzi  al Giudice  di  Pace  di Ravenna sia l’agente della riscossione, sia l’ente impositore, qualificando la propria iniziativa processuale come opposizione ex art. 615 c.p.c.; nel merito deduceva, tra l’altro, che il  verbale  di  accertamento dell’infrazione non le era mai stato notificato.

La società attrice provvedeva, ai fini della iscrizione della causa a ruolo, a depositare  l’atto  introduttivo  del  processo  di  primo  grado nella cancelleria del giudice adito in data 10 dicembre  2014, cinque giorni prima dell’udienza di comparizione ivi indicata.

Prima di tale deposito, il Comune di Porto Viro faceva pervenire alla cancelleria del giudice di primo grado, in data 11 agosto 2014, una comparsa di risposta con cui produceva l’atto di citazione notificato, la copia del verbale di accertamento e la  relata  della  notificazione eseguita il 28 ottobre 2011.

Il Giudice di Pace di Ravenna, con sentenza del 1 dicembre 2015, accoglieva la domanda della G.I. e annullava la cartella di pagamento. Rilevava che il Comune di Porto Viro era  rimasto contumace, non essendosi costituito in giudizio, e che  la documentazione da esso prodotta non era utilizzabile come prova dell’avvenuta regolare notifica del  verbale  presupposto;  Equitalia Centro, pur costituita, non aveva  provato  la regolare notifica  degli atti del Comune di Porto Viro.

La decisione veniva impugnata dal Comune di Porto Viro, il quale sosteneva di essersi regolarmente costituito in primo grado mediante la succitata comparsa dell’l1 agosto 2014, dimostrando altresì l’avvenuta notificazione del verbale di accertamento.

Nel giudizio di appello, l’appellata G.I. deduceva la irregolarità della costituzione  del  Comune  nel  processo  di  primo grado, poiché la trasmissione della comparsa al Giudice di Pace (1’11 agosto 2014) era avvenuta prima dell’iscrizione a  ruolo  della controversia da parte dell’attrice (il 10 dicembre 2014), sicché correttamente il convenuto (che non aveva autonomamente iscritto a ruolo la causa) era stato considerato contumace. Equitalia  Centro, agente della riscossione, rimaneva contumace.

Il Tribunale di Ravenna, con sentenza del  24  ottobre  2017, accoglieva l’appello e,  in  totale  riforma  delle  statuizioni  di  primo grado, respingeva l’originaria opposizione della società attrice.

Ad avviso del Tribunale, erroneamente il Giudice di Pace aveva considerato il Comune di Porto Viro come contumace e omesso di valutare le eccezioni da esso formulate e la documentazione prodotta, essendosi il Comune costituito regolarmente mediante l’invio della comparsa e dei documenti alla cancelleria del Giudice di Pace a mezzo posta; non poteva attribuirsi  rilievo  alla  mancata  iscrizione  a  ruolo della causa da parte del Comune,  atteso  che  la  società  attrice  vi aveva successivamente provveduto in data 10 dicembre 2014 e che il Comune, con l’invio della comparsa di risposta, si era  reso giuridicamente presente nel processo costituendosi; con riguardo al merito dell’opposizione, il verbale presupposto risultava regolarmente notificato e  insussistente  la  denunciata  nullità  della  cartella impugnata.

Avverso questa sentenza la  G.  I.  ha  proposto  ricorso per cassazione, illustrato da memoria, resistito  dal Comune  di Porto Viro.

Il ricorso è stato rimesso alle Sezioni Unite, a seguito di ordinanza interlocutoria della Terza Sezione n. 12233 del 10 maggio 2021.

Il Procuratore generale  ha  presentato  motivate  conclusioni  scritte sia nella prima fase del giudizio di cassazione sia dinanzi alle Sezioni Unite.

Il Comune di Porto Viro ha presentato memoria.

RAGIONI DELLA DECISIONE

1.- Con un unico motivo  la  ricorrente  denuncia  «omessa, insufficiente e contraddittoria  motivazione  sull’unico  punto  decisivo della controversia inerente alla contumacia del Comune di Porto Viro nel giudizio di primo grado per irrituale costituzione avvenuta prima ancora dell’instaurarsi del contraddittorio». La sentenza del Tribunale di Ravenna è censurata per avere ritenuto validamente costituito in primo grado – anziché contumace – il Comune di Porto Viro, con la conseguenza che la produzione documentale da esso effettuata nel giudizio di primo grado avrebbe dovuto essere considerata inutilizzabile. L’Amministrazione comunale aveva omesso di presentare la nota d’iscrizione a ruolo e di pagare il contributo unificato; il processo innanzi al Giudice di Pace non era ancora incardinato sul ruolo generale dell’ufficio quando il Comune convenuto aveva inviato la propria comparsa di costituzione.

2.- La Terza Sezione  Civile,  con  ordinanza  interlocutoria n. 12233 del 2021, ha rimesso alle Sezioni Unite l’esame di altra questione, di massima di particolare importanza, riguardante le conseguenze dell’erronea scelta del rito ordinario compiuta per l’opposizione a cartella di pagamento che,  ad  avviso  dell’attrice,  costituiva  il  primo atto con il quale era venuta a conoscenza della sanzione irrogata.

La G.I.  ha  introdotto  il  giudizio  in  primo  grado mediante la notifica di un atto di  citazione,  il  15  luglio  2014,  nel termine perentorio di  trenta  giorni,  di  cui all’art.  7  del  d.lgs.  n.  150 del 1 settembre 2011 dalla notifica della cartella (in data  23  giugno 2014) – anziché  mediante  proposizione  di  un  ricorso  –  e  ha depositato l’atto notificato nella cancelleria del Giudice di Pace oltre la scadenza del predetto termine.

2.1.-    La   questione, rilevata d’ufficio dal  collegio rimettente   e preliminare rispetto  a quelle poste dal ricorrente, concerne la necessità  o meno  –  ai fini  della  salvezza  degli effetti,  sostanziali  e processuali,  prodotti  dalla  domanda    avanzata con rito diverso da quello prescritto –  di un provvedimento di mutamento del rito (ex art. 4, comma 5, d.lgs. n. 150 del 2011) da parte dal giudice di prima istanza non oltre la prima udienza di comparizione delle parti.

Ed infatti, qualora non sia possibile far salvi gli effetti processuali della citazione notificata il 15 luglio 2014, a causa della mancata emissione dell’ordinanza ex art. 4 d.lgs. n. 150 del 2011, il deposito in data 10 dicembre 2014 della citazione notificata (equipollente del deposito del ricorso prescritto dalla norma sul rito) sarebbe da considerare tardivo rispetto al termine decadenziale suindicato e, conseguentemente, dovrebbe rilevarsi ex officio, con pronuncia  ex art. 382 c.p.c., che la causa non poteva essere proposta o il processo proseguito (ad avviso  dell’ordinanza  interlocutoria, «l’inosservanza del rito prescritto dal legislatore parrebbe doversi considerare esiziale»).

Di contro, l’adesione all’opposta soluzione ermeneutica comporterebbe l’irrilevanza della data del deposito della citazione poiché questa, pur non costituendo l’atto d’impulso previsto dal legislatore nella controversia, è stata tempestivamente notificata dall’attrice entro trenta giorni dalla ricezione della cartella di pagamento impugnata, non rilevando che (la citazione) sia stata depositata oltre tale termine ai fini della iscrizione della causa a ruolo.

3.- Il Collegio ritiene preferibile questa seconda soluzione.

3.1.- Si osserva preliminarmente che l’ordinanza interlocutoria non pone in discussione il  principio  della  convalidazione  degli  effetti dell’atto  introduttivo  erroneo,  nella  specie  citazione  (ex  art.  615 c.p.c.)  anziché  ricorso  (ex  art.  7 d.lgs.  n. 150 del  2011), nel caso in cui la citazione notificata sia anche  depositata  nel termine  di trenta giorni dalla notifica della cartella di pagamento, ai fini della opposizione   (cd.   recuperatoria)    alla riscossione di una sanzione amministrativa pecuniaria per violazione del codice della strada (ex  plurimis Cass., Sez. Un., n. 22080 del 2017  e sez. III, n. 14266  del 2021, ove la parte deduca che la cartella costituisce il primo atto tramite il quale è venuta a conoscenza della sanzione irrogata, in ragione della nullità o dell’omissione della notificazione del processo verbale di accertamento della violazione).

In  base a  tale principio,  da  decenni  applicato  nella  giurisprudenza di legittimità, si afferma  che,  laddove  come  atto  introduttivo  del giudizio sia utilizzata la citazione anziché il ricorso come previsto dalla legge, la stessa  può valere come ricorso, ma solo nel momento in cui, con il suo deposito nella cancelleria del giudice adito nel termine perentorio, abbia  raggiunto  lo scopo  proprio  di quell’atto, consistente nel portare a conoscenza del giudice la manifestazione di volontà di opporsi all’ingiunzione (cfr. tra le meno recenti, ex plurimis, Cass. n. 194 del 1981; Sez. Un.,  n.  2714  del  1991);  analogamente,  nel caso in cui la forma prevista dalla legge sia  la  citazione  ma  sia proposto un ricorso, non è sufficiente che questo sia depositato ma occorre che sia anche notificato nel termine perentorio previsto (cfr. Cass., Sez. Un., n. 4166 del 1985; più  recentemente,  Sez.  Un., n. 21675 del 2013).

Si tratta dunque di una sanatoria riferibile ai soli casi in cui l’atto introduttivo  sia  dotato  di  tutti  requisiti  indispensabili   al raggiungimento dello scopo (art.  156 c.p.c.),  inteso come coincidente con l’utile introduzione del procedimento secondo lo schema legale astrattamente previsto, il  che  può  avvenire  solo  se  l’atto  erroneo abbia operato esattamente come (e cioè replicato) quello legalmente corretto. Estranea a questa valutazione è, evidentemente, ogni considerazione concernente la (pur inequivoca e fattiva) volontà della parte  di instaurare  il  rapporto  processuale  e di introdurre  il  giudizio nel rispetto del termine di decadenza, quando detta volontà si sia manifestata  con atto in forma  diversa  da quella  prevista  dalla  legge per quel procedimento.

L’operatività di tale sanatoria, cosiddetta «dimidiata», prescindeva (e di regola prescinde) dall’intervento del giudice e rare sono le pronunce che, valutando la tempestività dell’atto introduttivo secondo il modello erroneo concretamente  seguito, si mostravano  favorevoli a una sanatoria «piena», in tal senso anticipando la futura evoluzione normativa (ad esempio, Cass.,  Sez.  Un., n. 1876 del 1985  e n.  8491 del 2011 giudicavano  tempestivo  l’atto  introduttivo  proposto  con ricorso, purché tempestivamente depositato, benché  la  legge prevedesse la forma della citazione).

4.- L’art. 4 del d.lgs. n. 150 del 2011, in materia di riduzione e semplificazione dei procedimenti civili di cognizione, costituisce una ulteriore tappa del percorso che segna il lento declino del formalismo processuale, prevedendo una sanatoria «piena» dell’atto introduttivo difforme dal modello legale, il quale risulta idoneo – sia che si tratti di citazione notificata o ricorso depositato nel termine di legge – ad impedire le decadenze e preclusioni che dovrebbero applicarsi qualora si facesse applicazione delle norme sul rito corretto che avrebbe dovuto essere (e non era stato) seguito.

4.1.- Questa prospettiva è implicitamente  (e  correttamente) seguita nell’ordinanza interlocutoria, la quale dubita tuttavia se, ai fini dell’operatività della predetta sanatoria, sia necessaria o no la pronuncia di una ordinanza di mutamento del rito, tenuto conto del riferimento, nel comma 5, alle norme del rito «seguito prima del mutamento»: pertanto essa chiede di chiarire se tale riferimento

«debba intendersi come indicazione del parametro normativo [correlato al rito erroneamente utilizzato] mediante cui valutare la tempestività della domanda o come dipendenza della salvezza degli effetti dal fatto che il mutamento sia stato disposto  stante  la menzione nella disposizione del fatto processuale del mutamento».

5.- Si è rilevato in dottrina che la principale novità insita nella predetta disposizione è il capovolgimento della  tradizionale prospettiva – secondo cui le «regole del gioco» processuali non sono intercambiabili, bensì devono essere quelle previste ad hoc dal legislatore per ciascuna controversia – per approdare a una più pragmatica indifferenza per il modello procedimentale concretamente impiegato, ancorché derivante da un’erronea scelta dell’attore e dalla perpetuazione di tale  errore  insita  nell’inerzia  del  giudice  di  prime cure che non provveda al mutamento del rito  con  ordinanza  da emettere «anche d’ufficio, non oltre la prima udienza di comparizione delle parti» (comma 2), quando «una controversia viene promossa in forme diverse da quelle previste dal presente decreto» (comma 1).

Come emerge dalla Relazione illustrativa dello schema del decreto legislative n. 150 del 2011, il legislatore delegato si è mosso nella direzione di «ridurre al minimo l’ambito temporale di incertezza sulle regole destinate a disciplinare il processo, al fine di scongiurare vizi procedurali che, riverberandosi a catena su tutta l’attività successiva, possano far regredire il processo, in contraddizione con i principi di economia processuale e di ragionevole durata sanciti dall’articolo 111 della Costituzione».

5.1.- Dal potenziale consolidamento del rito erroneamente seguito (in conseguenza dell’errore nella scelta della forma dell’atto introduttivo) scaturisce la disposizione del quinto comma, la quale – con dizione simile a quella contenuta nell’art. 59 della legge n. 69 del 18 giugno 2009, in tema di translatio  iudicii  («… sono  fatti  salvi  gli effetti sostanziali e processuali che la domanda avrebbe prodotto …») – sancisce espressamente che  «gli  effetti  sostanziali  e  processuali della domanda  si producono  secondo  le norme del rito seguito prima del mutamento»: ciò equivale a dire che  la  domanda  giudiziale avanzata in forma non corretta (citazione anziché ricorso e viceversa) produce i suoi effetti propri, da valutare secondo il modello concretamente seguito, seppur difforme da quello  legale,  ferme restando «le decadenze  e le preclusioni  maturate  secondo  le norme del rito seguito prima del mutamento» (art. 4, comma 5).

Se ne ricava, dunque, un principio di «fungibilità tra i riti» – contrariamente a quanto previsto dalle norme codicistiche secondo cui la riconduzione al rito voluto dalla legge non incontra barriere preclusive (artt. 426 e 427  c.p.c.)  ed  è consentita  anche  in  appello (art. 439 c.p.c.) – poiché, pur nella loro diversità e  nonostante l’attribuzione ad ognuno di essi di un ambito applicativo preferenziale, ciascuno assicura il giusto processo: la differente declinazione delle regole processuali  perde così rilievo, a condizione  che siano  rispettate le regole essenziali del processo e, cioè, il diritto di difesa e il contraddittorio.

6.- In definitiva, l’ordinanza interlocutoria chiede di chiarire se e in che senso è possibile un consolidamento del rito difforme da quello legale, nel caso in cui l’atto introduttivo erroneo sia tempestivo secondo il modello legale difforme concretamente seguito (ad esempio, il ricorso sia stato depositato nel termine di decadenza) ma intempestivo secondo il modello legale che avrebbe dovuto essere seguito (perché non notificato  nello stesso termine in procedimento da introdurre con citazione o, viceversa, la citazione sia  stata notificata tempestivamente ma depositata tardivamente ai fini dell’iscrizione a ruolo della causa in procedimento da introdurre con ricorso); quale sia l’efficacia dell’ordinanza di mutamento del rito, dichiarativa o costitutiva, retroattiva o  irretroattiva  e,  soprattutto, quali siano le conseguenze della mancata o tardiva (oltre il limite temporale predetto) pronuncia dell’ordinanza stessa; e cioè se la tempestività di tale ordinanza  sia  requisito indefettibile  per far salvi gli effetti già prodotti dall’atto iniziale, cioè «se, ai fini della salvezza degli effetti, è necessario che il giudice, non oltre la prima udienza di comparizione delle parti, disponga il mutamento del rito» (cfr. ord. interloc.).

7.- Nella giurisprudenza di legittimità sono emersi alcuni orientamenti apparentemente non del tutto collimanti nell’applicazione dell’art. 4 d.lgs. n. 150 del 2011. 

7.1.- Secondo un primo orientamento, in fattispecie in cui l’ordinanza di mutamento del rito mancava, la Corte ha ritenuto che «l’opposizione ex art. 645 c.p.c. avverso l’ingiunzione ottenuta dall’avvocato nei confronti del proprio cliente ai fini del pagamento degli onorari e delle spese dovute, ai sensi del combinato disposto degli artt. 28 della legge n. 794 del 1942, 633 c.p.c. e 14 del d.lgs. n. 150 del 2011, proposta con atto di citazione, anziché con ricorso ai sensi dell’art. 702 bis c.p.c. e dell’art. 14 del d.lgs. n. 150 del 2011, è da reputare utilmente esperita qualora la citazione sia  stata comunque notificata entro il termine di quaranta giorni (di cui all’art. 641 c.p.c.) dal dì della notificazione dell’ingiunzione di pagamento. In tale evenienza, ai sensi dell’art. 4, comma 5, del d.lgs. n. 150 del 2011, gli effetti sostanziali e processuali correlati alla proposizione dell’opposizione si producono alla stregua del rito tempestivamente attivato, ancorché erroneamente prescelto, per cui il giudice adito deve disporre con ordinanza il mutamento del rito, ai sensi dell’art. 4, comma  1,  del d.lgs. n. 150 del 2011» (cfr. Cass., sez. Il,  n.  24069 del 2019).

Nella motivazione di questa sentenza la Corte, dopo avere censurato la decisione del giudice di merito per avere omesso di disporre il mutamento del rito, ha evidenziato che lo stesso giudice aveva mancato di riconoscere all’atto di citazione in opposizione (tempestivamente notificato entro il termine perentorio ex art. 641 c.p.c.) la «utile e proficua produzione degli effetti sostanziali e processuali correlati al rito prescelto sì erroneamente nondimeno tempestivamente attivato», soluzione coerente con  l’opzione legislativa «che, lungi dal sollecitare lo sterile  ossequio  al dettato della legge, risponde ad una ben precisa esigenza: calibrare la salvaguardia degli effetti alla stregua non già della mera conformità al rito astrattamente prefigurato, sibbene alla stregua dell’utile attivazione del rito ancorché erroneamente prescelto» (cfr. Cass. n. 24069 del 2019).

Il consolidamento del rito erroneamente adottato è ammesso anche da un’altra decisione (cfr. Cass., sez. III, n. 9847 del  2020)  in un caso in cui la notifica dell’atto di citazione in opposizione, impiegata in luogo del prescritto deposito del ricorso, era avvenuta nel termine di trenta giorni dalla notifica della cartella di pagamento e il giudice di primo grado aveva mancato di rilevare l’erroneità del rito che, comunque, non poteva essere rilevata dal giudice d’appello in ragione della preclusione stabilita dall’art. 4 d.lgs. n. 150 del 2011;  al contrario, dal consolidamento del modello procedimentale applicato, ancorché difforme da quello individuato dal legislatore, discendeva, quale immediata conseguenza, che l’atto introduttivo, e anche i suoi effetti di litispendenza, dovevano essere sindacati alla stregua delle regole processuali concretamente seguite, non già di quelle di  un diverso, ipotetico e non più applicabile rito (il principio enunciato è il seguente: «se l’opposizione al  verbale  di accertamento  di  violazione del codice della strada, regolata dall’art. 7 del d.lgs. n. 150 del 2011, è stata erroneamente  introdotta  col  rito  ordinario,  il  mutamento  del rito può essere disposto, ai sensi dell’art. 4, comma 2, del medesimo decreto, non oltre la  prima  udienza  di  comparizione  delle  parti, all’esito  della  quale  il  rito adottato  dall’opponente  in  primo  grado  si consolida anche con riguardo alla forma dell’impugnazione; pertanto, in tale fattispecie la tempestività dell’appello deve essere verificata prendendo come riferimento la data di consegna dell’atto all’ufficiale giudiziario per la notificazione, anziché quella del suo deposito in cancelleria»).

7.2.- Un secondo orientamento è riferibile a due precedenti (Cass., sez. III, n. 6318 del 2020 e sez. I, n. 8757 del 2018, cui si può aggiungere Cass., sez. II, n. 24379 del 2019) segnalati nell’ordinanza interlocutoria in senso divergente – per l’affermazione ivi contenuta secondo cui «non essendo possibile un mutamento del rito in appello, non trova conseguentemente applicazione la salvezza degli effetti prevista dall’art. 4, comma 5, d.lgs. n. 150 del 2011, che invece presuppone appunto un’ordinanza di mutamento del rito» – che riguardano, tuttavia, casi in cui l’errore cadeva sulla forma dell’atto di appello avverso ordinanze conclusive di giudizi sommari ex art. 702 ter c.p.c. In tali precedenti si è esclusa la convertibilità del ricorso depositato dall’appellante in atto di citazione in appello, in forza dell’art. 4, comma 5, d.lgs. n. 150 del 2011 e si è precisato che la decadenza dall’impugnazione è evitata, in forza del principio del raggiungimento dello scopo ai sensi dell’art. 156 c.p.c. se, entro il termine per impugnare, si proceda  non solo al deposito, ma anche alla notificazione del ricorso (di regola unitamente al decreto di fissazione dell’udienza), senza necessità, in tal caso, di una non configurabile pronuncia di mutamento del rito.

L’affermazione sopra riportata non conforta, però, la tesi della indispensabilità dell’ordinanza di mutamento del rito, ai fini della salvezza degli effetti della domanda, ma deve essere letta nel contesto di quelle decisioni che non riguardavano il caso della proposizione dell’atto introduttivo del giudizio di primo secondo un modello errato, bensì quello dell’errore nella scelta dell’atto di impugnazione del provvedimento di primo grado. Essa, dunque, non assume il significato di ancorare la salvezza degli effetti dell’atto introduttivo alla specifica adozione di un’ordinanza di mutamento del rito, ma ha piuttosto il senso di rimarcare la rigida barriera preclusiva ex art. 4, comma 2, ostativa all’emissione del provvedimento in appello, oltre alla necessità della corrispondenza dell’atto d’impugnazione a un modello procedimentale che, secondo l’attuale indirizzo giurisprudenziale (cfr. Cass., Sez. Un., n. 28575 del  2018 e n. 2907 del 2014; sez. II, n. 17666 del 2018; sez. VI, n. 19298 del 2017), non prevede deroghe al rito ordinario nella fase impugnatoria.

7.3.- Un terzo orientamento è riferibile ad altre  decisioni  (cfr. Cass., sez. II, n. 24185 e 25192 del 2021, n. 12796 del 2019) che, in procedimenti in cui erano state adottate le ordinanze  di mutamento del rito, richiedono – ai fini della salvezza degli effetti dell’atto introduttivo formulato  con atto di citazione anziché con ricorso (in tema di compensi professionali di avvocato) – il deposito della citazione notificata nel rispetto del termine perentorio, in tal modo implicitamente escludendo l’effetto innovativo dell’art. 4, comma 5, d.lgs. n. 150 del 2011 che è, invece, condivisibilmente presupposto nell’ordinanza interlocutoria. La predetta disposizione risulterebbe, in sostanza, reiterativa della prassi applicativa  formatasi  sugli artt. 426 e 427 c.p.c. in tema di «sanatoria dimidiata» (sub 3.1-3.2).

8.- Al contrario, come rilevato in dottrina, rispetto a tale prassi giurisprudenziale l’art. 4, comma 5, ha inteso innovare, al fine di ammettere una sanatoria piena degli effetti processuali e sostanziali prodotti dalla domanda originariamente proposta  (secondo  il  rito erroneo concretamente applicato)  e, quindi, di escludere che l’errore sulla forma dell’atto introduttivo possa riflettersi sulla tempestività dell’opposizione stessa, tranne quando si siano maturate decadenze e preclusioni (che «restano ferme») secondo le norme seguite precedentemente.

La soluzione della questione relativa alla salvezza degli effetti prodotti dalla domanda irrituale deve essere risolta alla luce dell’intentio legis di dettare, con l’art. 4 d.lgs. del 2011, una disposizione innovativa rispetto all’orientamento giurisprudenziale tradizionale sulla cosiddetta «sanatoria  dimidiata»  dell’atto introduttivo del giudizio.

8.1.- Come si legge nella Relazione illustrativa citata, la  ratio dell’art. 4, comma 5, consiste nell’esigenza «di escludere in modo univoco l’efficacia retroattiva del provvedimento che dispone il mutamento medesimo»: ne consegue che le norme che disciplinano il rito seguito prima del mutamento rilevano come parametro di valutazione di legittimità dell’atto introduttivo del giudizio, nel senso che gli effetti sostanziali e processuali della domanda vanno delibati secondo il rito (erroneo) concretamente applicato sino ad allora, «determinandosi la litispendenza – come osservato dal Procuratore Generale – sulla scorta dei criteri riferiti alla forma dell’atto così come effettivamente materializzata (“forma concreta”) e non alla forma che avrebbe dovuto essere (“forma ipotetica”)», senza possibilità di applicare a ritroso preclusioni riconducibili al nuovo rito da seguire nel successivo corso del procedimento.

8.2.- L’ordinanza di mutamento del rito non comporta una regressione del processo ad una fase anteriore a quella già svoltasi, né serve a valutare la legittimità degli atti di parte (e del giudice) adottati sino a quel momento alla stregua delle regole del nuovo rito, né costituisce un presupposto  per la salvezza  dei relativi effetti, i quali si producono in relazione alle norme del rito iniziale, ma indica solo il discrimine temporale tra l’applicazione delle regole del rito iniziale e quelle del rito da seguire nel prosieguo del giudizio, consentendo alle parti di adeguare le difese alle regole del rito da seguire (cfr. Cass., sez. VI, n. 13472 del 2019).

In tal senso può attribuirsi all’ordinanza di mutamento del rito una rilevanza costitutiva, senza che – come si è detto – le norme che regolano il nuovo rito diventino parametro di valutazione della legittimità degli atti già compiuti.

8.3.- E’ da seguire la tesi che attribuisce all’atto introduttivo la utile e proficua produzione degli effetti processuali e sostanziali  correlati  al rito erroneamente prescelto,  relegando  l’ordinanza  di mutamento  del rito ad un evento successivo,  valevole  pro-futuro  e  inidoneo  ad incidere ex post sulla domanda, o a convalidarne gli effetti (già realizzatisi), o ad impedire «le decadenze e le preclusioni maturate secondo le norme del rito seguito prima del mutamento».

Gli effetti, sostanziali e processuali, della domanda irritualmente avanzata si producono  alla  stregua  del rito concretamente  adottato, non soltanto quando il giudice di primo grado abbia adottato tempestivamente l’ordinanza di mutamento, ma anche quando tale provvedimento sia mancato, con conseguente consolidamento o stabilizzazione del rito erroneo. Ed infatti, come ancora rilevato dal Procuratore Generale, «una volta consolidatosi  il  rito  errato,  è solo sulla scorta di tale schema procedurale  che va  delibato  il  momento della litispendenza: infatti, non convince la diversa opzione che comunque computa la litispendenza secondo la forma ipotetica nonostante  che  in  essa  giammai  potrà  legittimamente essere  mutato il rito».

8.4.- Diversamente da quanto previsto dagli artt. 426, 427 e 439 c.p.c., secondo cui il mutamento del rito può essere disposto anche in grado di appello, la prima udienza di comparizione delle parti (art. 4, comma 2, d.lgs. n. 150 del 2011) costituisce un «rigido sbarramento per il mutamento  del rito» (cfr. Cass., sez. II,  n.  186 e 9847 del 2020), oltre il quale non sono consentiti la proposizione e il rilievo d’ufficio di questioni inerenti alla forma della domanda, conseguendone la stabilizzazione del rito erroneo, alla stregua del quale sindacare la validità degli atti e la tempestività della domanda (anche la Relazione illustrativa ha preso in considerazione l’ipotesi della «virtuale consolidabilità del rito erroneamente seguito dalle parti», in considerazione della presenza di un «rigida barriera temporale – la prima udienza di comparizione delle parti davanti al giudice – oltre la quale è precluso pronunziare il mutamento del rito, sia in via di eccezione di parte che come provvedimento officioso del giudicante»).

8.5.- Il potere attribuito al giudice dalla norma è limitato al ristabilimento del rito corretto da applicare nel successivo corso del giudizio. La diversa tesi ipotizzata nell’ordinanza interlocutoria, collegando la salvezza degli effetti di un atto di parte e la decadenza alla pronuncia o alla mancata pronuncia dell’ordinanza di mutamento del rito, si risolve nella attribuzione al giudice di un potere non desumibile da norme positive, con l’effetto di condizionare ex post la possibilità di una decisione sul merito della domanda a un evento (imprevedibile) che non è nella disponibilità della parte, favorendo l’esito negativo della definizione del procedimento in rito.

Il ripetuto riferimento alle «norme del rito seguito prima  del mutamento» (nel comma 5) non è utile a dimostrare la necessità del mutamento perché si produca l’effetto salvifico proprio dell’atto introduttivo difforme, ma solo a indicare che gli effetti sostanziali e processuali propri di tale atto  (erroneo)  si producono  ugualmente  e che, per converso, si applicano anche le decadenze  e  preclusioni proprie del rito erroneamente scelto dalla parte.

L’irretrattabilità del rito dopo la prima udienza di comparizione ex art. 4, comma  2, d.lgs. n. 150 del 2011, in mancanza  dell’ordinanza di mutamento, è un effetto sistematicamente coerente, se  si considera che l’art. 38 c.p.c. limita financo l’eccezione e il rilievo d’ufficio della incompetenza territoriale dopo l’udienza di cui all’art. 183 c.p.c., pur essendo le regole sulla competenza del giudice radicate nel principio costituzionale di cui all’art. 25, comma 1, Cost. L’effetto finale determinato da tale meccanismo preclusivo (ritenuto conforme a Costituzione da Corte costituzionale n. 128 del 1999) è che un giudice diverso da quello naturale e precostituito per legge viene investito stabilmente del potere di decidere la controversia, senza possibilità di metterne in discussione le decisioni in ragione dell’originario  difetto  di  competenza  (nel  senso  che  la  proposizione della  domanda giudiziale, ancorché presentata a  giudice incompetente, rappresenta un evento idoneo    ad    impedire la decadenza in quanto costituisce una manifestazione di volontà diretta ad instaurare un rapporto processuale, per conseguire l’intervento del giudice al fine di una pronuncia  sul  merito  della  pretesa, cfr.  Cass., sez. L., n. 822 del 1990; sez. I, n. 61 del 1985).

A maggior ragione non possono sorgere dubbi in relazione al fenomeno del consolidamento del rito, nel caso in cui il giudice, non provvedendo al mutamento, ometta di rilevare la difformità dell’atto introduttivo dal modello legale astratto. Ed infatti, le regole sul rito processuale non hanno copertura costituzionale quando non incidano negativamente sul contraddittorio e sull’esercizio del diritto difesa: è significativo che dall’adozione di un rito erroneo non deriva alcuna nullità, né la stessa può essere dedotta quale motivo di gravame, a meno che l’errore non abbia inciso sul contraddittorio o sull’esercizio del diritto di difesa o non abbia, in generale, cagionato un qualsivoglia altro specifico pregiudizio processuale alla parte (cfr., ex plurimis, Cass., sez. I, n. 12567 del  2021;  sez. III, n.1448 del  2015;  sez. L., n. 8422 del 2018; sez. II, n. 22075 del 2014).

8.6.- La «sanatoria dimidiata» dell’atto introduttivo non ritualmente introdotto nella forma (ordinaria o speciale) prevista dalla legge per la controversia non è più coerente con la sopravvenuta previsione normativa  di cui all’art.  4, comma  5, d.lgs. n. 150 del 2011, secondo il quale gli effetti della domanda si producono con riferimento alla forma (e alla data) dell’atto in concreto sia pur  erroneamente prescelto e non a quella che esso avrebbe dovuto avere. Tale evoluzione è coerente con la tendenza dell’ordinamento nazionale, in linea con l’art. 6, comma  1, della  Carta Edu, verso la dequotazione dei vizi formali conseguenti, in questo caso, all’erronea scelta del rito, ma anche ad errori più gravi, quale è quello sulla giurisdizione, cui si riferiscono  gli artt.  59, comma  2,  della  legge  n.  69  del  2009  e  11 c.p.a., che prevedono la salvezza degli effetti sostanziali e processuali che la domanda avrebbe prodotto se il giudice  avente  giurisdizione fosse stato adito fin dalla instaurazione del primo giudizio. 

9.- Le argomentazioni svolte nell’ordinanza interlocutoria  a sostegno della tesi «rigorista» non sono convincenti.

9.1.- Non  lo  è  quella  secondo  cui  «la  previsione  del  comma  5 dell’art. 4 si rivelerebbe inutile, perché l’essere avvenuto o meno il mutamento del rito resterebbe ininfluente»: ed infatti, lo scopo  e l’utilità dell’ordinanza  di mutamento  sono correlati  al ristabilimento del rito corretto che viene ricondotto nel binario processuale legale (sub 8.5), fermo restando che una ordinanza di mutamento del rito potrà non esserci in presenza di una decadenza o preclusione formatesi secondo le norme del rito erroneamente prescelto dalla parte.

9.2.- Non  lo  è quella  che  fa  leva  sul  potere  della  stessa  parte attrice di dedurre l’errore, parte «che dunque  è  responsabile  del mancato mutamento se non si accorge dell’errore  entro  la  prima udienza e non sollecita al giudice che non se ne accorga di rimediarlo: essa, potrebbe dirsi,  bene  deve  sopportarne  le  conseguenze»  (cfr. ord. interi.). A tale riguardo, premesso che la parte non ha interesse (e non può  essere  costretta)  a  denunciare  il  proprio  errore  nella scelta del rito, l’obiettivo del d.lgs. n.  150  del  2011 di  garantire  il rispetto  delle regole legali sul  rito è perseguibile,  secondo  la  volontà del legislatore, soltanto fino alla prima udienza di comparizione  delle parti, sicché oltre  tale  momento  processuale  il  rito  iniziale  si consolida, da «errato» (in  astratto)  diviene  «giusto»  (in  concreto)  e alla stregua di quest’ultimo devono essere sindacate la validità  e l’efficacia degli atti delle parti: ne consegue che non è consentito introdurre in via  interpretativa una  «sanzione  processuale»  a  presidio di un rigore formale che la  stessa  legge  ha  mostrato  di  non pretendere, avendo inteso «ridurre al minimo l’ambito temporale di incertezza sulle regole destinate a disciplinare il processo» (sub 5).

Le Sezioni Unite (n. 9558 del 2014) hanno invitato alla massima attenzione onde evitare di sanzionare comportamenti processuali ritenuti non conformi al modello  legale,  a  scapito  degli  altri  valori  in cui pure si sostanzia  il  processo  equo,  quali il diritto  di difesa, il diritto al contraddittorio e, in definitiva, il diritto ad un giudizio. In proposito, la Corte Europea di Strasburgo ammette le limitazioni all’accesso al giudice solo in quanto espressamente previste dalla legge ed  in presenza di un rapporto di proporzionalità tra  i mezzi impiegati  e lo scopo  perseguito  (cfr., ex plurimis,  Walchli  c. Francia,  26 luglio  1998) e pone in rilievo l’esigenza che le limitazioni al diritto di accesso  al giudice siano stabilite in modo chiaro e prevedibile e, dunque,  alla stregua di una giurisprudenza non ondivaga o non specifica (cfr., ex plurimis, Faltejsek c. Rep. Ceca,  15  agosto  2008,  citata  da  Cass., Sez. Un., n. 16084 del 2021 e n. 13453 del 2017).

9.3.- La differenza evidenziata nell’ordinanza interlocutoria tra la disciplina propria dei «riti semplificati» e quella tuttora vigente (ex art. 2, comma 1, d.lgs. n. 150 del 2011) riguardante le controversie regolate dal rito del lavoro e disciplinate dal codice  di  procedura civile, cui     continua ad applicarsi  la tradizionale interpretazione dell’art. 426 c.p.c. (sulla «sanatoria dimidiata» ), è stata ritenuta non irragionevole dalla Corte costituzionale (cfr. sentenza n. 45 del 2018).

9.4.- Infine, non  è ravvisabile  il  paventato  disordine  nell’accesso alla tutela giurisdizionale, realizzandosi, al contrario, una coerente semplificazione  del   processo, in linea con  una più condivisibile interpretazione della legge processuale, il cui obiettivo è di garantire non la tenuta di un ordine normativo astrattamente inteso, ma un processo equo in termini di tutela del contraddittorio e del diritto di difesa e, prima ancora, di accesso al giudice.

10.- In conclusione, è formulato il seguente principio di diritto: nei procedimenti «semplificati» disciplinati  dal d.lgs. n. 150 del 2011, nel caso in cui l’atto introduttivo sia proposto con citazione, anziché con ricorso eventualmente previsto dalla legge, il procedimento – a norma dell’art. 4 del d. lgs. n. 150 del 2011 – è correttamente instaurato se la citazione sia notificata tempestivamente, producendo  essa  gli effetti sostanziali e processuali che le sono propri, ferme restando le decadenze e preclusioni maturate secondo il rito erroneamente prescelto dalla parte; tale sanatoria piena si realizza indipendentemente dalla pronuncia dell’ordinanza di mutamento del rito da parte del giudice, la quale opera solo pro futuro, ossia  ai fini del rito da seguire all’esito della conversione,  senza  penalizzanti effetti retroattivi, restando fermi quelli, sostanziali e processuali, riconducibili all’atto introduttivo, sulla scorta della forma da questo in concreto assunta e non a quella che esso avrebbe dovuto avere, dovendosi avere riguardo alla data di notifica  della  citazione effettuata quando la legge prescrive  il ricorso o, viceversa, alla  data di deposito del ricorso quando la legge prescrive l’atto di citazione (fattispecie in tema di riscossione di sanzione amministrativa pecuniaria per violazione del codice della strada, in cui l’opposizione cd. recuperatoria era stata proposta con citazione tempestivamente notificata nel termine di trenta giorni dalla notifica della cartella di pagamento, anziché con ricorso, come previsto dall’art. 7 del d.lgs. n. 150 del 2011).

10.1.- Di conseguenza, l’azione promossa da G.I., con atto di citazione tempestivamente notificato nel termine di  trenta giorni dalla notifica della cartella opposta, è proponibile.

11.- Il motivo di ricorso  di  Gamma  Indirizzi  (sub  1)  pone  due distinte  questioni:  una  attiene  alla  necessità,  nel  procedimento davanti al giudice di pace, di presentare  anche la nota d’iscrizione  a ruolo ai  fini  della  valida  costituzione  in  giudizio  della  parte interessata; l’altra concerne  la  possibilità,  per  il  convenuto,  di costituirsi prima dell’attore e in pendenza del termine concesso a quest’ultimo per provvedere alla propria costituzione.

11.1.- La norma di riferimento per la «costituzione  delle parti» nel «procedimento   davanti   al   giudice   di   pace»   (regolato   nel   Libro Secondo-Titolo II del codice di rito)  è  l’art.  319  c.p.c.,  il  quale stabilisce che «Le parti si costituiscono depositando in cancelleria la citazione o il processo  verbale di cui all’articolo  316 con la relazione della notificazione e, quando  occorre,  la procura, oppure presentando tali documenti al giudice in udienza».

La citata  disposizione  non  contempla  –  a  differenza  dell’art.  168 c.p.c. (inserito nel Libro Secondo-Titolo I, «Del procedimento davanti al tribunale») – la nota d’iscrizione a ruolo e nemmeno nelle disposizioni di attuazione del codice di procedura civile, nel Titolo III­ Capo I («Del procedimento davanti al giudice di pace»), vi  è menzione della nota d’iscrizione a ruolo, che è invece oggetto delle disposizioni relative al «procedimento davanti al tribunale», nel Titolo III-Capo II, agli artt. 71 («Nota d’iscrizione a ruolo») e 72 («Deposito del fascicolo di parte e iscrizione a ruolo»).

E’ stato rilevato che «mentre nel giudizio dinanzi al tribunale il cancelliere iscrive la causa a ruolo, su presentazione della nota d’iscrizione, all’atto della costituzione dell’attore o, se questi non si è costituito, all’atto  della  costituzione  del  convenuto  (art.  168  c.p.c.), per il giudizio dinanzi al giudice di pace  vige una  diversa  normativa» (cfr. Cass., sez. I, n. 25727 del 2008), ove, tra l’altro,  manca  la previsione di un termine  per  la  costituzione  in  giudizio  decorrente dalla notificazione dell’atto introduttivo (che è invece previsto dall’art. 165 c.p.c.).

Per stabilire se, ai fini  della  regolare  costituzione  delle  parti  (e quindi anche del convenuto, in un momento antecedente  alla costituzione dell’attore), sia  necessaria  la  presentazione  alla cancelleria  della nota d’iscrizione a ruolo, non è sufficiente constatare che anche il procedimento davanti al giudice di pace per essere incardinato deve essere iscritto a  ruolo, poiché  non è  detto che a  tal fine la parte interessata sia tenuta a presentare una specifica «nota di iscrizione a ruolo».

La  questione  concernente  l’applicabilità  degli artt.  168 c.p.c., 71 e 72 disp. att. c.p.c. davanti al giudice  di pace deve  essere risolta  alla luce dell’art. 311 c.p.c.,  che  stabilisce  che  le  disposizioni  regolatrici del procedimento davanti al tribunale in composizione monocratica trovano applicazione anche nel  procedimento  innanzi  al  giudice  di pace «per tutto ciò che non è regolato nel presente titolo o in altre espresse disposizioni» e «in quanto applicabili» e cioè «compatibili».

11.2.- Il Collegio ritiene che per la costituzione delle parti nel procedimento davanti al giudice di pace non sia necessaria la presentazione di una nota di iscrizione a ruolo, la quale non risulta compatibile con il suddetto procedimento.

Alcuni precedenti giurisprudenziali, nel senso dell’applicabilità degli artt. 168 c.p.c., 71, 72 disp. att. c.p.c. anche al giudizio davanti al giudice di pace, sembrano richiedere la presentazione di una «nota di iscrizione a ruolo», ma spesso nell’ambito di decisioni che affrontano la diversa questione concernente la facoltà del convenuto di iscrivere a ruolo la causa prima dell’attore in forza dell’art. 168, comma  1, c.p.c., a condizione che la controversia non sia già stata precedentemente iscritta dall’attore stesso (cfr. Cass., sez. III, n. 24974 del 2020; sez. I, n. del 21349 del 2004; sez. III, n.19775 del 2003; sez. III, n. 4376 del 2003). In tali precedenti la  Corte si è limitata  a  ritenere  applicabile  al procedimento  davanti  al  giudice  di pace l’inciso «se questi [l’attore] non si è costituito» (ex art. 168, comma 1, c.p.c.), al fine di consentire al cancelliere di procedere all’iscrizione della causa nel  ruolo  generale  per  iniziativa  del convenuto, senza tuttavia stabilire  in  via  di  principio  l’indefettibilità della presentazione di una autonoma  nota ad  hoc  per  la  iscrizione della causa.

Alcune  decisioni espressamente  lasciano «in disparte  la questione sul se una nota di iscrizione a ruolo sia prevista nel procedimento avanti al giudice di pace, come non lo era avanti al conciliatore ed al pretore» (cfr. Cass., sez. III, n.15123 e 15125 del 2007).

L’assenza di riferimenti alla nota di iscrizione nella disciplina codicistica del procedimento davanti al giudice di pace conferma che la parte non è onerata del deposito di un atto avente le caratteristiche dell’art. 71 disp. att. c.p.c., ai fini della valida costituzione e della iscrizione della causa nel ruolo generale dell’ufficio.

Nel procedimento davanti al giudice di pace, ove vige il principio della «massima libertà delle forme» (ex plurimis, Cass., sez. III, n. 7238 del 2006; sez. II, n. 12476 del 2004; sez. III, n.11946 e 16939 del 2003), non sarebbe coerente pretendere, in  assenza  di  una specifica previsione normativa, una  formale  istanza  di  iscrizione  a ruolo della causa, a pena di inammissibilità della domanda o della costituzione in giudizio o di improcedibilità dello stesso.

L’art. 319 c.p.c. assume, in effetti, connotati  di specialità  rispetto all’art. 168 c.p.c.,  consentendo  persino  la  costituzione  durante l’udienza e innanzi al giudice, anziché mediante deposito degli atti in cancelleria.

A dimostrarlo, nel Titolo Ili-Capo I delle disposizioni di  attuazione c.p.c., è anche l’art. 56 disp.  att.  c.p.c.  («Dopo  il  deposito  in cancelleria dell’atto introduttivo del giudizio [ …]  o,  in  mancanza,  il giorno stesso dell’udienza fissata [ …], su presentazione da parte del cancelliere dell’atto, il capo dell’ufficio del giudice di pace designa il magistrato  che  viene  incaricato  dell’istruzione della  causa»),  secondo il quale la designazione del giudice  di pace incaricato  dell’istruzione della controversia avviene su presentazione da parte del cancelliere dell’atto introduttivo del giudizio ex art. 319 c.p.c. L’art.  36 disp.  att. c.p.c., inoltre, impone al cancelliere di «formare un fascicolo per ogni affare del proprio ufficio, anche quando la formazione di esso non è prevista espressamente dalla legge», attribuendo ad esso «la numerazione del ruolo generale sotto la quale è iscritto l’affare».

La prassi applicativa conferma la qui condivisa interpretazione delle fonti primarie rilevanti nella fattispecie: la circolare del Ministero della Giustizia del 2 agosto 2000, volta a standardizzare le modalità di iscrizione delle cause civili, contiene soltanto i fac-simile delle note da presentare ai tribunali e alle corti d’appello, senza prevedere alcun modello da impiegare negli uffici del giudice di pace.

Questa soluzione non è incompatibile con la disposizione tributaria di cui all’art. 9 del dPR 30 maggio 2002, n.  115,  il  quale  –  nel prevedere il pagamento del «contributo unificato di iscrizione a ruolo» (art. 9), onerandone «la parte che per prima  si costituisce  in giudizio, che deposita il ricorso introduttivo […]» (art. 14) – non individua il presupposto d’imposta nella presentazione di un atto avente le caratteristiche della nota ex art. 71 disp. att. c.p.c.

A tale riguardo, si è affermato  che  le norme  del dPR n. 115 del 2002, relative al «costo» del processo, impongono il pagamento del contributo unificato alla  parte che per prima  si costituisce  in giudizio (art. 14), così limitandosi a confermare che l’iscrizione deve avvenire all’atto della costituzione (cfr. Cass., sez. III, n.15123 del 2007).

La prima questione posta nel motivo in esame (sub 11) è risolta nel senso che, nel procedimento davanti al giudice di pace, per la costituzione della parte che vi provveda per prima non è necessaria la presentazione di una apposita nota di iscrizione a ruolo,  essendo compito del cancelliere provvedere agli adempimenti  di  sua competenza, anche se ancora non era scaduto il termine per la costituzione dell’opponente G.I..

11.3.- Alla seconda questione posta nel motivo (sub 11) dev’essere data risposta positiva. Il convenuto può costituirsi in giudizio in mancanza della costituzione dell’attore e prima che sia scaduto il termine per la costituzione dell’attore stesso, dovendo il cancelliere provvedere in tal caso all’iscrizione a ruolo della causa (cfr. Cass., sez. III, n.11328 del 2019; sez. III, n.15123 e 15125 del 2007). 

Pertanto, il Comune di Porto Viro – trasmettendo la comparsa di risposta dell’ll agosto 2014 e i relativi allegati – si è regolarmente e validamente costituito nel giudizio davanti al Giudice di Pace di Ravenna prima della costituzione dell’attore-opponente.

12.- In  conclusione,  il  motivo  è  infondato  e,  di  conseguenza,  il ricorso è rigettato.

13.- Le spese devono essere compensate, in considerazione della novità e complessità delle questioni trattate.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e compensa le spese.

Dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, ai sensi dell’art. 13, comma  1 quater, del dPR n. 115 del  2002,  nel  testo  introdotto  dall’art.  1, comma 17, della legge n.  228  del  2012,  di  un  ulteriore  importo  a titolo  di contributo  unificato,  in  misura  pari a  quello,  ove  dovuto,  per il ricorso, a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13.