Corte di Cassazione, sezione I, ordinanza n. 16607 depositata il 14 giugno 2024
cancellazione della società – istituto della remissione del debito
FATTI DI CAUSA
La Corte d’Appello di Bari, con sentenza n. 641/2020, depositata il 7.5.2020, ha accolto l’appello principale proposto da Unicredit s.p.a. avverso la sentenza del Tribunale di Trani, sez. distaccata di Andria, n. 173 del 3 febbraio 2015 che aveva condannato la Banca al pagamento, in favore della M. di M.G. & C. s.n.c. (d’ora in poi M. s.n.c.) della somma di € 74.092,05 a titolo di restituzione delle somme indebitamente ricevute per effetto dell’applicazione di interessi passivi in misura ultra legale in difetto di apposita pattuizione, della capitalizzazione trimestrale degli interessi, dell’addebito di commissioni di massimo scoperto, etc.
La Corte d’appello ha accolto il primo motivo dell’appello principale (con assorbimento dei restanti) ritenendo che l’intervenuta cancellazione volontaria, ad opera del liquidatore, dal registro delle imprese della società correntista M. s.n.c., prima che il credito vantato in giudizio fosse accertato – e senza che il credito sub judice fosse incluso nel bilancio finale di liquidazione – costituiva espressione della volontà di rinuncia tacita al diritto litigioso. Pertanto, ad avviso del giudice d’appello, la rinuncia in corso di causa alla pretesa creditoria aveva comportato la cessazione della materia del contendere, essendosi verificato un fatto sopravvenuto che aveva eliminato ogni contrasto tra le parti.
Avverso la predetta sentenza ha proposto ricorso per cassazione M.G., ex socio della società estinta e, come tale, successore della medesima.
Unicredit s.p.a. ha resistito in giudizio con controricorso ed ha depositato, altresì, la memoria ex art. 380 bis.1 c.p.c..
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. Con il primo motivo è stata dedotta la violazione dell’art. 360 n. 4 cod. proc. civ. per vizio di costituzione del giudice ex art. 158 cod. proc. civ. sul rilievo che la decisone è stata adottata da un collegio composto, oltre che da due togati, da un consigliere ausiliario.
2. Il motivo è infondato.
Questa Corte (vedi cfr. n. 32065 del 05/11/2021; vedi anche Cass. 15045/2021), a seguito della sentenza della Corte Costituzionale n. 41/2021, ha già enunciato il principio di diritto, secondo cui, “A seguito della sentenza della Corte Cost. n. 41 del 2021, che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale di quelle disposizioni, contenute nel d.l. n. 69 del 2013 (conv. con modif. nella l. n. 98 del 2013), che conferiscono al giudice ausiliario di appello lo “status” di componente dei collegi nelle sezioni delle corti di appello, queste ultime potranno legittimamente continuare ad avvalersi dei giudici ausiliari, fino a quando, entro la data del 31/10/2025, si perverrà ad una riforma complessiva della magistratura onoraria; fino a quel momento, infatti, la temporanea tollerabilità costituzionale dell’attuale assetto è volta ad evitare l’annullamento delle decisioni pronunciate con la partecipazione dei giudici ausiliari e a non privare immediatamente le corti di appello dei giudici onorari al fine di ridurre l’arretrato nelle cause civili”.
3. Con il secondo motivo è stata dedotta la violazione dell’art. 360 comma 1° nn. 3 e 4 cpc in relazione agli artt. 112, 113, 342 e 345 c.p.c., per avere la Corte d’Appello omesso di esaminare l’eccezione di inammissibilità della nuova eccezione (riguardante la cancellazione della società correntista dal registro delle imprese) sollevata dalla banca per la prima volta con l’atto di citazione in appello.
4. Con il terzo motivo è stata dedotta la violazione dell’art. 360 comma 1° nn. 3 e 4 cpc in relazione agli artt. 112 e 345 c.p.c., per non avere la Corte d’Appello rilevato d’ufficio l’invocata violazione dell’art. 345 c.p.c..
5. Con il quarto motivo è stata dedotta la violazione dell’art. 360 comma 1° nn. 3 e 4 cpc in relazione agli artt. 111 Cost, 132 n. 4 c.p.c., 112 e 345 c.p.c. perché, anche ammettendo che la Corte d’Appello avesse implicitamente rigettato l’eccezione di inammissibilità dallo stesso sollevata, non aveva comunque dedicato alcuna parola all’ipotetico rigetto, e comunque era incorsa nella violazione dell’art. 345 c.p.c..
6. Con il quinto motivo è stata dedotta la violazione dell’art. 360 comma 1° nn. 3 e 4 cpc in relazione agli artt. 90, 100 e 112 c.p.c. per avere la Corte d’appello, dopo aver ritenuto che la cancellazione della società correntista dal registro delle imprese avesse comportato una rinuncia al credito, illegittimamente dichiarato la cessazione della materia del contendere, non essendovi alcun accordo tra le parti sul significato giuridico e portata della cancellazione della M. s.n.c. dal registro delle
7. Con il sesto motivo è stata dedotta la violazione degli artt. 2308, 2312 e 2495 cod. civ. e 110 c.p.c. per avere la Corte d’Appello erroneamente ritenuto che la cancellazione della società correntista dal registro delle imprese denotasse la volontà della stessa di rinunciare al credito azionato nei confronti della banca.
8. Deve esaminarsi per primo il sesto motivo in virtù del principio della ragion più liquida ed è fondato.
La Corte d’Appello ha ritenuto che, alla stregua dei principi enunciati dalle Sezioni Unite nella sentenza n. 6070/2013, dovrebbe presumersi che la società correntista, con la cancellazione dal registro delle Imprese, abbia inteso rinunciare al credito vantato nei confronti della banca, con conseguente intrasmissibilità del medesimo ai soci.
Questo Collegio non condivide una tale impostazione giuridica.
Va osservato che questa Corte, nella sentenza n. 9464/2020 (conf. Cass. n. 28439/2020), proprio in un’analoga fattispecie in cui era stata proposta una domanda di ripetizione di indebito bancario, ha enunciato il principio – cui questo Collegio intende dare continuità – secondo cui l’estinzione di una società conseguente alla sua cancellazione dal registro delle imprese, ove intervenuta nella pendenza di un giudizio dalla stessa originariamente intrapreso, non determina anche l’estinzione della pretesa azionata, salvo che il creditore abbia manifestato, anche attraverso un comportamento concludente, la volontà di rimettere il debito comunicandola al debitore e sempre che quest’ultimo non abbia dichiarato, in un congruo termine, di non volerne profittare.
La predetta pronuncia, nel suo articolato (e pienamente condivisibile) percorso argomentativo, dopo essersi diffusamente soffermata sull’istituto della remissione di debito, a norma dell’art. 1236 cod. civ., evidenziandone i caratteri della univocità e concludenza, da valutare con particolare rigore e cautela, ha osservato che tali requisiti devono essere riscontrati nel comportamento della società nel momento in cui essa si cancella dal registro delle imprese, e ciò al fine di individuarvi anche la rinuncia in ordine ai diritti di credito ancora non esatti o non liquidati, con la conseguenza che, ove difettino indici univoci sulla volontà remissoria, deve essere esclusa la volontà di remissione del debito.
Né ad una diversa conclusione si può pervenire per effetto delle decisioni delle Sezioni unite (Cass. nn. 6070-6072 del 2013), le quali avevano, piuttosto, evidenziato che la remissione del debito per effetto della cancellazione della società dal registro delle imprese fosse una delle varie evenienze solo “possibili”. Pertanto, in presenza di una domanda della cancellazione della società dal registro delle imprese, non è sufficiente – pena il ritenere ingiustificatamente sempre estinto il credito in tali evenienze, sulla base di una presunzione assoluta priva dei caratteri ex art. 2729 c.c. – che la cancellazione sia domandata ed eseguita.
La predetta sentenza n. 9464/2020 ha, infine, evidenziato che “..All’opposto, la mancata dichiarazione del difensore, ai sensi dell’art. 300 c.p.c. ai fini della interruzione del processo e la prosecuzione del medesimo, pur dopo l’avvenuta cancellazione della società costituisce un elemento in senso contrario rispetto ad un’ipotizzata volontà abdicativa: essendo ragionevolmente presumibile, piuttosto, in generale che il difensore, mandatario della società, avesse in tal senso concordato con la stessa la linea difensiva da tenere, anche nell’interesse dei soci, il cui sostrato personale riemerge proprio nel momento della cancellazione del soggetto collettivo. Il relativo accertamento, concretandosi in un giudizio di fatto, sfugge al sindacato di legittimità; ma costituisce giudizio di diritto escludere che la mera cancellazione dal registro delle imprese possa, di per sé sola, per la sua invincibile equivocità, reputarsi sufficiente a dedurne una volontà abdicativa”.
Orbene, anche questo Collegio è concorde nell’escludere che la mera cancellazione di una società dal registro delle imprese possa, di per sé sola, per la sua evidente equivocità, reputarsi sufficiente a dedurne la remissione del credito fatto valere in giudizio, la quale deve essere, invece, allegata e provata con rigore da chi intenda farla valere, dimostrando tutti i presupposti della fattispecie, ossia la inequivoca volontà remissoria e la destinazione dichiarazione ad uno specifico creditore (Cass. n. 30075/2020).
Ne consegue che, in difetto di altri indici univoci sulla volontà remissoria – nel caso di specie, non accertati dalla sentenza impugnata, né comunque evidenziati dalla banca ricorrente – può ragionevolmente ritenersi che sia avvenuta, per effetto della cancellazione della società dal registro delle imprese, un trasferimento dei diritti di quest’ultima ai soci.
9. Il settimo motivo – con cui è stata dedotta la violazione e/o falsa applicazione degli artt. 95, 336 e 345 c.p.c. – così come i primi cinque, sono assorbiti.
La sentenza impugnata deve essere quindi cassata con rinvio alla Corte d’Appello di Bari, in diversa composizione, per nuovo esame e per statuire sulle spese del giudizio di legittimità.
P.Q.M.
Accoglie il sesto motivo, assorbiti gli altri, cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Corte d’Appello di Bari, in diversa composizione, per nuovo esame e per statuire sulle spese del giudizio di legittimità.