Corte di Cassazione, sezione I, sentenza n. 23557 depositata il 3 settembre 2024

Spa “chiuse” computo delle azioni proprie

FATTI DI CAUSA

1. ― La Corte di appello di Milano ha pronunciato sentenza, pubblicata il 22 agosto 2018 riportata in epigrafe, nel contraddittorio tra S.S. e C. s.a.p.a., P.S., D.M., R.C., G.P., S.C. S.p.a. e Sx S., da un lato, e F.S. e S.P. s.r.l., dall’altro. La pronuncia aveva ad oggetto l’impugnazione della deliberazione assembleare del 2 maggio 2012 di S.C. s.p.a.: delibera con cui era stata disposta l’assegnazione gratuita, in favore dei soci, proporzionalmente alle rispettive partecipazioni, delle azioni in proprietà della società in questione. La Corte di merito ha respinto il gravame principale e quello incidentale confermando la sentenza di primo grado, resa dal Tribunale di Milano. Con quest’ultima decisione la deliberazione sopra richiamata era stata annullata in quanto il presidente dell’assemblea di S.C., pur conformandosi all’ordine, impartitogli in sede cautelare dallo stesso Tribunale, di prendere in considerazione le azioni proprie ai fini del computo della maggioranza deliberativa necessaria, aveva escluso dal conteggio i voti espressi dai soci di minoranza in ragione dell’asserito conflitto di interessi di cui gli stessi sarebbero stati portatori; il detto conflitto era stato escluso dal Giudice di prime cure, il quale aveva rilevato che nel caso di specie aveva trovato piuttosto espressione una fisiologica dialettica tra soci di maggioranza e soci di minoranza. Il Tribunale aveva poi pronunciato condanna generica al risarcimento del danno nei confronti di Sx S., quale presidente dell’assemblea in cui era stata assunta la delibera impugnata e degli amministratori di S.C., in favore dei soci di minoranza F.S. e S.P. s.r.l..

2. ― In grande sintesi, il Giudice del gravame ha ritenuto che le azioni proprie andassero computate nel quorum deliberativo; ha quindi negato che tra i poteri del presidente dell’assemblea rientri anche quello di escludere dal computo del quorum suddetto il voto di soci in conflitto di interessi ed escluso, comunque, che tale conflitto nella fattispecie sussistesse, posto che il voto contrario espresso dai soci di minoranza trovava giustificazione nella progettata distribuzione gratuita delle azioni, che avrebbe reso la maggioranza, già detentrice del 47,12% del capitale sociale, padrona assoluta della società; ha riconosciuto la responsabilità risarcitoria di tutti gli amministratori della società: questi non avevano infatti contrastato l’operato del presidente dell’assemblea e avevano dato poi esecuzione alla delibera approvata, prendendo parte al consiglio di amministrazione in cui aveva avuto luogo l’annullamento dei certificati azionari corrispondenti alle azioni proprie e in cui si era disposto di modificare il libro dei soci in base alle determinazioni adottate in sede assembleare.

3. ― Per la cassazione di detta sentenza P.S., D.M., R.C., G.P. e S.C. s.p.a. si valgono di sei motivi di ricorso, ai quali resistono con controricorso e memoria F.S. e la Par. s.r.l.

Sono state depositate memorie.

Il Pubblico Ministero ha concluso per il rigetto del ricorso.

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. ― Il primo motivo denuncia la violazione e falsa applicazione dell’art. 2357-ter, comma 2, c.. La doglianza verte sull’interpretazione della norma sopra richiamata la quale, ad avviso dei ricorrenti, non avrebbe basi testuali, sarebbe incoerente con la logica del sistema, implicherebbe conseguenze applicative inaccettabili, risulterebbe in contrasto col diritto unionale e, segnatamente con gli artt. 63.1, lett. a), e 83 della dir. 2017/1132/UE; la disposizione, per come interpretata, sempre secondo i ricorrenti, andrebbe disapplicata previo eventuale rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia, e si porrebbe, infine, pure in contrasto con la Costituzione.

1.1 ― Il mezzo di censura ripropone una questione su cui questa Corte, con sentenza 23950 del 2 ottobre 2018, ha già avuto modo di esprimersi nell’ambito di un giudizio vertente tra alcune delle parti oggi in contesa (e cioè: S.C., F.S. e S.P. s.r.l.).

Il Collegio non ritiene di doversi discostare dal detto precedente e reputa privi di fondamento i dubbi espressi dagli istanti circa la compatibilità del percorso interpretativo da loro contestato col diritto unionale e con quello costituzionale.

1.2 ― Come è noto, l’art. 2357-ter c. prevede, al secondo comma, che il diritto di voto delle azioni proprie è sospeso, ma che dette azioni sono «computate ai fini del calcolo delle maggioranze e delle quote richieste per la costituzione e per le deliberazioni dell’assemblea»; opposta regola è operante per le società che fanno ricorso al mercato del capitale di rischio, in quanto per esse «il computo delle azioni proprie è disciplinato dall’art. 2368, terzo comma», e quindi dette azioni «non sono computate ai fini del calcolo della maggioranza e della quota di capitale richiesta per l’approvazione della deliberazione».

L’odierna versione del secondo comma dell’art. 2357-ter è frutto dell’intervento legislativo attuatosi col d.lgs. n. 224 del 2010, il quale ha fatto venir meno la previsione, contenuta nel vecchio testo della norma, secondo cui le azioni proprie dovevano essere «computate nel capitale ai fini del calcolo delle quote richieste per la costituzione e per le deliberazioni dell’assemblea». Quest’ultima formulazione della norma era stata sottoposta al vaglio di questa S.C. la quale aveva avuto modo di evidenziare come, in base al dato testuale, le azioni proprie della società andassero incluse nella base su cui calcolare i quorum costitutivi o deliberativi solo quando questi si configurassero quali «quote del capitale sociale»: era stato rimarcato, nell’occasione, che «il significato proprio del termine “capitale” è quello di capitale sociale ed è una evidente forzatura comprendere in esso anche il riferimento a parte soltanto di esso, quale quella rappresentata in assemblea» (Cass. 16 ottobre 2013, n. 23540, in motivazione).

1.3 ― La conformazione che ha assunto il secondo comma dell’art. 2357-ter, comma 2, a seguito della novella consente di affermare che, proprio muovendo dalla logica che informava la richiamata pronuncia, deve oggi pervenirsi a conclusioni opposte rispetto a quelle cui giunse la medesima. Infatti, nell’odierna versione della disposizione è venuto meno il riferimento al capitale e, come si è visto, le azioni proprie sono computate ai fini del calcolo delle maggioranze e delle quote richieste per la costituzione e per le deliberazioni dell’assemblea, onde esse entrano nel conteggio di tutti i quorum costitutivi e deliberativi: anche quelli che dipendono dal capitale presente in assemblea (come è previsto per le delibera dell’assemblea ordinaria in seconda convocazione). Che il termine maggioranza possa essere riferito, come sostenuto dai ricorrenti, tanto al capitale intervenuto in assemblea quanto all’intero capitale sociale è da escludere, visto che una tale lettura è contrastante col dato letterale, specie se letto in una chiave diacronica, avendo riguardo al diverso tenore delle due versioni della medesima norma, e finisce per postulare l’obiettiva inutilità, e quindi la sostanziale irragionevolezza dell’intervento legislativo del 2010.

Secondo quanto puntualmente osservato da questa Corte nella decisione del 2018, «[i]l dettato normativo vigente è nel senso che, nelle società per azioni che non ricorrono al mercato del capitale di rischio, le azioni proprie debbano essere sempre conteggiate nel calcolo non dei soli quorum assembleari costitutivi, ma anche di quelli deliberativi: la nuova disposizione, invero, non lega affatto il calcolo alla diversa circostanza se la base per il medesimo sia il capitale sociale oppure quello rappresentato in assemblea, imponendo di calcolare in ogni caso le azioni proprie» (Cass. 2 ottobre 2018, n. 23950 cit., in motivazione).

Proprio la distinzione tra la vecchia e la nuova formulazione della norma marca, dunque, in un’accezione di discontinuità, l’intentio legis di fissare un criterio di computo delle azioni svincolato dal capitale sociale assunto nella sua interezza. Un tale approdo interpretativo trova poi conferma nella relazione di accompagnamento al d.lgs. n. 224 del 2010: in detta relazione ― che, come tutti i contributi riconducibili ai lavori parlamentari, assume valore sia pur sussidiario nell’interpretazione della legge (Cass. 21 maggio 1988, n. 3550; Cass. 7 aprile 1983, n. 2454) ― è difatti illustrato che nelle società «chiuse» (quelle che, cioè, non ricorrono al mercato del capitale di rischio) la nuova disposizione tiene conto dell’assenza di limiti all’acquisto delle proprie azioni, le quali, a fronte dell’esborso gravante sull’intera compagine sociale, «sono sempre computate ai fini del calcolo anche quando la legge non assume il capitale sociale a denominatore per il calcolo dei quorum assembleari».

La volontà espressa dal legislatore trova ragione nell’esigenza, ben evidenziata da Cass. 2 ottobre 2018, n. 23950 cit., di impedire, nelle società «chiuse», che le azioni proprie modifichino i rispettivi poteri dei soci e, più in generale, che risulti alterata la c.d. funzione organizzativa del capitale sociale: la prospettiva funzionale associata alla norma vigente è dunque rovesciata rispetto a quella che poteva accostarsi alla precedente versione del testo legislativo, ove era dominante il fine di evitare situazioni di stallo, per l’impossibilità di formare una maggioranza, rispetto a decisioni dalle quali dipendesse la stessa sopravvivenza della società (Cass. 16 ottobre 2013, n. 23540 cit., in motivazione).

Il differente impatto delle due prescrizioni nella fattispecie per cui è causa è, del resto, del tutto evidente (sul punto cfr. pure pagg. 15 ss. della sentenza impugnata): in una situazione in cui il gruppo di maggioranza detiene il 47% del capitale sociale, quello di minoranza il 43% e le azioni proprie rappresentano il 10% del detto capitale, la base di calcolo, secondo la regola posta dalla norma oggi in vigore, è sempre rappresentata dalla totalità del capitale, con la conseguenza che gli azionisti di maggioranza non possono mai raggiungere (in prima, come in seconda convocazione dell’assemblea ordinaria) il quorum deliberativo; in base alla prescrizione che imponeva di considerare le azioni proprie solo per i quorum che si configurino come quote del capitale sociale ― onde la maggioranza assoluta per deliberare doveva essere calcolata sul solo ammontare delle azioni rappresentate dai soci partecipanti all’assemblea, senza tener conto delle azioni proprie di cui fosse titolare la società ―, i soci detentori del 47% delle azioni sociali potevano imporre le loro decisioni alla minoranza nelle assemblee ordinarie in seconda convocazione, in cui il quorum si riduceva al 90%. La prima soluzione premia l’esigenza di evitare che l’acquisto di azioni proprie possa alterare il peso delle partecipazioni azionarie all’interno dell’assemblea a vantaggio del gruppo di maggioranza; la seconda valorizza l’interesse a che la formazione della volontà assembleare non sia penalizzata e sfoci nella sostanziale e perdurante inattività dell’organo deliberativo.

1.4 ― Oppone la parte ricorrente che accogliendo la soluzione dalla stessa avversata si conferisce ai soci di minoranza un peso maggiore rispetto a quello che avrebbero se le azioni proprie fossero distribuite proporzionalmente tra tutti i soci: è vero, però, che il mancato computo delle azioni proprie può consentire al socio di maggioranza relativa, in situazioni particolari, quale quella in esame, una prevalenza nei processi deliberativi, convertendo, di fatto, quella maggioranza relativa in una maggioranza assoluta; si deve quindi semplicemente prendere atto che il legislatore, facendo uso della propria discrezionalità, difronte a più soluzioni astrattamente ipotizzabili, ha inteso optare per il criterio che più si mostrava capace di preservare, in seno all’assemblea, gli equilibri preesistenti all’acquisto delle azioni proprie da parte della società. Tale discrezionalità, merita aggiungere, è stata spesa differenziando le società «chiuse» da quelle «aperte» ed escludendo per queste ultime che le azioni proprie fossero incluse nel quorum deliberativo: ciò al fine evidente di consentire che in queste ultime, in cui l’azionariato è diffuso, la maggioranza si formasse in modo più agevole.

1.5 ― Non può nemmeno sostenersi che la scelta del legislatore italiano sia contrastante col principio di pari trattamento degli azionisti che si trovano in condizioni identiche, di cui all’art. 85 dir. 2017/1132/UE, e già contenuta nell’art. 19.1 dir. 77/91/CEE, come sostituito dalla dir. 2006/68/CE e nell’art. 21.1 della dir. 2012/30/UE. Il diritto unionale si limita a prevedere che il voto delle azioni proprie è sospeso [art. 63.1 dir. 2017/1132/UE; in precedenza: art. 22.1, lett. a), 77/91/CEE e art. 24.1 dir. 2012/30/UE], senza nulla prescrivere quanto al modo con cui le stesse debbano essere calcolate nella formazione dei quorum assembleari. In linea di principio, sia la soluzione che include le azioni proprie nel quorum deliberativo che quella che le esclude da tale quorum soddisfano il principio di pari trattamento, in quanto riservano a tutti gli azionisti aventi diritto al voto la possibilità di concorrere alla deliberazione nelle medesime condizioni (quelle in cui, invariabilmente, e a seconda dei casi, tutte le azioni proprie sono conteggiate, o tutte le azioni proprie non sono conteggiate, ai fini del calcolo del quorum in questione, senza discriminazione ai danni dei diversi azionisti). Altra cosa è dibattere delle conseguenze che in concreto possano determinarsi seguendo l’una o l’altra soluzione: profilo, questo, che esula, in sé, dal tema della parità di trattamento, il quale implica la semplice necessità che siano evitate soluzioni discriminatorie tra gli azionisti aventi i medesimi diritti (e tali sono gli azionisti di S.C. s.p.a. in quanto tali, a nulla rilevando che alcuni di essi vadano poi a comporre una maggioranza a altri una minoranza); peraltro, proprio affrontando la questione dall’angolo prospettico descritto dagli effetti, deve darsi atto di come l’opzione espressa dal legislatore italiano, escludendo che le azioni proprie alterino il peso delle partecipazioni sociali tra maggioranza e minoranza in seno all’assemblea (e precludendo, in sintesi, il delinearsi di maggioranze deliberative prima inesistenti), rifletta effettivamente una «regola di approssimazione ad un principio di neutralità astratta» (così, in motivazione la cit. Cass. 2 ottobre 2018, n. 23950) che appare pienamente in linea con gli obiettivi del legislatore unionale. Deve conseguentemente escludersi la necessità del rinvio pregiudiziale invocato da ricorrenti, ravvisandosi un’ipotesi in cui la corretta applicazione del diritto eurounitario, si impone con evidenza tale da non lasciar adito a ragionevoli dubbi: e ciò tenendo conto delle caratteristiche proprie del diritto dell’Unione, delle difficoltà particolari relative alla sua interpretazione e del rischio di divergenze giurisprudenziali in seno all’Unione (Corte giust. UE 25 gennaio 2024, C‑389/22, Croce Rossa Italiana; Corte giust. UE 27 aprile 2023, C- 482/22, Associazione Raggio Verde; in tal senso già Corte giust. CEE 6 ottobre 1982, C-283/81, CILFIT e Lanificio di Gavardo).

1.6 ― Parte ricorrente ha sollevato, poi, una duplice questione di costituzionalità.

La prima è basata sul rilievo per cui le modifiche introdotte dal d.lgs. n. 224/2010 sarebbero viziate da eccesso di delega. Si osserva che in nessuna delle disposizioni europee e nazionali da cui si traggono i principi e i criteri direttivi della delega si fa cenno al tema del computo delle azioni proprie ai fini della formazione delle maggioranze assembleari: in conseguenza, si sarebbero dovute apportare solo le modifiche al testo legislativo in vigore corrispondenti alle modifiche introdotte dalla direttiva, mentre il decreto legislativo correttivo sopra indicato e andato ad incidere direttamente su una disposizione del codice civile (l’art. 2476-ter c.p.c.) non collegata agli oggetti specifici delle modifiche apportate dalla direttiva del 2006 alla precedente direttiva del 1976.

Il dubbio di legittimità costituzionale è manifestamente infondato. Bisogna anzitutto considerare, su di un piano generale, che i principi e criteri direttivi della legge di delega tracciano gli obiettivi ed esprimono le linee di fondo delle scelte del legislatore delegante e che ampi sono il potere e l’attività di «riempimento» normativo conferiti al legislatore delegato, per cui la previsione di cui all’art. 76 Cost. non osta all’emanazione, da parte del legislatore delegato, di norme che rappresentino un coerente sviluppo e un completamento delle scelte espresse dal legislatore delegante, dovendosi escludere che la funzione del primo sia limitata ad una mera scansione linguistica di previsioni stabilite dal secondo (Corte cost. sent. n. 22 del 2024; cfr. pure: Corte cost. sent. n. 166 del 2023; Corte cost. sent. n. 212 del 2018).

Ora, l’art. 2, comma 1, lett. e), della legge di delega (l. n. 34 del 2008) ha previsto, tra i princìpi e criteri direttivi generali che il legislatore delegato avrebbe dovuto osservare, che all’attuazione di direttive che modificano precedenti direttive già attuate con legge o con decreto legislativo si procedesse «se la modificazione non comporta ampliamento della materia regolata, apportando le corrispondenti modificazioni alla legge o al decreto legislativo di attuazione della direttiva modificata». Secondo quanto correttamente evidenziato dai controricorrenti, l’«ampliamento della materia regolata» nel caso in esame era dato dalla facoltà, accordata al legislatore nazionale, di eliminare il limite previsto dal vecchio testo dell’art. 19.1, lett. b), dir. 77/91/CEE (che aveva trovato attuazione nella superata versione dell’art. 2357, comma 3, c.c.): facoltà che trovava ragione nella disciplina introdotta, sul punto, dalla dir. 2006/68/CE.

È evidente, allora, che l’intervento attuatosi sull’art. 2357-ter per effetto del d.lgs. n. 224/2010 valesse ad adattare lo statuto normativo delle società «chiuse» in tema di azioni proprie alla nuova disciplina segnata dall’assenza di limiti quanto all’acquisto delle predette partecipazioni. E la soluzione seguita dal legislatore italiano con la norma delegata risponde all’esigenza di dare un nuovo assetto regolatorio alla materia, dal momento che, come è stato sottolineato da questa Corte (Cass. 2 ottobre 2018, n. 23950, cit., in motivazione), in assenza del limite al possesso delle azioni proprie nelle società «chiuse» ― a differenza che nelle società «aperte», per cui vige la regola opposta ― il principio del computo ai fini delle maggioranze deliberative diminuisce il rischio di concentrazione surrettizia del potere di voto in capo al gruppo di comando. Deve ritenersi, in conseguenza, che l’attività di «riempimento» normativo spettante al legislatore delegato comprendesse quello di definire un nuovo assetto della materia in cui la previsione del limite all’acquisto di azione proprie, non più necessitato dalla prescrizione comunitaria, era mancante.

1.7 ― La    seconda    questione    è    incentrata sull’asserita irragionevolezza della soluzione legislativa, che avrebbe mutato gli equilibri tra i soci di maggioranza e quelli di minoranza «incidendo sulle modalità deliberative vigenti all’epoca in cui vennero acquistate le azioni proprie». Viene dedotto che, in base all’interpretazione della norma che è contestata, la minoranza, in forza di una norma sopravvenuta all’acquisto delle azioni proprie da parte della società, assumerebbe le fattezze di una minoranza di «blocco», tale da impedire i processi deliberativi, e ciò in contrasto coi principi di affidamento e di irretroattività    della legge: risulterebbero  conseguentemente compromessi il diritto di proprietà azionaria e gli interessi degli Il dubbio di legittimità costituzionale è manifestamente infondato. Infatti, la nuova disciplina non è affatto retroattiva: essa regola, per il tempo successivo alla sua entrata in vigore, i processi deliberativi delle assemblee delle società con azioni proprie. La retroattività o irretroattività della norma deve misurarsi col portato precettivo di questa, non con la situazione di fatto che ne costituisce il presupposto. Come questa Corte ha avuto modo di precisare da tempo, infatti, il principio dell’irretroattività della legge comporta che la legge nuova non possa essere applicata, oltre che ai rapporti giuridici esauriti prima della sua entrata in vigore, a quelli sorti anteriormente ed ancora in vita, se in tal modo si disconoscano gli effetti già verificatisi del fatto passato o si venga a togliere efficacia, in tutto o in parte, alle conseguenze attuali e future di esso: lo stesso principio comporta, invece, che la legge nuova possa essere applicata ai fatti, agli status e alle situazioni esistenti o venute in essere alla data della sua entrata in vigore alla data della sua entrata in vigore, ancorché conseguenti ad un fatto passato, quando essi, ai fini della disciplina disposta dalla nuova legge, debbano essere presi in considerazione in se stessi, prescindendosi completamente dal collegamento con il fatto che li ha generati, in modo che resti escluso che, attraverso tale applicazione, sia modificata la disciplina giuridica del fatto generatore (Cass. Sez. U. 12 dicembre 1967, n. 2926; Cass. 2 agosto 2016, n. 16039; Cass. 3 luglio 2013, n. 16620). Ne discende che non è pertinente, a proposito della fattispecie in esame, quello scrutinio di costituzionalità che si impone a fronte di norme che dispongono per il passato: scrutinio che, secondo il Giudice delle leggi (per tutte: Corte cost. sent. n. 145 del 2022) è diretto ad accertare l’effettiva sussistenza di giustificazioni ragionevoli dell’intervento legislativo, per verificare se le ragioni poste alla base dell’intervento stesso, a carattere retroattivo, prevalgano rispetto ai valori, costituzionalmente tutelati (quali l’affidamento e la certezza dei diritti), potenzialmente lesi da tale efficacia a ritroso.

2. ― Col secondo motivo è lamentata la violazione o falsa applicazione degli artt. 2371 e 2373 c.c.. Si assume che, in base al disposto della prima delle norme testé richiamate, il presidente dell’assemblea, chiamato ad accertare i risultati delle votazioni, aveva il potere di espungere i voti invalidi perché espressi in situazione di conflitto di interessi.

Il terzo mezzo oppone la violazione degli artt. 1375 e 2373 c.c.. Si censura la sentenza impugnata nella parte in cui ha escluso il conflitto di interessi dei soci di minoranza reputando che gli stessi non fossero portatori di alcun interesse estraneo alla società e che nella fattispecie ricorreva una mera «contrapposizione di merito alla proposta distributiva delle azioni proprie della maggioranza».

2.1 ― Sul punto del conflitto di interessi la Corte di appello ha adottato una doppia ratio decidendi. Dopo aver rilevato essere «fortemente dubbio» che il presidente dell’assemblea degli azionisti possa, sia pure dopo che i voti per la proposta di delibera sono stati espressi dai soci, dichiarare l’invalidità dei voti espressi in conflitto di interessi, ha escluso che gli azionisti della minoranza versassero in quest’ultima situazione, visto che i medesimi non erano portatori di alcun interesse estraneo alla società, venendo in questione, nella fattispecie, il loro contrapporsi alla proposta distributiva delle azioni proprie che veniva dalla maggioranza.

La seconda ratio resiste a censura. Infatti, la Corte di merito risulta essersi conformata al principio per cui, in tema di annullamento per conflitto di interessi, ai sensi dell’art. 2373 c.c., della delibera assembleare, il vizio ricorre quando essa è diretta al soddisfacimento di interessi extrasociali, in danno della società (Cass. 3 dicembre 2008, n. 28748): si ha, cioè, conflitto di interessi rilevante quando vi è, di fatto, un conflitto tra un interesse non sociale e uno qualsiasi degli interessi che sono riconducibili al contratto di società (Cass. 12 dicembre 2005, n. 27387). Nel caso in esame, come si è visto, la Corte di appello ha ritenuto che l’interesse extrasociale non si configurasse: e tale giudizio, come è evidente, si sottrae al sindacato di legittimità.

Il terzo motivo è dunque infondato.

Il secondo è inammissibile.

Infatti, qualora la decisione di merito si fondi su di una pluralità di ragioni, tra loro distinte e autonome, singolarmente idonee a sorreggerla sul piano logico e giuridico, il mancato accoglimento delle censure mosse ad una delle rationes decidendi rende inammissibili, per sopravvenuto difetto di interesse, le censure relative alle altre ragioni esplicitamente fatte oggetto di doglianza, in quanto queste ultime non potrebbero comunque condurre, stante l’intervenuta definitività delle altre, alla cassazione della decisione stessa (Cass. 11 maggio 2018, n. 11493; Cass. 14 febbraio 2012, n. 2108).

3. ― Col quarto motivo è denunciata la violazione dell’art. 112 c.p.c.. Si deduce che la domanda di condanna generica proposta dagli odierni controricorrenti non sarebbe stata proposta nelle conclusioni del giudizio di primo grado: la Corte di appello, confermando la statuizione resa dal Tribunale di condanna al risarcimento del danno da liquidarsi in separato giudizio, sarebbe dunque incorsa in ultrapetizione.

3.1 ― Il motivo è inammissibile. 

La Corte di appello, nel pronunciarsi sulla detta domanda ha rilevato che essa era stata proposta in sede di precisazione delle conclusioni in primo grado, senza che le parti convenute si fossero tempestivamente opposte: per il che ha ritenuto la domanda ammissibile.

La censura è carente di autosufficienza, in quanto nel ricorso per cassazione non è riprodotto il contenuto delle dette conclusioni: i ricorrenti si limitano a dedurre che la domanda di condanna generica non emergerebbe dalla trascrizione delle conclusioni presente nella sentenza del Tribunale, ma tale rilievo non è conducente, dal momento che quel che conta è il reale contenuto delle rassegnate conclusioni. Ebbene, la deduzione di errores in procedendo implica che la parte ricorrente indichi gli elementi individuanti e caratterizzanti il «fatto processuale» (Cass. Sez. U. 25 luglio 2019, n. 20181): la deduzione con il ricorso per cassazione di errores in procedendo, in relazione ai quali la Corte è anche giudice del fatto, potendo accedere direttamente all’esame degli atti processuali del fascicolo di merito, non esclude, infatti, che preliminare ad ogni altro esame sia quello concernente l’ammissibilità del motivo in relazione ai termini in cui è stato esposto, con la conseguenza che, solo quando ne sia stata positivamente accertata l’ammissibilità diventa possibile valutare la fondatezza del motivo medesimo e, dunque, esclusivamente nell’ambito di quest’ultima valutazione, la Corte di cassazione può e deve procedere direttamente all’esame ed all’interpretazione degli atti processuali (così Cass. 13 marzo 2018, n. 6014; Cass. 20 luglio 2012, n. 12664).

4. ― Col quinto motivo si prospetta la violazione o falsa applicazione degli 2395 e 2377 c.c. Si imputa alla Corte di appello di aver ritenuto responsabili gli amministratori per non essersi opposti alla delibera assembleare impugnata, oltre che di aver trascurato di considerare che la condotta degli amministratori stessi, per essere fonte di responsabilità, deve essere dolosa o colposa; si deduce, inoltre, che i singoli amministratori non possono ritenersi responsabili per i danni subiti dal socio in conseguenza dell’omessa impugnazione della delibera, posto che la legittimazione a impugnare compete al consiglio di amministrazione.

4.1 ― Il motivo è inammissibile. 

La Corte di merito ha ritenuto che gli amministratori della società fossero responsabili non solo di non aver impedito l’emanazione di una delibera illegittima, ma anche di aver dato esecuzione alla stessa (cfr., in particolare, pagg. 23 e 28 della sentenza impugnata): ciò sul presupposto fattuale che la deliberazione stessa risultava essere «palesemente pretestuosa», essendo diretta ad aggirare l’ordinanza cautelare emessa dal Tribunale di Milano, e che la delibera stessa era stata sospesa, il giorno successivo, dal Tribunale di Milano con decreto inaudita altera parte (poi confermato, nel contraddittorio, con ordinanza del 25 giugno 2012).

Ora, i ricorrenti non contestano che l’esecuzione della delibera fosse fonte di responsabilità ex art. 2395 c.c.: rilevano, però, che tale conclusione in tanto si giustificherebbe in quanto tale condotta potesse qualificarsi dolosa o colposa. Il tema della negata colpevolezza del contegno degli amministratori veicola, peraltro, una questione di fatto non censurabile in questa sede; la Corte di appello ha chiaramente ritenuto che gli amministratori, per la loro posizione, fossero consapevoli dei provvedimenti assunti dal Tribunale: provvedimenti che, nella ricostruzione della sentenza impugnata, dovevano dunque ritenersi tali da suggerire di non dare esecuzione a una delibera che risultava essere non solo viziata ma, come si è detto, «palesemente pretestuosa». Dopodiché, occorre osservare che l’affermata responsabilità degli amministratori per aver dato esecuzione alla delibera in questione era tale da giustificare la pronuncia della condanna generica: per modo che l’ulteriore doglianza, astrattamente fondata, e vertente sulla mancata opposizione degli stessi alla determinazione assembleare, risulta carente di decisività. I ricorrenti hanno pure dedotto che i singoli amministratori non avevano la legittimazione a impugnare la delibera: ma la deduzione è priva di aderenza alla decisione impugnata, visto che la Corte di appello non enuncia un titolo di responsabilità degli amministratori dipendente dalla mancata impugnazione della delibera.

5. ― Col sesto mezzo si denuncia per cassazione la violazione dell’art. 278 c.p.c.. I ricorrenti si dolgono che la Corte di appello abbia «confermato la condanna generica in relazione alla condotta che non è astrattamente qualificabile come potenzialmente dannosa». Rilevano che l’esecuzione di una delibera assembleare dapprima sospesa e poi annullata rappresenterebbe una condotta priva di ogni potenzialità dannosa.

5.1 ― Il motivo è inammissibile. 

L’accertamento circa la potenziale idoneità del fatto a produrre conseguenze dannose o pregiudizievoli è una questione devoluta al giudice del merito, che sfugge al sindacato di legittimità.

6. ― In definitiva, il ricorso è respinto. 

7. ― Le spese di giudizio seguono la soccombenza.

P.Q.M.

La Corte

rigetta il ricorso; condanna parte ricorrente al pagamento, in favore della parte controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in euro 10.000,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in euro 200,00, ed agli accessori di legge; ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, inserito dall’art. 1, comma 17, della l. n. 228 del 2012, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello stabilito per il ricorso, se dovuto.