Corte di Cassazione, sezione II, ordinanza n. 29315 depositata il 13 novembre 2024
antiriciclaggio – operazioni sospette – sanzioni amministrative
FATTI DI CAUSA
1. Il Ministero dell’Economia e delle Finanze impugnava la sentenza del Tribunale di Roma che, in accoglimento dell’opposizione proposta da C.M., aveva annullato il decreto n° 400104/A del 23/9/2015 con cui il Ministero aveva irrogato all’opponente la sanzione amministrativa di € 68.354,00, perché, in violazione dell’art. 41 d.lgs. n. 231 del 2007, in qualità di commercialista depositario delle scritture contabili della ditta W.X., aveva omesso di segnalare numerose operazioni finanziarie sospette poste in essere nell’anno 2008, consistite nell’ingiustificato impiego di denaro contante o di mezzi di pagamento non appropriati rispetto alla prassi comune, operazioni incongrue rispetto alle finalità dichiarate, ricorso ingiustificato a tecniche di frazionamento delle operazioni, ingiustificata interposizione di terzi, come accertato dalla Guardia di Finanza di Teramo con processo verbale elevato in data 6/10/2010 e notificato il 6/10/2010.
2. Il Tribunale aveva respinto l’eccezione di prescrizione della sanzione ed aveva accolto l’opposizione, sostenendo che nel testo dell’art. 41, in vigore prima del 2010, non era stabilito, in capo al professionista, alcun obbligo di segnalazione dell’operazione di pagamento in contanti e che tale obbligo era stato introdotto per effetto dell’entrata in vigore del decreto-legge n.78 del 2010.
3. Nel giudizio di appello si costituiva C.M. che contestava i motivi di appello chiedendone il rigetto.
4. La Corte d’Appello di Roma accoglieva il gravame.
In particolare, il giudice del gravame dopo aver richiamato il contenuto dell’articolo 41 del decreto legislativo n.231/07, nella formulazione vigente all’epoca della condotta contestata, evidenziava che l’esplicito riferimento introdotto dal decreto-legge 31 maggio 2010 n° 78, quale elemento di sospetto, al ricorso frequente ed ingiustificato ad operazioni in contante, anche se non in violazione dei limiti di cui all’articolo 49 e, in particolare, il prelievo o il versamento in contanti con intermediari finanziari di importo pari o superiore a 15.000 euro”, non aveva comportato l’introduzione di una nuova fattispecie di illecito consistente nell’omessa segnalazione di operazioni caratterizzate dal ricorso frequente ed ingiustificato di operazioni in contante, poiché tale condotta era già disciplinata dalla prima parte dell’art. 41, trattandosi di operazioni che per loro natura inducevano il sospetto del riciclaggio, data la non tracciabilità del pagamento in denaro contante, chiaro sintomo della finalità di liberarsene e così di “ripulirlo”, in quanto provento di attività illecite. Il legislatore aveva solo voluto codificare un mero indicatore di sospetto, senz’altro il più significativo.
Gli indicatori di sospetto avevano, peraltro, solo valore orientativo, non erano tassativi e rappresentavano un mero ausilio operativo per il professionista e pertanto, se il comportamento tenuto dal cliente era richiamato da un indicatore di anomalia ciò non significava che l’operazione fosse necessariamente sospetta e quindi da segnalare e, d’altro canto, anche se il comportamento tenuto dal cliente non poteva essere ricondotto ad alcun indicatore di anomalia, ciò non significava che l’operazione non andasse segnalata se in concreto il professionista aveva motivo di sospettare.
Nel caso di specie occorreva valutare in concreto la rilevanza dei comportamenti del cliente con riferimento ai parametri generali dettati dalla norma nella formulazione vigente all’epoca dei fatti e sopra riportati. Dal rapporto della Guardia di Finanza di Teramo in atti emergeva che la ditta W.X. aveva sistematicamente fatto ricorso a tecniche di frazionamento delle operazioni non giustificate dall’attività svolta, considerato in particolare che, come accertato dalla Guardia di Finanza di Teramo, il volume d’affari nell’anno 2006 ammontava a € 113.006,00, per aumentare nel 2007 a € 476.449,00, per poi aumentare fino a € 848.212,00 nell’anno 2008 e, pertanto, appariva palesemente del tutto ingiustificato il pagamento di 11 fatture, tutte recanti il generico oggetto “prestazione servizio”, con 61 operazioni, frazionate nell’arco dell’anno 2008 ed effettuate mediante versamenti in contanti sempre ad una stessa ditta, la Zhou Shang Kai, che commercializzava confezioni come la ditta debitrice e non effettuava servizi, per l’ammontare complessivo di € 683.380,00.
I pagamenti poi erano singolarmente di poco inferiori al limite consentito per i pagamenti in contanti di € 12.500 (eccezione fatta per il periodo di tempo dal 30/4/2008 al 25/6/2008 in cui l’importo era di €5000 e risultava anche superato).
Il C.M., professionista di fiducia della ditta W.X., della quale curava la tenuta della contabilità in regime di contabilità ordinaria, con registrazione delle operazioni economiche e delle movimentazioni finanziarie (Verbale della Guardia di Finanza in data 6/10/2010), avrebbe dovuto sospettare il compimento di attività di riciclaggio durante l’annualità 2008, con riferimento alle operazioni rilevate dalla Guardia di Finanza nel partitario di cassa e nel libro giornale, in ragione delle caratteristiche, dell’entità, della natura delle operazioni e della capacità economica e dell’attività della cliente, come sopra descritte.
La Guardia di Finanza aveva di fatto accertato che tutte le fatture in questione erano riconducibili ad operazioni inesistenti, per stessa ammissione della cliente del C.M., Signora W.X., effettuate con il solo scopo di creare, nella contabilità della ditta, degli elementi passivi fittizi al fine di evadere le imposte sui redditi e sul valore aggiunto (pag. 5 del verbale).
Tali circostanze non erano state contestate dall’appellato, il quale si era limitato esclusivamente a lamentare la violazione del principio di legalità che, nel caso in esame non poteva ritenersi integrata.
La Corte d’Appello demandava alla sentenza definitiva la determinazione della sanzione che poi rimodulava in euro 40.000/00.
5. C.M. ha proposto ricorso per cassazione avverso tanto la sentenza non definitiva quanto quella definitiva sulla base di tre motivi di ricorso.
6. Il Ministero dell’Economia e Finanze ha resistito con controricorso
7. Il ricorrente con memoria depositata in prossimità dell’udienza ha insistito nella richiesta di accoglimento del ricorso.
8. Il P.G. con conclusioni scritte ha chiesto rigettarsi tutti i motivi di ricorso.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. Il primo motivo di ricorso è così rubricato: Violazione e falsa applicazione dell’articolo 2 e dell’articolo 41 del decreto legislativo n. 231/2007 e s.m.i., dell’art. 36 del D.L. 31.5.2010 n. 78, nonché dell’art. 25 della Costituzione e dell’art. 1 l. n. 689/1981 (in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c.).
La Corte territoriale ha accolto l’appello del Ministero avendo ritenuto che, benché l’art. 41 del d. lgs. n. 231 del 2007, vigente al momento dei fatti, non prevedesse, come elemento di sospetto, l’utilizzo frequente di operazioni di pagamento in contante, dato che tale elemento è stato introdotto solo dall’art. 36, comma primo, lettera b), del d.l. 31.5.2010 n. 78, tuttavia, tale novella legislativa non ha comportato l’introduzione di una nuova fattispecie di illecito, consistente nell’omessa segnalazione di operazioni caratterizzate dal ricorso frequente ed ingiustificato ad operazioni in contanti.
La decisione sarebbe errata in quanto all’epoca cui si riferisce la contestazione di addebito, e cioè nel 2008, non era stato ancora considerato dal legislatore, tra le condotte “sospette”, l’utilizzo del contante, che infatti è stato introdotto solamente a far data dal 31.5.2010, per effetto dell’entrata in vigore del succitato D.L. 78/2010.
Il d.m. Giustizia 16.4.2010, emanato solo pochi mesi prima della novella introdotta dal d.l. n. 78/2010 e concernente la “determinazione degli indicatori di anomalia di operazioni sospette di riciclaggio da parte di talune categorie di professionisti” (tra cui i dottori commercialisti), non ha indicato, tra gli indicatori suddetti, il pagamento in danaro contante da parte della clientela del professionista, dottore commercialista.
A parere del ricorrente, sino all’entrata in vigore della novella introdotta dall’art. 36 del D.L. 78/2010, quindi, l’utilizzo del contante non era considerato come elemento di sospetto (perché nessuna norma lo aveva previsto) e non era stato considerato come “indicatore di anomalia” dal D.M. Giustizia 16.4.2010.
La Corte del merito, poi, non avrebbe considerato, benché fosse stato dedotto dal C.M., che l’Agenzia delle Entrate, solamente con la circolare n. 4E del 15.2.2011 (di “commento alle novità fiscali”), aveva specificato, a pag. 39, che l’art. 36 del D.L. 78/2010 aveva introdotto “un nuovo elemento di sospetto”, costituito dal ricorso frequente o ingiustificato ad operazioni in contante.
Erroneamente, poi, la Corte romana nella seconda parte della motivazione della sentenza n.d. ha ritenuto che anche prima della novella introdotta dall’art. 36 del d.l. n.78 del 2010 l’articolo 41 considerava il pagamento in contanti come metodo di riciclaggio per la “pulizia” del danaro, in quanto l’articolo 2 dello stesso decreto definisce l’attività di riciclaggio come: “la conversione o il trasferimento di beni effettuati, essendo a conoscenza che essi provengono da un’attività criminosa o da una partecipazione a tale attività, allo scopo di occultare o dissimulare l’origine illecita dei beni medesimi…..”.
Tali elementi sarebbero insussistenti nel caso di specie perché lo stesso verbale della Guardia di Finanza (doc. 12 sottofascicolo art. 369 c.p.c.), richiamato nella motivazione dalla Corte capitolina ha formulato, come si desume inequivocabilmente a pagina 6, un “rilievo unico: omessa segnalazione di cui all’articolo 41 del d. lgs. n.231 del 2007 relativamente al trasferimento di denaro contante per un valore complessivo di € 683.340,00, nell’anno 2008”, senza contestare che il denaro provenisse da una operazione sospetta di riciclaggio.
1.1 Il P.G. ha concluso per l’infondatezza del primo motivo di ricorso evidenziando che la modifica dell’art. 41 ad opera del d.l. 78 del 2010 (cd. “manovra 2010”) non ha introdotto una nuova e diversa condotta “sospetta”. La modifica del 2010, infatti, si limita ad offrire ai soggetti obbligati un elemento valutativo di particolare pregnanza, da ritenersi un vero e proprio indice di anomalia (quanto alla qualificazione di “operazione sospetta”) implicitamente rilevante ai fini della segnalazione anche in epoca antecedente alla sua espressa previsione in quanto, anche secondo massime di esperienza, è evidentemente idoneo a qualificare il sospetto circa il cliente o l’operazione e, quindi, l’individuazione e la corretta ponderazione di eventuali profili di sospetto, di riciclaggio o di finanziamento del terrorismo.
Ne consegue, l’inconferenza del richiamo, quanto alla fondatezza del motivo, del d.m. Giustizia 16.4.2010, del d.m. n. 141 del 2006 e del Provvedimento dell’Ufficio Italiano Cambi del 24.2.2006.
Quanto, infine, alla insussistenza degli elementi di cui all’art. 2 d.lgs. n. 131 del 2007, l’Ufficio di procura rileva che il fine cui tende il d.lgs. cit. è quello di contrastare la criminalità ed evitare fenomeni di riciclaggio, non imponendo l’art. 41 l’obbligo di verifica dell’origine illecita dei beni oggetto dell’operazione, né una valutazione di liceità sostanziale della stessa. La norma in esame, infatti, opera solo in presenza di una “operazione sospetta” che impone l’obbligo di segnalazione indipendentemente dall’esito delle successive indagini (cfr. Cass. 24.3.2006, n. 6647) assumendo rilievo la locuzione «che siano in corso» sopra riportata.
1.2 Il primo motivo di ricorso è infondato.
Il collegio condivide le conclusioni del P.G. che fa proprie le argomentazioni della Corte d’Appello circa la punibilità delle condotte contestate al ricorrente anche prima della modifica dell’art. 41 d.lgs. 231 del 2007 ad opera del d.l. 78 del 2010.
La norma applicabile ratione temporis è l’art. 41 del decreto legislativo 21 novembre 2007, n. 231 (Attuazione della direttiva 2005/60/CE concernente la prevenzione dell’utilizzo del sistema finanziario a scopo di riciclaggio dei proventi di attività criminose e di finanziamento del terrorismo nonché della direttiva 2006/70/CE che ne reca misure di esecuzione) prima delle modifiche di cui al decreto-legge n. 78 del 2010. Tale novella legislativa non ha comportato l’introduzione di una nuova fattispecie di illecito, consistente nell’omessa segnalazione di operazioni caratterizzate dal ricorso frequente ed ingiustificato ad operazioni in contanti.
La modifica introdotta nel 2010 è servita a rendere sostanzialmente obbligatoria e non discrezionale la segnalazione di operazioni c.d. sospette quando vi sia un ricorso frequente o ingiustificato a operazioni in contante, anche se non in violazione dei limiti di cui all’articolo 49, e, in particolare, il prelievo o il versamento in contante con intermediari finanziari di importo pari o superiore a 15.000 euro».
La Corte d’Appello, dunque, ha correttamente motivato sul punto sia circa la punibilità della condotta ante riforma sia circa le “caratteristiche, entità, natura” dell’operazione che, “tenuto conto anche della capacità economica e dell’attività svolta dal soggetto cui è riferita”, inducono a ritenere “che il danaro, i beni o le utilità oggetto” dell’operazione possano “provenire dai delitti previsti dagli articoli 648-bis e 648-ter c.p.” (così l’articolo 3, comma 1, d.l. 143/1991).
D’altra parte, gli indicatori di anomalia sia dell’Ufficio italiano cambi fino al 2010 (istruzioni operative per l’individuazione delle operazioni sospette) e sia il successivo d.m. 16 aprile 2010 del Ministero della giustizia rivolto specificamente ai professionisti, ricomprendono sempre un anomalo utilizzo del denaro contante tra le ipotesi che dovrebbero indurre a sospettare dell’operazione. Peraltro, in tutti i provvedimenti amministrativi che individuano gli indici di anomalia si precisa che si tratta sostanzialmente di istruzioni volte ad agevolare gli operatori e che si tratta solo di indicatori che, da un lato, non esauriscono le ipotesi possibili di operazioni sospette e, dall’altro, non costituiscono il necessario presupposto perché l’operazione debba essere segnalata. In altri termini, la mera ricorrenza di comportamenti descritti nell’indicatore non è motivo di per sé sufficiente per la segnalazione di operazioni sospette, così come l’assenza di indicatori previsti nell’allegato può non essere sufficiente a escludere che l’operazione sia sospetta.
Infine, come evidenziato dal P.G. la «segnalazione» non è di per sé finalizzata a denunciare fatti penalmente rilevanti, ma è concepita come una comunicazione utile ad innescare eventuali indagini (cfr. sul punto Sez. 2, n. 25735 del 2017; Sez. 2, n. 2326 del 2010). Con quest’ultima pronuncia si è affermato che «La segnalazione delle operazioni recanti anomalie formali non era subordinata, dunque, all’evidenziazione dalle indagini dell’operatore degli intermediari di un quadro indiziario di riciclaggio e neppure all’esclusioni in base ad un personale convincimento dello stesso dell’estraneità dell’operazione ad una attività delittuosa, ma ad un giudizio puramente tecnico sulla idoneità di esse, valutati gli elementi oggettivi e soggettivi che le caratterizzavano, ad essere strumento di elusione alle disposizioni dirette a prevenire e punire la conversione, il trasferimento, l’occultamento, la dissimulazione, l’acquisto, la detenzione o l’utilizzazione di beni provenienti da una attività criminosa o da una partecipazione a tale attività». Risulta, dunque, privo di rilievo la mancata contestazione della provenienza illecita del denaro.
2. Il secondo motivo di ricorso è così rubricato: Violazione e falsa applicazione dell’art. 112 p.c. e dell’art. 6 del d. lgs n.74 del 2000 (in relazione all’art. 360 comma primo n. 3 c.p.c.).
Il Ministero, con l’appello, si era limitato a denunciare la violazione del principio di legalità riferito esclusivamente all’interpretazione del primo capoverso dell’articolo 41 in combinato disposto con l’articolo 36 del d.l. n. 78/2010 fatta dal giudice di primo grado. La Corte d’Appello invece avrebbe fondato la decisione su una serie di circostanze peraltro non contestate dall’appellato in quanto mai dedotte.
2.1 Il secondo motivo di ricorso è infondato.
Anche in questo caso il Collegio condivide le conclusioni del P.G. che ha evidenziato come la Corte territoriale abbia ritenuto sussistente l’obbligo di segnalazione delle operazioni in questione, perché le stesse risultavano connotate dagli indici di anomalia indicati dall’art. 41 cit. (cfr. pag. 6) e, pertanto il ricorrente «avrebbe dovuto sospettare il compimento di attività di riciclaggio durante l’annualità 2008, con riferimento alle operazioni rilevate dalla Guardia di Finanza nel partitario di cassa e nel libro giornale, in ragione delle caratteristiche, dell’entità, della natura delle operazioni e della capacità economica e dell’attività della cliente, come sopra descritte» (cfr. pag 7). La doglianza del ricorrente attinge, dunque, il giudizio di fatto della Corte di appello sulla qualificazione delle operazioni in questione come “sospette” e, in tal modo, si risolve ancora una volta in una doglianza di merito non scrutinabile nel giudizio di legittimità (Cfr. Sez. 2, n. 24476 del 2022).
In ogni caso, in aggiunta alle condivisibili considerazioni dell’ufficio di Procura deve evidenziarsi come nessuna violazione dell’art. 112 c.p.c. può riscontrarsi nell’accoglimento dell’appello del Ministero che aveva fondato il gravame sull’erronea applicazione della norma da parte del giudice di primo grado. A fronte del motivo di impugnazione risulta evidente il riespandersi del potere del giudice di esaminare la vicenda nel suo complesso tenendo conto di tutte le circostanze dedotte. Dunque, il ricorrente aveva certamente l’onere di contestare quanto accertato dalla Guardia di finanza circa il fatto che tutte le fatture erano riconducibili ad operazioni inesistenti per stessa ammissione della sua cliente in quanto effettuate con il solo modo di creare nella contabilità della ditta degli elementi passivi fittizi, al fine di evadere le imposte sui redditi e sul valore aggiunto.
Devono richiamarsi in proposito i seguenti principi di diritto: In tema di sanzioni amministrative, l’opposizione all’ordinanza- ingiunzione non configura un’impugnazione dell’atto, ed introduce, piuttosto, un ordinario giudizio sul fondamento della pretesa dell’autorità amministrativa, devolvendo al giudice adito la piena cognizione circa la legittimità e la fondatezza della stessa, con l’ulteriore conseguenza che, in virtù dell’art. 23 della legge 24 novembre 1981, n. 689 (nella specie applicabile “ratione temporis”), il giudice ha il potere – dovere di esaminare l’intero rapporto, con cognizione non limitata alla verifica della legittimità formale del provvedimento, ma estesa – nell’ambito delle deduzioni delle parti – all’esame completo nel merito della fondatezza dell’ingiunzione, ivi compresa la determinazione dell’entità della sanzione, secondo i criteri stabiliti dall’art. 11 della legge citata, sulla base di un apprezzamento discrezionale insindacabile in sede di legittimità se congruamente motivato e immune da errori logici o giuridici. (Sez. 2, Sentenza n. 6778 del 02/04/2015, Rv. 634747 – 01);
In tema di giudizio di appello, il principio della corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato, come il principio del tantum devolutum quantum appellatum, non osta a che il giudice renda la pronuncia richiesta in base ad una ricostruzione dei fatti autonoma rispetto a quella prospettata dalle parti, ovvero in base alla qualificazione giuridica dei fatti medesimi ed all’applicazione di una norma giuridica diverse da quelle invocate dall’istante, né incorre nella violazione di tale principio il giudice d’appello che, rimanendo nell’ambito del petitum e della causa petendi, confermi la decisione impugnata sulla base di ragioni diverse da quelle adottate dal giudice di primo grado o formulate dalle parti, mettendo in rilievo nella motivazione elementi di fatto risultanti dagli atti ma non considerati o non espressamente menzionati dal primo giudice Sez. 6 – L, Ordinanza n. 513 del 11/01/2019 Sez. 3, Sentenza n. 20652 del 25/09/2009
Quanto alla asserita provenienza lecita del denaro il fatto che l’attività del ricorrente non assuma rilievo penale non ha alcuna attinenza con il suo obbligo di segnalazione, così come il fatto che le suddette somme non costituiscono il profitto del reato di dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti, in entrambi i casi ciò non esclude a priori l’obbligo della segnalazione in capo al professionista che deve compiere una valutazione ex ante della sussistenza di anomalie tali da determinare la necessità di segnalazione.
3. Il terzo motivo di ricorso è così rubricato: Violazione e falsa applicazione dell’articolo 57, 58, 67 e 69 del d. lgs. n.90 del 2017 e dell’art. 11 della legge n.689 del 1981.
L’odierno ricorrente, con la memoria autorizzata, dopo avere riservato la proposizione del ricorso avverso la sentenza n.d., ha chiesto, esponendone le ragioni, l’irrogazione della sanzione di € 3.000,00 prevista dall’art.58, primo comma, del d. lgs n. 70 del 2017, inferiore al minimo edittale previsto dalla normativa previgente, non sussistendo in radice i presupposti aggravanti previsti dal secondo comma dello stesso articolo.
La Corte territoriale avrebbe omesso di considerare e valutare le circostanze addotte dal professionista con la memoria depositata in atti il 13/11/2021, che dimostravano in modo lapalissiano la riconducibilità della sanzione all’ipotesi prevista dall’articolo 58, comma 1, per la totale assenza del danno e del pericolo derivante dalla contestata violazione, data l’insussistenza dell’attività di riciclaggio e non avrebbe neppure esaminato la richiesta, avanzata dal C.M. nel ricorso introduttivo, di applicazione della sanzione nella misura minima edittale prevista dalla normativa previgente, espressamente riproposta in sede di gravame, mediante la trascrizione del terzo motivo del ricorso, non esaminato, in quanto assorbito, dal Tribunale con la sentenza di primo grado.
Così facendo la sentenza definitiva sarebbe incorsa nella violazione ed errata applicazione dell’art. 58 citato, in base alla quale sarebbe evidente che la gravità della violazione non possa essere determinata solamente facendo riferimento al parametro della “intensità e del grado dell’elemento soggettivo”, omettendo la verifica dell’esistenza o meno degli ulteriori presupposti oggettivi mentre l’’intensità serve solo a graduare la gravità, ma non a determinarla.
3.1 Il terzo motivo di ricorso è infondato.
Come osservato dal P.G., al Giudice è riconosciuto il potere di determinare il quantum della sanzione amministrativa. In proposito l’Ufficio di procura richiama il seguente principio di diritto: «In tema di sanzioni amministrative pecuniarie, ove la norma indichi un minimo e un massimo della sanzione, spetta al potere discrezionale del giudice determinarne l’entità entro tali limiti, allo scopo di commisurarla alla gravità del fatto concreto, globalmente desunta dai suoi elementi oggettivi e soggettivi. Peraltro, il giudice non è tenuto a specificare nella sentenza i criteri adottati nel procedere a detta determinazione, né la Corte di cassazione può censurare la statuizione adottata, ove tali limiti siano stati rispettati e dal complesso della motivazione risulti che quella valutazione è stata compiuta» (Sez. 2 n. 4844 del 23/02/2021 Rv. 660460 – 01).
Nella specie, la Corte di merito, con motivazione che si fonda sulla puntuale valutazione della condotta tenuta dal ricorrente, ha ritenuto applicabile l’art. 58, comma 2, d.lgs. n. 231 del 2007 (cd. condotta qualificata) e, per l’effetto, ha ridotto la sanzione inizialmente applicata contenendola in misura prossima al minimo edittale.
in ogni caso, la Corte ha fatto applicazione del trattamento più favorevole come individuato in concreto, in considerazione dell’espresso richiamo al principio del favor rei contenuto nell’art. 69 d.lgs. n. 231 del 2007, come introdotto dal d.lgs. n. 90 del 2017 – in deroga a quello del “tempus regit actum” proprio delle sanzioni amministrative (Cass. civ. n° 28888/18, n°27405/19). A tal proposito la Corte d’Appello ha correttamente chiarito che “per l’individuazione del trattamento sanzionatorio più favorevole non è sufficiente prendere in considerazione i minimi ed i massimi edittali contemplati dalle diverse normative occorrendo, al contrario, un apprezzamento di fatto delle circostanze di commissione dell’illecito, ex art. 67 d.lgs. n. 231 del 2007, come modificato dal d.lgs. n. 90 del 2017, dovendo la comparazione fondarsi – come chiarito dalla sentenza della Corte Costituzionale n. 68 del 2017 – sull’individuazione in concreto del regime complessivamente più favorevole per la persona, avuto riguardo a tutte le caratteristiche del caso specifico” (Cass. 20697/18).
Inoltre, il giudice del gravame ha certamente tenuto conto delle osservazioni del ricorrente pur non condividendole. Infatti si legge nella sentenza definitiva che non ricorrono i presupposti per l’ applicazione della fattispecie base prevista dall’art. 58 comma 1, invocata dall’appellato, bensì di quella qualificata disciplinata dal secondo comma, in considerazione della gravità della violazione contestata, rilevabile dall’intensità e dal grado dell’elemento soggettivo, avendo il professionista omesso la segnalazione in presenza di una condotta della cliente palesemente idonea ad indurre il sospetto di riciclaggio per le specifiche modalità indicate nella sentenza non definitiva ed in considerazione del valore dell’operazione di oltre € 683.000,00. Tuttavia, tenuto conto, ai sensi dell’art. 11 legge 689/81, che il C.M. non risulta avere ricevuto alcuna precedente incolpazione per fatti analoghi, si reputa sanzione adeguata quella di € 40.000,00. Il suddetto apprezzamento in fatto non è sindacabile in questa sede.
Conclusivamente deve ribadirsi che: Nel procedimento di opposizione avverso le sanzioni amministrative pecuniarie, il giudice, nel caso di contestazione della misure delle stesse, è autonomamente chiamato a controllarne la rispondenza alle previsioni di legge, senza essere soggetto a parametri fissi di proporzionalità correlati al numero ed alla consistenza degli addebiti, e può reputare congrua l’entità della sanzione inflitta in riferimento ad una molteplicità di incolpazioni anche qualora escluda l’esistenza di alcune di esse; egli, inoltre, non è chiamato a controllare la motivazione dell’ordinanza-ingiunzione, ma a determinare la sanzione entro i limiti edittali previsti, allo scopo di commisurarla all’effettiva gravità del fatto concreto, desumendola globalmente dai suoi elementi oggettivi e soggettivi, senza che sia tenuto a specificare i criteri seguiti, dovendosi escludere che la sua statuizione sia censurabile in sede di legittimità ove quei limiti siano stati rispettati e dalla motivazione emerga come, nella determinazione, si sia tenuto conto dei parametri previsti dall’art. 11 della l. n. 689 del 1981 (Sez. 2 – , Sentenza n. 11481 del 15/06/2020, Rv. 658267 – 01).
4. Il ricorso è rigettato.
5. Le spese del giudizio seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo.
6. Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater D.P.R. n. 115/02, si dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso principale, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13, se dovuto.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità nei confronti della parte controricorrente che liquida in euro 3.500,00 oltre spese prenotate a debito;
ai sensi dell’art. 13, co. 1 quater, del d.P.R. n. 115/2002, inserito dall’art. 1, co. 17, l. n. 228/12, dichiara la sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso principale, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13, se dovuto;