Corte di Cassazione. sezione lavoro, ordinanza n. 10640 depositata il 19 aprile 2024
licenziamento per scarso rendimento
RILEVATO CHE
1. la Corte di Appello di Roma, con la sentenza impugnata, nell’ambito di un procedimento ex lege 92 del 2012, ha confermato la pronuncia di prime cure che aveva respinto l’opposizione avverso l’ordinanza con cui era stato annullato il licenziamento intimato il 2 febbraio 2016 a YYY e condannato XXX Spa in amministrazione straordinaria a reintegrare il lavoratore nel posto di lavoro nonché a versare i contributi previdenziali ed assistenziali dal giorno del licenziamento fino a quello della effettiva reintegrazione, con diritto altresì a percepire un indennizzo commisurato a 12 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, oltre accessori;
2. la Corte territoriale – in sintesi – ha premesso che il dipendente era stato licenziato per giustificato motivo oggettivo, evidenziando: “che, con riferimento al periodo dall’1.8.2013 al 8.2015, lo stesso era stato assente per brevi ma ripetuti periodi di malattia per complessive 123 giornate lavorative; che tali assenze erano significativamente superiori rispetto alla media delle assenze del personale appartenente alla stessa categoria del lavoratore risultando, peraltro, prevalentemente adiacenti a periodi di riposo; che, al di là delle motivazioni di tali assenze, le stesse avevano inciso negativamente sull’organizzazione aziendale e sui livelli di produzione del settore cui il predetto era stato assegnato, con effetti diretti e negativi sull’organizzazione dell’attività, sul dimensionamento dell’organico e sull’erogazione del servizio”;
la Corte di merito ha ritenuto che correttamente il Tribunale avesse ricondotto il licenziamento alla previsione dell’art. 2110 c.c. e che il recesso, intimato pacificamente prima del superamento del periodo di comporto, dovesse considerarsi nullo, con applicazione della tutela reintegratoria attenuata secondo il disposto dell’art. 18, comma 7, S.d.L., risultando irrilevanti le prove dedotte dalla società su elementi diversi rispetto a quello decisivo rappresentato dal mancato esaurimento del periodo di comporto; 3. per la cassazione di tale sentenza ha proposto ricorso la soccombente società con cinque motivi; ha resistito con controricorso l’intimato;
la parte ricorrente ha anche comunicato memoria; all’esito della camera di consiglio, il Collegio si è riservato il deposito dell’ordinanza nel termine di sessanta giorni;
CONSIDERATO CHE
1. i motivi di impugnazione possono essere come di seguito sintetizzati;
1.1 con il primo si denuncia, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c., violazione e falsa applicazione dell’art. 132, comma 2, n. 4 c.p.c. e dell’art. 118 disp. att. c.p.c. per genericità della motivazione, nonché violazione e falsa applicazione dell’art. 111 e dell’art. 132, comma 2, n. 4, c.p.c., per motivazione per relationem in riferimento all’art. 2110 c.c., in luogo della normativa in tema di licenziamento per giustificato motivo oggettivo; si critica la sentenza d’appello per aver motivato il rigetto del reclamo aderendo ad un indirizzo giurisprudenziale di legittimità, senza illustrare un proprio autonomo convincimento;
1.2 con il secondo motivo di ricorso è denunciata, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c., la violazione dell’art. 3, legge 604 del 1966 e dell’art. 2110 c.c.; la società censura la sentenza impugnata per avere sussunto la fattispecie oggetto di causa nella previsione dell’art. 2110 c.c., anziché in quella del licenziamento per giustificato motivo oggettivo con particolare riferimento all’ipotesi di eccessiva morbilità, secondo la quale è considerato legittimo il recesso motivato dalle assenze per malattia del lavoratore inferiori al periodo di comporto ove il datore dimostri l’impossibilità di utilizzare la prestazione lavorativa frazionata e il rilevante pregiudizio arrecato dalle citate assenze alla produzione aziendale;
1.3 il terzo motivo di ricorso deduce, ai sensi dell’art. 360, comma 1, 3, c.p.c., la violazione e falsa applicazione dell’art. 132, comma 2, n. 4, c.p.c., e dell’art. 118 disp. att. c.p.c., in connessione con l’art. 115 c.p.c., per genericità della motivazione sulla mancata ammissione dei mezzi istruttori; si critica la motivazione adottata dai giudici di appello nella parte in cui hanno giudicato irrilevante la prova su circostanze diverse dal superamento del periodo di comporto;
1.4 il quarto motivo addebita alla sentenza impugnata, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c., l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti, concernente gli scompensi organizzativi causati dalle reiterate assenze del lavoratore;
1.5 col quinto motivo si denuncia, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c., la violazione e falsa applicazione dell’art. 18, comma 7, della legge n. 300 del 1970, per avere la sentenza impugnata ritenuto applicabile la tutela reintegratoria attenuata, prevista dalla disposizione citata, in conseguenza dell’erronea sussunzione della fattispecie nell’art. 2110 c.c.;
1.6 con il sesto motivo si denuncia la nullità della sentenza per l’omessa pronuncia di improcedibilità della domanda di condanna di SAI in amministrazione straordinaria alla corresponsione dell’indennità risarcitoria, con riferimento all’art. 360, n. 4, c.p.c., per violazione e falsa applicazione degli artt. 24 e 52 del R.D. 16 marzo 1942 n. 267, in combinato disposto con gli artt. 409 e 433 c.p.c. ed improcedibilità della domanda di condanna al risarcimento economico;
2. il ricorso non merita accoglimento per le ragioni già esposte da questa Corte su ricorsi della medesima società che sviluppavano censure in larga parte sovrapponibili a quelle anche qui formulate (cfr. Cass. n. 16719 e n. 31482 del 2023, cui si rinvia anche ai sensi dell’art. 118 disp. att. c.p.c.);
2.1 il primo motivo è infondato perché la motivazione mediante rinvio al precedente, secondo orientamento assolutamente consolidato, soddisfa i requisiti richiesti dall’art. 132, comma 2, 4 c.p.c. e il dovere costituzionale di cui all’art. 111 Cost., in ossequio al principio di economia processuale e di ragionevole durata del processo, che giustifica la mancata ripetizione delle argomentazioni già esposte, ove condivise dal giudicante e non contrastate da argomenti nuovi (così Cass. n. 13708 del 2015); la motivazione per relationem ad un precedente giurisprudenziale esime il giudice dallo sviluppare proprie argomentazioni giuridiche, purché il percorso argomentativo consenta, comunque, di comprendere la fattispecie concreta, l’autonomia del processo deliberativo compiuto e la riconducibilità dei fatti esaminati al principio di diritto richiamato (v. Cass. n. 11227 del 2017); requisiti presenti nella sentenza impugnata (pag. 3, 4 e 5) che, attraverso il percorso argomentativo tratto dai precedenti di legittimità, ha comunque scrutinato le censure di parte appellante ed applicato il principio di diritto, espresso su fattispecie analoga, idoneo a risolvere la questione controversia;
2.2 anche il secondo motivo di ricorso è infondato, atteso che la sentenza gravata è conforme alla oramai consolidata giurisprudenza di questa Corte;
l’assunto da cui parte la censura riflette quell’orientamento, eminentemente dottrinale, secondo cui un fatto imputabile al comportamento del lavoratore nell’attuazione del rapporto contrattuale, segnatamente un difetto di intensità della prestazione individuabile come “scarso rendimento”, sarebbe suscettibile di essere qualificato non solo come notevole inadempimento ma anche come giustificato motivo oggettivo di licenziamento;
occorre tuttavia tenere ben definito il confine tra le due ipotesi rispetto alle fattispecie concrete, non essendo consentito, in virtù di un mero atto di auto qualificazione del datore, invadere l’area del giustificato motivo oggettivo con casi che, appartenendo naturalmente all’area della giusta causa o del giustificato motivo soggettivo, non abbiano valenza risolutoria sotto questo aspetto (v. Cass. n. 23735 del 2016);
in questo senso è indirizzata la giurisprudenza assolutamente prevalente di questa Corte, che va qui ribadita, secondo la quale: “il licenziamento per cosiddetto ‘scarso rendimento’, (…), costituisce un’ipotesi di recesso del datore per notevole inadempimento degli obblighi contrattuali del prestatore, che, a sua volta, si pone come specie della risoluzione per inadempimento, prevista dagli artt. 1453 e segg. Cod. civ. Si osserva infatti che, nel contratto di lavoro subordinato, il lavoratore non si obbliga al raggiungimento di un risultato ma alla messa a disposizione del datore delle proprie energie, nei modi e nei tempi stabiliti, con la conseguenza che il mancato raggiungimento del risultato prefissato non costituisce di per sé inadempimento, giacché si tratta di lavoro subordinato e non dell’obbligazione di compiere un’opera o un servizio (lavoro autonomo). Ove, tuttavia, siano individuabili dei parametri per accertare che la prestazione sia eseguita con la diligenza e professionalità medie, proprie delle mansioni affidate al lavoratore, il discostamento dai detti parametri può costituire segno o indice di non esatta esecuzione della prestazione” (in termini: Cass. n. 14310 del 2015, in continuità con Cass. n. 2291 del 2013; Cass. n. 24361 del 2010; Cass. n. 1632 del 2009; Cass. n. 3876 del 2006; Cass. n. 10303 del 2005; Cass. n. 6747 del 2003; Cass. n. 13194 del 2003; Cass. n. 2448 del 2001; in materia di rapporto di lavoro degli autoferrotranvieri v. Cass. n. 10963 del 2018); in tal caso “lo scarso rendimento è caratterizzato da colpa del lavoratore“, (Cass. n. 16472 del 2015; Cass. n. 16582 del 2015; Cass. n. 17436 del 2015), per cui, avuto riguardo alle fattispecie concrete, occorre tenere distinte le ipotesi in cui ci si dolga della condotta del lavoratore cui si addebitano forme di inadempimento rispetto alla prestazione attesa dal datore, comunque ascrivibili alla sfera volitiva del dipendente, dando luogo al licenziamento cd. ontologicamente disciplinare, dai casi riferibili alle ragioni organizzative dell’impresa, che possono anche ravvisarsi in condizioni attinenti alla persona del lavoratore (Cass. n. 12072 del 2015) quali la sopravvenuta inidoneità per infermità fisica, la carcerazione (Cass. n. 12721 del 2009), il ritiro della patente o la sospensione delle autorizzazioni amministrative (Cass. n. 603 del 1996; Cass. n. 7638 del 1996; Cass. n. 6362 del 2000; Cass. n. 13986 del 2000), la mancanza del titolo professionale abilitante (Cass. n. 25073 del 2013), ma sempre che si tratti di circostanze oggettive idonee a determinare la perdita di interesse del datore di lavoro alla prestazione e che siano estranee alla sfera volitiva del soggetto, tali da non poter configurare, nella sostanza, un inadempimento comunque imputabile; in particolare, la sussunzione della fattispecie concreta nell’una piuttosto che nell’altra ipotesi normativa non può essere rimessa alla libera scelta del datore di lavoro, in virtù di un mero atto di qualificazione del recesso, svincolato dalla valutazione della concreta ragione posta a fondamento del licenziamento, sicché deve escludersi la sussistenza di un giustificato motivo oggettivo quando, a di là di ogni eventuale riferimento a ragioni relative all’impresa, il licenziamento è fondato su di un comportamento riconducibile alla sfera volitiva del lavoratore e lesivo dei suoi doveri contrattuali ed esprime pertanto un giudizio negativo nei suoi confronti (in termini: Cass. n. 18287 del 2012; in precedenza Cass. n. 326 del 1997 e, sulla nozione ontologica del licenziamento disciplinare, v. Cass. SS.UU. n. 4823 del 1987); quando, poi, il recesso del datore di lavoro è comunque collegato ad assenze determinate da malattia del lavoratore, tanto nel caso di una sola affezione continuata, quanto in quello del succedersi di diversi episodi morbosi (cosiddetta eccessiva morbilità), lo stesso è soggetto alle regole dettate dall’art. 2110 c.c., che prevalgono, per la loro specialità, sia sulla disciplina generale della risoluzione del contratto per sopravvenuta impossibilità parziale della prestazione lavorativa, sia sulla disciplina limitativa dei licenziamenti individuali; ne consegue che il datore di lavoro, da un lato, non può recedere dal rapporto prima del superamento del limite di tollerabilità dell’assenza (cosiddetto periodo di comporto), il quale è predeterminato per legge, dalla disciplina collettiva o dagli usi, oppure, in difetto di tali fonti, determinato dal giudice in via equitativa, e, dall’altro, che il superamento di quel limite è condizione sufficiente di legittimità del recesso, nel senso che non è necessaria la prova del giustificato motivo oggettivo né della sopravvenuta impossibilità della prestazione lavorativa, né della correlata impossibilità di adibire il lavoratore a mansioni diverse (Cass. n. 1861 del 2010; Cass. n. 1404 del 2012; Cass. n. 24525 del 2014; Cass. n. 31763 del 2018);
in continuità, le Sezioni Unite di questa Corte, con la sentenza n. 12568 del 2018, hanno affermato la nullità del licenziamento intimato per il perdurare delle assenze per malattia od infortunio del lavoratore, ma prima del superamento del periodo massimo di comporto fissato dalla contrattazione collettiva o, in difetto, dagli usi o secondo equità; hanno ribadito come il licenziamento per superamento del periodo di comporto costituisca una fattispecie autonoma di licenziamento, vale a dire una situazione di per sé idonea a consentirlo, diversa da quelle riconducibili ai concetti di giusta causa o giustificato motivo di cui all’art. 2119 cod. civ. e agli artt. 1 e 3 legge n. 604 del 1966; hanno chiarito che il mero protrarsi di assenze oltre un determinato limite stabilito dalla contrattazione collettiva – o, in difetto, dagli usi o secondo equità – di per sé non costituisce inadempimento alcuno (trattandosi di assenze pur sempre giustificate); né per dare luogo a licenziamento si richiede un’accertata incompatibilità fra tali prolungate assenze e l’assetto organizzativo o tecnico-produttivo dell’impresa, ben potendosi intimare il licenziamento per superamento del periodo di comporto pur ove, in concreto, il rientro del lavoratore possa avvenire senza ripercussioni negative sugli equilibri aziendali; hanno statuito che nell’art. 2110, comma 2, cod. civ. si rinviene un’astratta predeterminazione (legislativo-contrattuale) del punto di equilibrio fra l’interesse del lavoratore a disporre d’un congruo periodo di assenze per ristabilirsi a seguito di malattia o infortunio e quello del datore di lavoro di non doversi fare carico a tempo indefinito del contraccolpo che tali assenze cagionano all’organizzazione aziendale (in conformità, di recente, Cass. n. 27334 del 2022);
la Corte d’appello si è attenuta ai principi appena esposti e la decisione assunta si sottrae alle censure mosse col motivo di ricorso in esame;
2.3 da quanto precede deriva che non possono trovare accoglimento il terzo, il quarto e il quinto motivo di ricorso, in quanto doglianze fondate sull’errato presupposto che l’impugnato licenziamento non sarebbe sussumibile nell’ambito di applicazione dell’art. 2110 c.c.;
2.4 parimenti, non può accogliersi l’ultimo motivo di ricorso in quanto la condanna dell’ammissione all’Amministrazione Straordinaria di XXX era già intervenuta prima della pronuncia della sentenza di conferma emessa in primo grado, contro la quale la parte ricorrente non ha proposto alcun motivo di impugnativa nel reclamo svolto davanti alla Corte di Appello, sicché si è venuto così a formare un giudicato interno sulla proponibilità della domanda di condanna al pagamento proposta nei confronti della Alitalia, con conseguente inammissibilità del motivo di ricorso per cassazione formulato in questa sede (in termini, Cass. n. 31482 del 2023);
3. pertanto, il ricorso, nel suo complesso, deve essere respinto, con spese regolate secondo soccombenza come da dispositivo, con attribuzione all’Avv. D.M. che si è dichiarato antistatario;
occorre, altresì, dare atto della sussistenza per la ricorrente dei presupposti processuali di cui all’art. 13, co. 1 quater, d.P.R. n. 115 del 2002, come modificato dall’art. 1, co. 17, l. n. 228 del 2012, per il versamento dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello per il ricorso, ove dovuto (Cass. SS.UU. n. 4315 del 2020).
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna la parte ricorrente al pagamento delle spese di lite liquidate in euro 6.000,00, oltre euro 200,00 per esborsi, rimborso spese forfettario al 15% e accessori secondo legge, con distrazione. Ai sensi dell’art. 13, co. 1 quater, d.P.R. n. 115 del 2002 dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello per il ricorso a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13, se dovuto.
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