CORTE di CASSAZIONE, sezione lavoro, Ordinanza n. 11584 depositata il 2 maggio 2025
Licenziamento disciplinare – Sanzioni conservative – Violazione degli obblighi – Condotte ingiuriose – Superiore gerarchico – Art. 7, L. n. 300 del 1970 – Non contestazione – Contributo unificato – Rigetto
Rilevato che
1. la Corte di Appello di L’Aquila, con la sentenza impugnata, ha confermato la pronuncia di primo grado nella parte in cui aveva accertato la legittimità sia del licenziamento disciplinare intimato in data 12 ottobre 2020 dalla W.G. Spa a D.Z., sia di tre precedenti sanzioni conservative utilizzate dalla datrice di lavoro anche ai fini della recidiva; ha annullato, invece, una quarta sanzione conservativa, compensando le spese nella misura di 3/4 e ponendo le residue a carico della società;
2. la Corte, in estrema sintesi, ha innanzitutto ritenuto che non potesse determinare l’illegittimità delle sanzioni inflitte la mancata affissione del codice disciplinare in quanto gli addebiti contestati al lavoratore, sia quelli posti a base del licenziamento che quelli fondanti le precedenti sanzioni conservative, rappresentavano condotte contrarie al vivere civile o, comunque, a doveri fondamentali propri di qualsiasi rapporto di lavoro;
la Corte, poi, con riferimento agli addebiti, come il primo giudice, ha ritenuto “sostanzialmente ammessi i fatti addebitati, atteso che le circostanze dedotte dal ricorrente (sulla violazione, da parte della stessa azienda, delle norme di sicurezza; sull’assenza di un cestino per i rifiuti nel piazzale del deposito; sul comportamento tenuto in occasione della consegna dei DPI; sulle motivazioni che avevano indotto il ricorrente a registrare le conversazioni con alcuni clienti e sulla natura della conversazione intercorsa con il vice capodeposito) non smentiscono, nella sostanza, la veridicità dei fatti contestati”; infine, ha respinto anche il motivo di gravame con cui si censurava il primo giudice per aver ritenuto sussistente una giusta causa di licenziamento, argomentando: “occorre, in primo luogo, considerare che il F. non era soltanto un collega di lavoro del ricorrente, bensì era il suo superiore gerarchico; pertanto, la condotta posta in essere non costituisce soltanto un’offesa all’onore e alla reputazione di un collega di lavoro, ma ridicolizza il ruolo stesso di superiore gerarchico del capodeposito, al quale il ricorrente ha dimostrato, in tal modo, di non riconoscere alcuna autorità, condotta ben più grave del caso del lavoratore che usi un’espressione volgare con un cliente […] Inoltre, al ricorrente viene addebitato anche di essersi ‘rivolto al Sig. F.G. con tono minaccioso riferendo che avrebbe rovinato tutti (…) sostenendo di avere delle prove contro i colleghi e nei confronti dell’azienda’, condotta che aveva creato ‘un clima di nervosismo e malcontento’ all’interno dell’ambiente di lavoro, tanto è vero che vari colleghi avevano ‘manifestato espressamente (…) la volontà di non svolgere attività in squadra con lui’, come risulta dalla documentazione prodotta dalla società”;
il Collegio ha concluso che “la condotta posta in essere costituisce giusta causa di licenziamento, in quanto la mancanza di rispetto nei confronti del proprio superiore gerarchico e la conflittualità dei rapporti con gli altri colleghi di lavoro eliminavano ogni ragionevole prospettiva di proficua collaborazione all’interno dell’azienda”;
3. per la cassazione di tale sentenza, ha proposto ricorso il soccombente con sei motivi; ha resistito con controricorso l’intimata società; entrambe le parti hanno comunicato memorie; all’esito della camera di consiglio, il Collegio si è riservato il deposito dell’ordinanza nel termine di sessanta giorni;
Considerato che
1. i motivi di ricorso possono essere sintetizzati come di seguito;
1.1. il primo denuncia la violazione e falsa applicazione dell’art. 7, l. n. 300 del 1970, per non aver ritenuto necessaria l’affissione del codice disciplinare rispetto agli addebiti posti a base delle sanzioni conservative;
1.2. il secondo motivo denuncia ancora la violazione e falsa applicazione dell’art. 7 l. 300/70, in relazione agli artt. 220 e 226 CCNL Terziario, sostenendo che la condotta contestata ai fini del licenziamento doveva essere assoggettata alla regola della preventiva pubblicità, sostenendo che “nelle società contemporanee la soglia del dovere di rispetto tra le persone [..] si è notevolmente abbassata”;
1.3. il terzo motivo denuncia la violazione dell’art. 112 c.p.c. in quanto la Corte di Appello avrebbe omesso l’esame di una censura concernente la nullità del licenziamento per la mancata affissione del codice disciplinare;
1.4. il quarto motivo denuncia la violazione degli artt. 6 e 12 l. n. 604 del 1966 nonché degli artt. 414 e 416 c.p.c., criticando diffusamente la sentenza impugnata per avere ritenuto non contestati i fatti addebitati;
1.5. il quinto motivo denuncia la violazione e falsa applicazione dell’art. 12 della l. n. 604 del 1966, in relazione agli artt. 225 e 229 CCNL Commercio 2008 (riprodotti negli artt. 238 e 242 stesso CCNL del 2019); si deduce che “gli inadempimenti attribuiti al ricorrente avrebbero potuto sì essere qualificati come violazione degli obblighi di cui all’art. 220, 1° e 2° comma CCNL, ma non come <grave> violazione dei medesimi obblighi”, di talché potevano essere puniti esclusivamente con sanzione conservativa e non con il licenziamento;
1.6. il sesto motivo denuncia, in via subordinata, la violazione e falsa applicazione dell’art. 2119 c.c., criticando la sentenza impugnata per avere ritenuto sussistente una giusta causa di licenziamento;
2. il ricorso non può trovare accoglimento;
2.1. i primi tre motivi, congiuntamente esaminabili per connessione, risultano infondati; la sentenza impugnata in punto di violazione dell’art. 7 della l. n. 300 del 1970 è conforme al consolidato orientamento di questa Corte (tra altre v. Cass. n. 6893 del 2018) secondo cui il principio di necessaria pubblicità del codice disciplinare mediante affissione in luogo accessibile a tutti non si applica non solo nei casi in cui il licenziamento sia irrogato per sanzionare condotte del lavoratore che concretizzano violazione di norme penali o che contrastano con il cosiddetto “minimo etico”, ma anche in presenza della violazione di norme di legge e comunque di doveri fondamentali del lavoratore, riconoscibili come tali senza necessità di specifica previsione (cfr. Cass. n. 16291 del 2004; Cass. n. 20270 del 2009), ovvero anche a fronte di comportamenti manifestamente contrari agli interessi dell’impresa e dei lavoratori (Cass. n. 18377 del 2006); il principio, originariamente affermato in relazione alle sanzioni espulsive (Cass. n. 12735 del 2003), è stato poi esteso anche a quelle conservative (Cass. n. 1926 del 2011; Cass. n. 13414 del 2013; Cass. n. 54 del 2017); nella specie, la Corte territoriale ha plausibilmente escluso la necessità dell’affissione del codice disciplinare sia avuto riguardo a condotte ingiuriose e minacciose poste alla base del licenziamento, pacificamente contrarie alle basilari regole di una convivenza che voglia dirsi civile, sia con riferimento ai comportamenti puniti con le pregresse sanzioni conservative in quanto violativi di doveri fondamentali del lavoratore, rispetto ai quali lo stesso era posto certamente in grado di percepire l’illiceità disciplinare quali, ad esempio, l’obbligo di attenersi alle condizioni di vendita stabilite dall’azienda ovvero l’obbligo di assumere nei confronti della clientela atteggiamenti rispettosi; da quanto precede discende anche l’infondatezza del terzo motivo, atteso che la Corte territoriale non ha affatto omesso di pronunciarsi su di una censura concernente la mancata affissione del codice disciplinare, in quanto l’ha implicitamente, ma inequivocabilmente, respinta;
2.2. il quarto motivo è inammissibile in quanto attiene all’operatività del principio di non contestazione, riservato all’apprezzamento del giudice di merito; invero, nel vigore del novellato art. 115 c.p.c., a mente del quale la mancata contestazione specifica di circostanze di fatto produce l’effetto della relevatio ab onere probandi, spetta al giudice del merito apprezzare, nell’ambito del giudizio di fatto al medesimo riservato, l’esistenza ed il valore di una condotta di non contestazione dei fatti rilevanti, allegati dalla controparte (tra molte, Cass. n. 3680 del 2019 e Cass. n. 3126 del 2019; più di recente: Cass. n. 7997 del 2025); poiché tale apprezzamento esige l’interpretazione del contenuto e dell’ampiezza della domanda e delle deduzioni delle parti, ne deriva che l’accertamento della sussistenza di una contestazione ovvero d’una non contestazione risulta sindacabile in cassazione solo per difetto assoluto o apparenza di motivazione o per manifesta illogicità della stessa (da ultimo, Cass. n. 8175 del 2025; in conformità: Cass. n. 7597 del 2025; Cass. n. 6638 del 2025; in precedenza v. Cass. n. 27490 del 2019; Cass. n. 10182 del 2007);
2.3. il quinto e sesto motivo – che possono essere scrutinati in connessione, nonostante il successivo sia articolato subordinatamente al precedente – sono da respingere; si prospetta l’assunto che i comportamenti ingiuriosi e minacciosi posti a fondamento del recesso non sarebbero stati di tale gravità da giustificare il licenziamento, tanto che sarebbero stati punibili con sanzione conservativa; le censure sono infondate perché, nonostante la denuncia di violazione di legge, nella sostanza sono volte a contestare l’apprezzamento della gravità della condotta, che compete al giudice del merito; ancora di recente (Cass. n. 8642 e n. 27698 del 2024) è stato ribadito che, secondo un risalente e costante insegnamento, il giudizio di proporzionalità è devoluto al giudice di merito (ex pluribus: Cass. n. 8293 del 2012; Cass. n. 7948 del 2011; Cass. n. 24349 del 2006; Cass. n. 3944 del 2005; Cass. n. 444 del 2003); la valutazione in ordine alla suddetta proporzionalità, implicante inevitabilmente un apprezzamento dei fatti storici che hanno dato origine alla controversia, è ora sindacabile in sede di legittimità soltanto quando la motivazione della sentenza impugnata sul punto manchi del tutto, ovvero sia affetta da vizi giuridici consistenti nell’essere stata essa articolata su espressioni od argomenti tra loro inconciliabili, oppure perplessi ovvero manifestamente ed obiettivamente incomprensibili (in termini v. Cass. n. 14811 del 2020); inoltre, mediante un diverso giudizio sulla gravità della condotta, si invoca un sindacato sulla giusta causa di licenziamento al di fuori dei limiti posti dalla giurisprudenza di questa Corte (cfr. Cass. n. 18715 e 20817 del 2016; Cass. n. 4125 del 2017; Cass. n. 7305 del 2018; Cass. n. 1379 del 2019; Cass. 13534 del 2019; Cass. n. 13064 del 2022, alle quali tutte si rinvia, ai sensi dell’art. 118, comma 1, disp. att. c.p.c., per ogni ulteriore aspetto);
infatti: “L’attività di integrazione del precetto normativo di cui all’art. 2119 c.c. (norma cd. elastica), compiuta dal giudice di merito – ai fini della individuazione della giusta causa di licenziamento – non può essere censurata in sede di legittimità se non nei limiti di una valutazione di ragionevolezza del giudizio di sussunzione del fatto concreto, siccome accertato, nella norma generale, ed in virtù di una specifica denuncia di non coerenza del predetto giudizio rispetto agli standard, conformi ai valori dell’ordinamento, esistenti nella realtà sociale” (Cass. n. 13534 del 2019);
3. pertanto, il ricorso deve essere respinto nel suo complesso, con spese che seguono la soccombenza liquidate come da dispositivo; ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, della legge n. 228 del 2012, occorre altresì dare atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello, ove dovuto, per il ricorso, a norma del comma 1- bis dello stesso art. 13 (cfr. Cass. SS.UU. n. 4315 del 2020);
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese liquidate in euro 4.500,00, oltre euro 200,00 per esborsi, accessori secondo legge e rimborso spese generali al 15%.
Ai sensi dell’art. 13, co. 1 quater, d.P.R. n. 115 del 2002 dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello per il ricorso a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13, se dovuto.