CORTE di CASSAZIONE, sezione lavoro, Ordinanza n. 11586 depositata il 2 maggio 2025
Lavoro – Danno da demansionamento – Differenze retributive – Inquadramento spettante al lavoratore – Mansioni superiori – Indennità speciale – Onere della prova – Risarcimento del danno – Accoglimento
Rilevato che
1. la Corte di Appello di Roma, con sentenza pubblicata il 2 dicembre 2019, in riforma della pronuncia di primo grado, ha condannato l’I.V.R.C. Srl al pagamento in favore di G.M. della somma di euro 38.041,40, a titolo di differenze retributive, e della somma di euro 7.487,32, a titolo di danno da demansionamento, oltre accessori e spese di lite;
2. la Corte, in sintesi, ha premesso che, nelle more del giudizio di primo grado che aveva respinto il ricorso della G. e l’aveva condannata al pagamento di una somma pari ad euro 24.500,00 quale restituzione di una somma ricevuta in prestito, era intervenuta in data 12 maggio 2017 una transazione, “salva e impregiudicata la spettanza dell’ulteriore somma di euro 5.971,00 dovuta a saldo del prestito contratto dalla G.”;
3. esaminate le declaratorie di inquadramento secondo il CCNL per i dipendenti delle imprese edili e affini e valutato il compendio istruttorio, la Corte ha ritenuto che, quanto meno dal giugno del 2010 e fino alla revoca dell’incarico del 7 novembre 2014, le mansioni in fatto svolte dalla G. fossero riconducibili al 6° livello del CCNL quale responsabile di un cantiere di restauro in San Pietro, mentre “sicuramente non conferente era […] l’inquadramento nel 4° livello riconosciuto dall’azienda”, così come quello intermedio di 5° livello; riformulati i conteggi, la Corte ha determinato le differenze retributive dovute per il superiore inquadramento in complessivi euro 44.012,40, da cui andava “decurtata l’ulteriore somma di euro 5.971,00 dovuta quale quota residua per la restituzione del prestito (ed espressamente dichiarata nell’accordo transattivo come non oggetto di intervenuta compensazione)”;
4. circa le osservazioni formulate dalla ditta V. rispetto ai conteggi, secondo la sentenza impugnata “non s’appalesano meritevoli di apprezzamento, essendo esse del tutto generiche e oltretutto non formulate in prime cure con riferimento all’importo dell’indennità speciale ex art. 47 CCNL”, dovuta comunque al personale direttivo;
5. la Corte ha anche ritenuto accertato il demansionamento dal 7.11.2014, data in cui è stata nuovamente adibita alle mansioni di restauratrice di beni culturali, al 23.1.2015, “data delle rassegnate dimissioni per giusta causa, tanto da giustificare il diritto a conseguire anche l’indennità di preavviso”; circa il pregiudizio da demansionamento, la Corte lo ha determinato “equitativamente nella misura di un mezzo delle retribuzioni dovute nel periodo in questione” e quantificato in complessivi euro 7.487,32, “tenuto conto dell’ultimo stipendio di euro 2.994,93”;
6. per la cassazione di tale sentenza, ha proposto ricorso la soccombente società con nove motivi; non ha svolto attività difensiva l’intimata, nonostante la notificazione avvenuta in data 6 aprile 2020 tramite PEC; all’esito della camera di consiglio, il Collegio si è riservato il deposito dell’ordinanza nel termine di sessanta giorni;
Considerato che
1. i motivi di ricorso possono essere esposti secondo la sintesi offerta dalla stessa difesa della società ricorrente;
2.1. il primo motivo denuncia: “l’omessa valutazione da parte della Corte di Appello di un fatto del giudizio, oggetto di discussione tra le parti, rilevante al fine della decisione, ovvero che: nella sentenza di primo grado il credito dell’I.V. S.r.l. azionato in via riconvenzionale nei confronti della lavoratrice era stato riconosciuto nella misura di € 25.400,00, con condanna della lavoratrice in favore della V. al pagamento di tale importo, oltre interessi e rivalutazione”;
2.2. il secondo motivo denuncia: “la violazione e falsa applicazione dell’art. 2729 c.c. nella parte in cui la mancata contestazione del demansionamento da parte della lavoratrice per il periodo decorrente dal luglio 2014, data delle dimissioni dall’incarico di direttore tecnico, sino al novembre 2014, data di revoca dell’incarico di capo cantiere, periodo per il quale la ricorrente richiedeva l’inquadramento di VI livello, rivelasse e facesse presumere che la lavoratrice appartenesse al VI livello CCNL anche nel periodo precedente al luglio del 2014, con la falsa applicazione dell’art. 2729 c.c. per avere la Corte riconosciuto l’appartenenza della lavoratrice al VI Livello, sulla base di una presunzione fondata un fatto storico privo di gravità o di precisione o di concordanza ai fini della inferenza dal fatto noto della conseguenza ignota”;
2.3. il terzo motivo denuncia: “la violazione – falsa applicazione del CCNL Edilizia Piccola Industria art. 77 declaratoria delle aree, nonché la falsa applicazione di norme di diritto, art. 2103 c.c.
La Corte d’Appello non osservava il criterio “trifasico” di accertamento, ricognizione e valutazione per la determinazione dell’inquadramento del lavoratore.
Erroneamente sussumeva la fattispecie sulla base delle deposizioni testimoniali, nella declaratoria del VI livello CCNL Edilizia senza indagare se sulla base delle differenze tra le mansioni proprie del IV livello assegnato dalla V. ed il VI Livello riconosciuto dalla Corte di Appello, il lavoratore svolgesse attività riconducibili e compatibili con il IV livello con incarico di capo squadra art. 77 CCNL ultimo capoverso, oppure al VI Livello.
La Corte non identificava le mansioni svolte dalla lavoratrice attribuibili esclusivamente al VI Livello e la loro prevalenza rispetto a quelle caratteristiche del IV Livello”;
2.4. il quarto motivo denuncia: “la violazione – falsa applicazione del CCNL Edilizia art. 77 declaratoria delle aree per avere la Corte ritenuto che la ricorrente possedesse i requisiti e l’esperienza professionale di cui alla declaratoria del VI livello ed anche del V Livello CCNL”;
2.5. il quinto motivo denuncia: “la violazione – falsa applicazione del CCNL Edilizia art. 47, violazione – falsa applicazione di norme di diritto RDL 15/03/1923 n. 692 Art. 1 e R.D. 10/09/1923 N. 1955 art. 3, comma 2 per aver ritenuto la lavoratrice avente diritto all’indennità speciale in difetto dei requisiti di legge”;
2.6. il sesto motivo denuncia: “la violazione – falsa applicazione dell’art. 2697 c.c. per avere la Corte di Appello attribuito l’onere della prova ad una parte diversa da quella onerata e, quindi, all’ I.V., resistente in primo grado, dell’insussistenza del diritto della lavoratrice a percepire l’indennità speciale ex art. 47 CCNL, e non onere della lavoratrice la prova del fatto costitutivo del diritto rivendicato, ovvero il diritto di percepire l’indennità speciale, (attribuibile ai lavoratori in posizione direttiva che non partecipano all’attività manuale che non abbiamo il limite dell’orario di lavoro)”;
2.7. il settimo motivo denuncia: “la falsa applicazione di legge – artt. 1223, 1226, 2059 e 2729 c.c. per aver la Corte condannato la V. al risarcimento del danno per il demansionamento, in difetto di prova del danno, senza indicazione della Corte degli elementi di fatto rappresentati dalla lavoratrice al fine della presunzione del pregiudizio subito dalla stessa, senza indicare il nesso causale tra la condotta datoriale ed il danno, in presenza invece, di prova della V. della necessità di riorganizzazione aziendale per causa imputabile alla lavoratrice”;
2.8. l’ottavo motivo denuncia: “la nullità-inesistenza della decisione per la violazione dell’art 132 comma 2 n.4 c.p.c. avendo la Corte reso una motivazione perplessa ed incomprensibile nella parte in cui dapprima enunciava e poi disattendeva il criterio da adottarsi in via equitativa per la quantificazione del risarcimento del danno per il demansionamento”;
2.9. il nono motivo denuncia: “la nullità – inesistenza della decisione per avere la Corte condannato l’.V. s.r.l. al pagamento dell’indennità di mancato preavviso per giusta causa del recesso della lavoratrice ex art. 2118 c.c. senza motivare sull’idoneità della condotta della V. a costituire giusta causa del licenziamento ex art. 2118 c.c.”;
3. il ricorso è meritevole di accoglimento nei limiti definiti dalla motivazione che segue;
3.1. il primo motivo è fondato; la Corte territoriale ha omesso di considerare che nella lettera E) della transazione le parti precisavano che “dalla compensazione rimane, in ogni caso, esclusa la somma di euro 4.500,00 scaturente dalla differenza tra 24.500,00 liquidate in sentenza e 20.000,00 riconosciute dalla Sig.ra G. di cui alla sentenza del Tribunale di Roma per le quali pende appello”; l’omesso esame ha valore decisivo in quanto la Corte ha disposto la restituzione della somma di euro 5.971,00 senza tener conto che vi era un ulteriore importo di euro 4.500,00 rispetto al quale non vi era stata transazione ed era ancora sub iudice;
3.2. il secondo motivo, con cui si deduce la violazione dell’art. 2729 c.c., è inammissibile perché censura il ragionamento presuntivo operato dai giudici del merito al di fuori dei limiti posti al sindacato di questa Corte in materia; è noto che le presunzioni semplici costituiscono una prova completa alla quale il giudice di merito può attribuire rilevanza, anche in via esclusiva, ai fini della formazione del proprio convincimento, nell’esercizio del potere discrezionale, istituzionalmente demandatogli, di individuare le fonti di prova, controllarne l’attendibilità e la concludenza e, infine, scegliere, fra gli elementi probatori sottoposti al suo esame, quelli ritenuti più idonei a dimostrare i fatti costitutivi della domanda o dell’eccezione; spetta quindi al giudice del merito valutare l’opportunità di fare ricorso alle presunzioni, individuare i fatti certi da porre a fondamento del relativo processo logico, apprezzarne la rilevanza, l’attendibilità e la concludenza al fine di saggiarne l’attitudine, anche solo parziale o potenziale, a consentire inferenze logiche (cfr. Cass. n. 10847 del 2007; Cass. n. 24028 del 2009; Cass. n. 21961 del 2010) e compete sempre al giudice del merito procedere ad una valutazione complessiva di tutti gli elementi indiziari precedentemente selezionati ed accertare se essi siano concordanti e se la loro combinazione sia in grado di fornire una valida prova presuntiva tale da ingenerare il convincimento in ordine all’esistenza o, al contrario, all’inesistenza del fatto ignoto;
la delimitazione del campo affidato al dominio del giudice del merito consente innanzi tutto di escludere che chi ricorre in cassazione in questi casi possa limitarsi a lamentare che il singolo elemento indiziante sia stato male apprezzato dal giudice o che sia privo di per sé solo di valenza inferenziale o che comunque la valutazione complessiva non conduca necessariamente all’esito interpretativo raggiunto nei gradi inferiori (v., per tutte, Cass. n. 29781 del 2017);
essendo compito istituzionalmente demandato al giudice del merito selezionare gli elementi certi da cui “risalire” al fatto ignorato, i quali presentino una positività parziale o anche solo potenziale di efficacia probatoria, nonché l’apprezzamento circa l’idoneità degli elementi presuntivi a consentire illazioni che ne discendano secondo il criterio dell’íd quod plerumque accidit, l’esito dell’operazione si sottrae al controllo di legittimità (in termini, Cass. n. 16831 del 2003; Cass. n. 26022 del 2011; Cass. n. 12002 del 2017; Cass. n. 9054 del 2022), salvo che esso non si presenti intrinsecamente implausibile tanto da risultare meramente apparente; pertanto, chi censura un ragionamento presuntivo o il mancato utilizzo di esso non può limitarsi a prospettare l’ipotesi di un convincimento diverso da quello espresso dal giudice del merito, ma deve far emergere l’assoluta illogicità e contraddittorietà del ragionamento decisorio (in termini, Cass. n. 10847/2007 cit.; v. poi Cass. n. 1234 del 2019) e, nel vigore del novellato art. 360, co. 1, n. 5, c.p.c., l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione tra le parti, così come rigorosamente interpretato da Cass. SS.UU. nn. 8053 e 8054 del 2014 (cfr. Cass. n. 28772 del 2022; Cass. n. 20540 del 2023);
3.3. anche il terzo e il quarto motivo del gravame sono da respingere; a giudizio del Collegio, i giudici del merito non hanno affatto disatteso il consolidato orientamento, oramai stratificato nella giurisprudenza di legittimità (tra molte: Cass n. 30580 del 2019; Cass. n. 10961 del 2018; Cass. n. 21329 del 2017; Cass. n. 39 del 2016; Cass. n. 24544 del 2015; Cass. n. 18040 del 2015), secondo il quale l’accertamento del diritto all’inquadramento superiore avviene seguendo un procedimento logico-giuridico articolato in tre fasi successive: occorre accertare in fatto le attività concretamente svolte dal lavoratore, individuare poi la qualifica rivendicata e le mansioni alla stessa riconducibili secondo la disciplina dettata dalla contrattazione collettiva ed infine verificare che le prime corrispondano a queste ultime; in particolare, si è precisato che, ai fini della determinazione dell’inquadramento spettante al lavoratore alla stregua delle qualifiche previste dalla disciplina collettiva di diritto comune, al giudice del merito spetta dapprima identificare le qualifiche o categorie, interpretando le disposizioni collettive secondo i criteri di cui agli artt. 1362 ss. c.c.;
deve poi accertare le mansioni di fatto esercitate e deve infine confrontare le categorie o qualifiche così identificate con le mansioni svolte in concreto; mentre la prima operazione logica può essere censurata in sede di legittimità come violazione di legge per falsa o errata applicazione dei canoni ermeneutici anzidetti — ovvero, nel caso di contratti e accordi collettivi nazionali di lavoro, successivamente alla modifica dell’art. 360, c. 1, n. 3, c.p.c., operata dal d.lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, art. 2, anche per violazione o falsa applicazione di detta disciplina collettiva (ab imo Cass. n. 6335 del 2014) — le altre due operazioni logiche attengono ad apprezzamenti di fatto (ex pluribus, Cass. n. 17896 del 2007; Cass. n. 26233 del 2008; Cass. n. 26234 del 2008; più di recente: Cass. n. 22198 del 2024); si è poi evidenziato che l’osservanza del cd. criterio “trifasico” non richiede che il giudice si attenga pedissequamente alla ripetizione di una rigida e formalizzata sequenza delle azioni fissate dallo schema procedimentale, ove risulti che ciascuno dei momenti di accertamento, di ricognizione e di valutazione abbia trovato concreto ingresso nel ragionamento decisorio (tra molte: Cass. n. 18943 del 2016);
ciò posto, la parte ricorrente, più che evidenziare realmente l’errore di interpretazione che sarebbe stato commesso nell’ascrizione di significato alle declaratorie contrattuali, nella sostanza critica apprezzamenti di merito – compiuti dai giudici ai quali il merito compete – in ordine al possesso nella G. dei requisiti e dell’esperienza professionale postulati dai livelli rivendicati; si tratta di apprezzamenti i quali tengono conto delle circostanze del caso concreto, che evidentemente non possono essere oggetto di diversa considerazione in questa sede di legittimità, tanto più laddove si pretenda una diversa valutazione delle prove testimoniali;
3.4. il quinto e sesto motivo, da valutare congiuntamente perché reciprocamente connessi, sono fondati; la Corte territoriale attribuisce il diritto all’indennità speciale ex art. 47 CCNL Edilizia sulla base del mero riconoscimento dell’inquadramento nel 6° livello, senza verificare che l’istante appartenesse al personale “con funzioni direttive svolgente determinate mansioni […] escluso dalla limitazione dell’orario di lavoro”; invero, la disciplina contrattuale richiamata, che riconosce una “indennità speciale nella misura del venticinque per cento dello stipendio minimo mensile, dell’ex indennità di contingenza, del premio di produzione e dell’Elemento economico territoriale di cui all’art. 46″, richiede che si tratti di personale direttivo “preposto alla direzione tecnica o amministrativa dell’impresa o di un reparto di essa, con la diretta responsabilità dell’andamento dei servizi”, escluso da obblighi di osservanza di un orario di lavoro, in coerenza con le previsioni legislative di cui all’art. 3, comma 2, R.D. n. 1955 del 1923; competeva a chi la rivendicava l’onere di allegare e provare i fatti costitutivi della pretesa a detta indennità di fonte contrattuale, non potendo derivare dal solo riconoscimento della superiore qualifica né, tanto meno, dalla mera non contestazione di elaborati contabili;
3.5. parimenti fondato è il settimo motivo; l’assegnazione a mansioni inferiori pacificamente rappresenta fatto potenzialmente idoneo a produrre una pluralità di conseguenze dannose, sia di natura patrimoniale che di natura non patrimoniale, non legate esclusivamente alla lesione dell’integrità psico-fisica: innanzi tutto l’inadempimento datoriale può comportare un danno da perdita della professionalità di contenuto patrimoniale che può consistere sia nell’impoverimento della capacità professionale del lavoratore e nella mancata acquisizione di un maggior saper fare, sia nel pregiudizio subito per la perdita di chance, ossia di ulteriori possibilità di guadagno o di ulteriori potenzialità occupazionali (tra le tante v. Cass. n. 12253 del 2015); inoltre la modifica in peius delle mansioni è potenzialmente idonea a determinare un pregiudizio a beni di natura immateriale, anche ulteriori rispetto alla salute, atteso che, nella disciplina del rapporto di lavoro, numerose disposizioni assicurano una tutela rafforzata del lavoratore, con il riconoscimento di diritti oggetto di tutela costituzionale, con la configurabilità di una danno non patrimoniale risarcibile ogni qual volta vengano violati, superando il confine dei sacrifici tollerabili, diritti della persona del lavoratore oggetto di peculiare tutela al più alto livello delle fonti (cfr. Cass., SS.UU. nn. 26972, 26973, 26974, 26975 del 2008);
tuttavia è stato pure precisato che, fermi gli oneri di allegazione e di prova gravanti su chi denuncia di aver subito il pregiudizio, dall’inadempimento datoriale non deriva automaticamente l’esistenza di un danno, il quale non è immancabilmente ravvisabile solo in ragione della potenzialità lesiva dell’atto illegittimo (così Cass. SS.UU. n. 6572 del 2006);
pur essendo ammissibile desumere l’esistenza del danno, determinandone anche l’entità in via equitativa, con processo logico – giuridico attinente alla formazione della prova, anche presuntiva, in base agli elementi di fatto relativi alla qualità e quantità della esperienza lavorativa pregressa, al tipo di professionalità colpita, alla durata del demansionamento, all’esito finale della dequalificazione e alle altre circostanze del caso concreto (cfr., ex plurimis, Cass. n. 19778 del 2014; Cass. n. 4652 del 2009; Cass. n. 28274 del 2008; oltre che Cass. SS.UU. n. 6572 /2006), in ogni caso è necessario che il giudice del merito quanto meno indichi gli elementi attinenti alla vicenda fattuale in base ai quali ritenga provata l’esistenza del danno, onde scongiurare forme di risarcimento per lesione in re ipsa;
nella specie, invece, la sentenza impugnata si limita quantificare il risarcimento in una quota parte della retribuzione, richiamando un precedente di legittimità, ma in alcun modo individua circostanze del caso concreto sulla base delle quali è stato indotto il convincimento del Collegio giudicante circa la sussistenza di un danno alla professionalità per l’assegnazione alle mansioni originarie per un tempo di poco superiore a due mesi, di modo che la statuizione sul punto merita di essere cassata;
l’accoglimento del settimo motivo assorbe l’ottavo – con cui si contesta alla sentenza di aver attribuito una somma superiore a quella risultante dalla metà dello stipendio moltiplicato per il periodo oggetto di demansionamento – atteso che risulta conseguentemente caducata la quantificazione del danno da dequalificazione professionale;
3.6. anche il nono motivo è fondato; pur essendo la valutazione della idoneità della condotta di parte datoriale, sotto il profilo del demansionamento, a costituire giusta causa di dimissioni del lavoratore ex art. 2119 c.c. un accertamento di fatto (tra le altre: Cass. n. 29958 del 2017), tuttavia nella specie la sentenza impugnata non contiene alcuna argomentazione idonea a rendere chiaro il percorso logicogiuridico seguito per spiegare perché la modificazione delle mansioni nei termini accertati giustificasse senz’altro il recesso senza preavviso della lavoratrice;
4. pertanto, il ricorso – disattese le censure contenute nel secondo, nel terzo e nel quarto motivo e, quindi, lasciando fermo il riconoscimento delle spettanze dovute allo svolgimento di mansioni superiori – deve essere accolto nei sensi espressi dalla presente motivazione, con cassazione della sentenza impugnata e rinvio al giudice indicato in dispositivo, che si uniformerà a quanto statuito, provvedendo ad un rinnovato esame della controversia nei limiti delle censure ritenute fondate e liquidando anche le spese del giudizio di legittimità.
P.Q.M.
Accoglie il ricorso per quanto di ragione, cassa la sentenza impugnata in relazione alle censure ritenute fondate e rinvia alla Corte di Appello di Roma, in diversa composizione, anche per le spese.