CORTE di CASSAZIONE, sezione lavoro, ordinanza n. 13457 depositata il 15 maggio 2024
Lavoro – Licenziamento – Sottrazione di materiale di tenue valore – Divieto di appropriazione di oggetti – Contrattazione collettiva – Giusta causa – Giustificato motivo – Rigetto
Rilevato che
1. Con la sentenza indicata in epigrafe, la Corte d’appello di Napoli, in riforma della sentenza del Tribunale della medesima sede, ha accertato la legittimità del licenziamento intimato da P.I. s.p.a. a M.H. in data 29.11.2017 per appropriazione di un portafoglio prelevato dal nastro trasportatore cui era addetto il lavoratore.
2. La Corte territoriale – rilevato l’altissimo grado di affidamento della mansione svolta dal lavoratore, addetto alla cernita degli effetti postali depositati nelle buche di impostazione (sia perché il singolo operatore ha piena disponibilità dei beni sia perché, per il datore di lavoro, diventa obiettivamente complesso il riscontro ex post della correttezza dell’operato del dipendente) – ha ritenuto che il divieto di appropriarsi di beni dei quali si ha la disponibilità per ragioni di lavoro appartiene a quel minimum etico di ciascun cittadino, prima ancora che di ciascun lavoratore, e non può essere ignorato per il solo fatto della mancata predisposizione di un’analitica procedura per la riconsegna, non essendo risultato che la procedura di dismissione dei beni rinvenuti nelle cassette di impostazione prevedesse una assoluta discrezionalità degli addetti al nastro trasportatore; infine, la Corte ha sottolineato che il grave comportamento non risultava attenuato dal lieve valore venale del bene sottratto (per altro allegato dal lavoratore ma non dimostrato) né dalla tenuità dell’elemento soggettivo (non potendosi considerare dubbia la operatività del divieto di appropriazione di beni), dovendosi, pertanto, ritenere integrata la sanzione espulsiva prevista dall’art. 54, comma VI, lett. a) del CCNL applicato in azienda.
3. Avverso tale sentenza il lavoratore ha proposto ricorso per cassazione, affidato a due motivi. La società ha resistito con controricorso illustrato da memoria.
4. Al termine della camera di consiglio, il Collegio si è riservato il deposito dell’ordinanza nei successivi sessanta giorni.
Considerato che
1. Con il primo motivo di ricorso è dedotta, ai sensi dell’art. 360 cod.proc.civ., primo comma, n. 3, la violazione dell’art. 2119 cod.civ. per avere, la Corte territoriale, erroneamente valutato i dati fattuali accertati, avendo trascurato l’intensità dell’elemento intenzionale, il grado di affidamento richiesto dalle mansioni, le precedenti modalità di attuazione del rapporto, l’assenza di danno per la società; la società ha adottato solo successivamente all’evento una disposizione regolamentare aziendale tesa a disciplinare le procedure di gestione dei beni non postali; si trattava di oggetto “non postale”; il lavoratore non aveva mai ricevuto alcun provvedimento disciplinare; nessun danno aveva ricevuto la società.
2. Con il secondo motivo di ricorso è dedotta, ai sensi dell’art. 360 cod.proc.civ., primo comma, n. 3, la violazione e falsa applicazione degli artt. 1175, 1375, 2104, 2106, 2118, 2119 cod.civ., 3 della legge n. 604 del 1960, 7 della legge n. 300 del 1970, 53,54,56,80 lett. e) del CCNL personale non dirigente di P.I., per avere, la Corte territoriale, trascurato l’importanza del valore del bene, posto che il CCNL punisce con sanzione conservativa l’ipotesi di “sottrazione di materiale o beni strumentali di tenue valore“ (art. 54, capo II, lett. f); inoltre, gli oggetti provenienti dalle buche di impostazione non possono ritenersi “affidati” alla società poiché dette buche non sono funzionalmente finalizzate alla ricezione di detta tipologia di oggetti ma esclusivamente di oggetti postali; deve ritenersi evidente che tutte le ipotesi per le quali la contrattazione collettiva prevede la sanzione del licenziamento senza preavviso presuppongono la sussistenza dell’elemento soggettivo del dolo o quanto meno della colpa grave (come si evince dalla comparazione con l’art. 54, capo III, lett. n) che punisce con sanzione conservativa ”qualsiasi negligenza o inosservanza di leggi o regolamenti o degli obblighi di servizio deliberatamente commesse”).
3. Il primo motivo di ricorso è inammissibile.
3.1. Deve, in primo luogo, rimarcarsi che in tema di ricorso per cassazione, il vizio di violazione di legge consiste nella deduzione di un’erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata da una norma di legge e quindi implica necessariamente un problema interpretativo della stessa; viceversa, l’allegazione di un’erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa è esterna all’esatta interpretazione della norma di legge e inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, la cui censura è possibile, in sede di legittimità, sotto l’aspetto del vizio di motivazione. Il discrimine tra l’una e l’altra ipotesi – violazione di legge in senso proprio a causa dell’erronea ricognizione dell’astratta fattispecie normativa, ovvero erronea applicazione della legge in ragione della carente o contraddittoria ricostruzione della fattispecie concreta – è segnato dal fatto che solo quest’ultima censura, e non anche la prima, è mediata dalla contestata valutazione delle risultanze di causa (ex aliis: Cass. 16 luglio 2010 n. 16698; Cass. 26 marzo 2010 n. 7394).
3.2. Nella specie è evidente che il ricorrente lamenta la erronea applicazione della legge in ragione della carente o contraddittoria ricostruzione della fattispecie concreta, e dunque, in realtà, non denuncia un’erronea ricognizione della fattispecie astratta recata dalla norma di legge (ossia un problema interpretativo, vizio riconducibile all’art. 360, primo comma, n. 3, cod.proc.civ.) bensì un vizio-motivo, da valutare alla stregua del novellato art. 360, primo comma, n. 5 cod.proc.civ., che – nella versione ratione temporis applicabile- lo circoscrive all’omesso esame di un fatto storico decisivo (cfr. sul punto Cass. Sez. U. n. 19881 del 2014), riducendo al “minimo costituzionale” il sindacato di legittimità sulla motivazione (Cass. Sez. U. n. 8053 del 2014), censura non articolata dal ricorrente.
3.3. Invero, come questa Corte ha affermato, l’attività di integrazione del precetto normativo di cui all’art. 2119 c.c. compiuta dal giudice di merito – mediante la valorizzazione o di principi che la stessa disposizione richiama o di fattori esterni relativi alla coscienza generale ovvero di criteri desumibili dall’ordinamento generale, a cominciare dai principi costituzionali ma anche dalla disciplina particolare, collettiva appunto, in cui si colloca la fattispecie – “è sindacabile in Cassazione a condizione, però, che la contestazione del giudizio valutativo operato in sede di merito non si limiti ad una censura generica e meramente contrappositiva, ma contenga, invece, una specifica denuncia di non coerenza del predetto giudizio rispetto agli standards, conformi ai valori dell’ordinamento, esistenti nella realtà sociale (cfr. Cass. n. 13534 del 2019; nello stesso senso, Cass. n. 985 del 2017; Cass. n. 5095 del 2011; Cass. n. 9266 del 2005).
3.4. L’accertamento della concreta ricorrenza, nella fattispecie dedotta in giudizio, degli elementi che integrano il parametro normativo e sue specificazioni e della loro attitudine a costituire giusta causa di licenziamento opera sul diverso piano del giudizio di fatto, demandato al giudice di merito.
3.5. Solamente l’integrazione a livello generale e astratto della clausola generale si colloca sul piano normativo e consente una censura per violazione di legge; invece, l’applicazione in concreto del più specifico canone integrativo così ricostruito, rientra nella valutazione di fatto devoluta al giudice del merito, “ossia il fattuale riconoscimento della riconducibilità del caso concreto nella fattispecie generale e astratta”, spettando inevitabilmente al giudice di merito le connotazioni valutative dei fatti accertati nella loro materialità, nella misura necessaria ai fini della loro riconducibilità – in termini positivi o negativi – all’ipotesi normativa” (in termini Cass. n. 18247 del 2009 e Cass. n. 7838 del 2005).
3.6. La parte ricorrente, per ottenere la cassazione della sentenza impugnata sotto il profilo del vizio di sussunzione, non può limitarsi ad invocare una diversa combinazione dei parametri ovvero un diverso peso specifico di ciascuno di essi (perché in tal modo trasmoderebbe nella revisione dell’accertamento di fatto, di competenza del giudice di merito), ma deve piuttosto denunciare che la combinazione e il peso dei dati fattuali (gravità dei fatti addebitati, portata oggettiva e soggettiva dei medesimi, circostanze in cui sono state commessi, intensità dell’elemento intenzionale, etc.), così come definito dal giudice del merito, non consente comunque la riconduzione alla nozione legale di giusta causa di licenziamento (cfr. Cass. n. 18715 del 2016); il giudice di legittimità, invero, non può, “sostituirsi al giudice del merito nell’attività di riempimento dei concetti giuridici indeterminati … se non nei limiti di una valutazione di ragionevolezza“; “il sindacato di legittimità sulla ragionevolezza è, quindi, non relativo alla motivazione del fatto storico, ma alla sussunzione dell’ipotesi specifica nella norma generale, quale sua concretizzazione” (così Cass. SS.UU. n. 23287 del 2010); nessuna censura concernente la violazione degli standards conformi ai valori dell’ordinamento, è stata proposta, a fronte del richiamo espresso, da parte della Corte territoriale, del minimum etico integrato dal divieto di appropriarsi di beni altrui e della particolare affidabilità riposta dalla società negli addetti alla cernita degli oggetti depositati nelle buche postali.
3.7. Il giudice di appello ha ricostruito la condotta del lavoratore in tutti i suoi profili (soggettivo e oggettivo) evidenziandone la gravità in relazione alla natura del rapporto di lavoro e alla delicatezza delle mansioni di addetto alla cernita degli oggetti depositati nelle buche di importazione, sicché l’addebito mosso (corrispondente al contenuto del decreto di citazione nel giudizio penale del 19.9.2017, ossia appropriazione indebita, aggravata ed in continuazione con i reati di violazione, sottrazione e soppressione di corrispondenza, commessa da persona addetta al servizio delle poste) era tale da far venir meno la fiducia del datore di lavoro nell’operato del dipendente e da integrare l’art. 2119 cod.civ.
4. Il secondo motivo di ricorso è infondato.
4.1. Va rammentato che questa Corte (cfr. tra le tante Cass. n.12365 del 2019) ha più volte espresso il generale principio che le previsioni della contrattazione collettiva che graduano le sanzioni disciplinari non vincolano il giudice di merito, posto che la giusta causa e il giustificato motivo costituiscono una nozione legale, (ex plurimis, Cass. n. 8718 del 2017; Cass. n. 9223 del 2015; Cass. n. 13353 del 2011). Invero, anche se “la scala valoriale ivi recepita deve costituire uno dei parametri cui occorre fare riferimento per riempire di contenuto la clausola generale dell’art. 2119 c.c.” (Cass. n. 9396 del 2018; Cass. n. 28492 del 2018), considerato altresì che l’art. 30, comma 3, l. n. 183 del 2010, ha previsto che “nel valutare le motivazioni poste a base del licenziamento, il giudice tiene conto delle tipizzazioni di giusta causa e di giustificato motivo presenti nei contratti collettivi di lavoro” (cfr. Cass. n. 32500 del 2018; circa la natura non meramente ricognitiva delle disposizioni contenute nell’art. 30 della l. n. 183 del 2010 v. anche Cass. n. 25201 del 2016).
4.2. Ebbene, la Corte territoriale ha proceduto ad una verifica dell’art. 54, comma VI, lett. a) del CCNL applicato in azienda ed ha correttamente ritenuto che la previsione di una “condotta del lavoratore che faccia uso illecito ovvero manometta ovvero distragga o sottragga beni affidati alla società” delinea una fattispecie sussumibile nell’art. 2119 cod.civ. dovendosi considerare l’altissimo grado di affidamento che implica la mansione di smistamento e gestione di beni (altrui) affidati alla società, l’uso della generica espressione “beni” (in luogo di quella tecnica “effetti postali”, che “rimarca il disvalore disciplinare di qualunque condotta diretta ad un arbitrario mutamento della destinazione di tutto ciò che la utenza abbia inteso affidare al servizio postale”), la pertinenza al servizio postale di ciascun bene rinvenuto nelle cassette postali, il divieto di appropriarsi di qualunque oggetto (beni o corrispondenza, a prescindere dal valore, aspetto che non viene nemmeno considerato dalla clausola negoziale) con il quale il dipendente della società viene in contatto in ragione del proprio ufficio. Di diversa portata, non applicabile al caso di specie, è la previsione dell’art. 54, comma VI, lett. f) del medesimo CCNL, che – prevedendo una sanzione conservativa in caso di “sottrazione di materiale o beni strumentali di tenue valore” – fa chiaro riferimento alla sottrazione di oggetti utilizzati dal lavoratore per lo svolgimento dell’attività lavorativa (e, per tale caratteristica, definiti “strumentali” ossia funzionali ai compiti espletati).
5. In conclusione, il ricorso va rigettato e le spese di lite seguono il criterio della soccombenza dettato dall’art. 91 cod.proc.civ.
6. Sussistono le condizioni di cui all’art. 13, comma 1 quater, d.P.R.115 del 2002;
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità che si liquidano in Euro 200,00 per esborsi, nonchè in Euro 4.500,00 per compensi professionali, oltre spese generali al 15% ed accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, della legge 24 dicembre 2012, n. 228, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13, se dovuto.