CORTE di CASSAZIONE, sezione lavoro, ordinanza n. 15971 depositata il 7 giugno 2024

Lavoro – Revoca incarico dirigenziale – Pagamento emolumenti – Accoglimento parziale

Svolgimento del processo

C.G.G. ha sottoscritto il 28 febbraio 2003 con la Regione Calabria un contratto avente ad oggetto l’incarico di dirigente di settore della durata di tre anni.

La neoeletta Giunta regionale ha dichiarato decaduti, con delibera del 2 maggio 2005, tutti gli incarichi dirigenziali ai sensi dell’art. 50, comma 6, dello Statuto regionale.

C.G.G. ha adito il Tribunale di Catanzaro per impugnare la detta delibera e chiedere il pagamento delle somme equivalenti agli emolumenti a cui avrebbe avuto diritto se il contratto non fosse stato dichiarato illegittimamente risolto, detratto il minor importo percepito prestando servizio presso il CNEL.

Il Tribunale di Catanzaro, con sentenza del 20 dicembre 2007, ha rigettato il ricorso, ritenendo che il contratto in esame fosse assoggettato al c.d. s.s.

C.G.G. ha proposto appello che la Corte d’appello di Catanzaro, con sentenza n. 1264/10, ha in parte accolto, ritenendo illegittima la revoca dell’incarico in esame.

La Regione Calabria ha proposto ricorso per cassazione che la Corte di cassazione, con sentenza n. 25688/15 ha accolto, ravvisando un insanabile contrasto fra dispositivo e motivazione.

La Corte d’appello di Catanzaro ha, quindi, riesaminato la questione e, con sentenza n. 2377/17, ha rigettato l’originario ricorso.

C.G.G. ha proposto ricorso per cassazione sulla base di tre motivi.

La Regione Calabria si è difesa con controricorso.

La Procura Generale presso la Corte di cassazione, in persona del PG Mario Fresa, ha depositato requisitoria scritta, sostenendo l’infondatezza dei primi due motivi e l’inammissibilità del terzo.

La ricorrente e la Regione Calabria hanno depositato memoria.

Motivi della decisione

1) In primo luogo, vanno respinte le eccezioni di inammissibilità sollevate dalla parte controricorrente.

Dall’esame degli atti risulta che sia presente l’attestazione di conformità all’originale della copia scansionata della procura notificata. Inoltre, priva di pregio è la contestazione concernente la non autosufficienza del ricorso, atteso che il contenuto dei documenti rilevanti risulta dalla stessa sentenza impugnata.

Infine, si rileva che la ricorrente chiede, dal suo punto di vista, la corretta applicazione alla fattispecie dell’attuale giurisprudenza della Corte di cassazione.

2) Con il primo motivo la ricorrente lamenta la violazione degli artt. 112 e 394 c.p.c. in quanto la corte territoriale avrebbe posto a fondamento della sua 
decisione dei motivi non proposti dalla Regione Calabria nei gradi precedenti.

La corte territoriale avrebbe illegittimamente omesso di pronunciarsi sul motivo accolto e avrebbe errato nel ritenere il contratto in esame nullo, nonostante detta nullità non fosse mai stata dedotta dalla Regione Calabria nei gradi precedenti.

In particolare, il giudizio di appello avrebbe avuto ad oggetto solo la sua equiparazione o meno a dirigente generale, nonostante essa fosse formalmente un dirigente di settore.

La doglianza è infondata.

Indubbiamente, la riassunzione della causa – a seguito di cassazione della sentenza – dinanzi al giudice di rinvio instaura un processo chiuso, nel quale è preclusa alle parti, tra l’altro, ogni possibilità di presentare nuove domande, eccezioni, nonché conclusioni diverse, salvo che queste, intese nell’ampio senso di qualsiasi attività assertiva o probatoria, siano rese necessarie da statuizioni della sentenza della Corte di cassazione.

Conseguentemente, nel giudizio di rinvio non possono essere proposti dalle parti, né presi in esame dal giudice, motivi di impugnazione differenti da quelli che erano stati formulati nel giudizio di appello conclusosi con la sentenza cassata e che continuano a delimitare, da un lato, l’effetto devolutivo dello stesso gravame e, dall’altro, la formazione del giudicato interno (Cass., Sez. 2, n. 5137 del 21 febbraio 2019).

In pratica, la Corte d’appello di Catanzaro, in seguito alla cassazione della sua prima sentenza, era venuta a trovarsi nella stessa posizione nella quale era stata al momento del primo appello dell’attuale ricorrente, come si evince dal disposto dell’art. 394 c.p.c., il quale, ai commi 2 e 3, stabilisce chiaramente che “Le parti conservano la stessa posizione processuale che avevano nel procedimento in cui fu pronunciata la sentenza cassata.

Nel giudizio di rinvio può deferirsi il giuramento decisorio, ma le parti non possono prendere conclusioni diverse da quelle prese nel giudizio nel quale fu pronunciata la sentenza cassata, salvo che la necessità delle nuove conclusioni sorga dalla sentenza di cassazione”.

Occorre tenere conto, però, dell’orientamento per il quale, in presenza di certi presupposti, il giudice di appello può rilevare d’ufficio la nullità di un contratto anche se non eccepita dalle parti.

In particolare, la giurisprudenza di legittimità ha chiarito che le nullità negoziali che non siano state rilevate d’ufficio in primo grado sono suscettibili di tale rilievo in grado di appello o in cassazione, a condizione che i relativi fatti costitutivi siano stati ritualmente allegati dalle parti (Cass., Sez. 3, n. 20713 del 17 luglio 2023).

Nella specie, come si evince anche dal ricorso, oggetto del contendere era la richiesta della lavoratrice volta a ottenere il pagamento delle somme equivalenti agli emolumenti a cui avrebbe avuto diritto se il contratto non fosse stato dichiarato illegittimamente risolto.

Essa stessa ha precisato che il giudizio di appello avrebbe avuto ad oggetto la sua equiparazione o meno a dirigente generale, nonostante essa fosse formalmente un dirigente di settore.

Peraltro, proprio tale equiparazione, ove ritenuta dal giudice del merito, era idonea, in teoria, a rendere possibile un sindacato sulla validità dell’atto di conferimento dell’incarico che, a sua volta, avrebbe potuto incidere sull’accertamento dell’esistenza dei presupposti del diritto di credito vantato dalla dipendente, in ordine alla quale non si era ancora formato un giudicato.

Pertanto, deve ritenersi che fossero state allegate dalle parti (e dalla ricorrente, nello specifico) le circostanze di fatto in presenza delle quali era consentito alla Corte d’appello di Catanzaro di valutare la nullità poi dalla stessa accertata, senza violare gli artt. 112 e 394 c.p.c.

3) Con il secondo motivo la ricorrente lamenta la violazione degli artt. 384, 392 e 394 c.p.c. e l’omessa pronuncia della corte territoriale in ordine al quantum del danno in conseguenza dell’“insanabile contrasto fra il dispositivo letto in udienza, all’esito della camera di consiglio del 28.10.2010, e la motivazione depositata il 16.11.2010”.

Essa sostiene che la Corte d’appello di Catanzaro non si sarebbe uniformata a quanto statuito dalla Corte di cassazione perché quest’ultima avrebbe cassato la sentenza di appello per contrasto fra dispositivo e motivazione in ordine alla spettanza e quantificazione dell’indennità di risultato.

Ne sarebbe derivato che la parte della sentenza cassata concernente la spettanza della retribuzione di posizione non percepita a seguito della risoluzione illegittima dell’incarico dirigenziale e l’illegittimità della cessazione anticipata dal ruolo non apicale di dirigente di settore non avrebbero più dovuto essere messe in discussione.

Infatti, la domanda relativa alla retribuzione di posizione era autonoma rispetto a quella concernente l’indennità di risultato, mentre la questione dell’illegittimità della cessazione anticipata dal ruolo non apicale rappresentava un antecedente logico giuridico necessario.

La doglianza è infondata.

La sentenza n. 25688/15 della Corte di cassazione ha cassato la prima sentenza della Corte d’appello di Catanzaro perché questa, nel dispositivo letto in udienza, aveva condannato la Regione Calabria al pagamento, in favore dell’appellante, “per il titolo in motivazione, della somma di € 48.233,64, oltre interessi dalie singole scadenze fino al soddisfo ed alla regolarizzazione della sua posizione contributiva; rigetta le ulteriori domande dell’appellante”; al contrario, la motivazione della detta sentenza, “alle pagine 9 e 10, oltre a riconoscere il diritto della G. alle differenze retributive, quantificate in € 48.233,64, ritiene fondata anche la domanda di risarcimento del danno da perdita di chance, limitatamente alla mancata percezione della indennità di risultato, e liquida a detto titolo l’ulteriore somma di € 40.000,00”.

La decisione n. 25688/15 ha espressamente affermato che “La motivazione della sentenza impugnata, quindi, nel riconoscere oltre alle differenze retributive anche l’ulteriore importo di € 40.000,00, si pone in insanabile contrasto con il dispositivo, che aveva respinto le ulteriori richieste risarcitorie nella loro interezza”, fra cui quella concernente la retribuzione di risultato.

Al riguardo, la giurisprudenza (Cass., Sez. L, n. 5550 del 1° marzo 2021) ha chiarito che l’effetto espansivo interno derivante dalla riforma o cassazione parziale della sentenza, previsto dall’art. 336, comma 1, c.p.c., trova applicazione rispetto ai capi della pronunzia non impugnati autonomamente, ma necessariamente dipendenti da altro capo impugnato, ivi compresi quei capi che abbiano formato oggetto di impugnazione separata quando questa sia stata rigettata, non potendo il nesso di pregiudizialità-dipendenza tra gli uni e gli altri essere escluso dalla eventuale decisione sfavorevole sul gravame che abbia riguardato i capi dipendenti.

In particolare, si è affermato che, in ipotesi di cassazione con rinvio per violazione di norme di diritto, il giudice del rinvio deve uniformarsi non solo alla “regola” giuridica enunciata, ma anche alle premesse logico-giuridiche della decisione, e attenersi agli accertamenti già compresi nell’ambito di tale enunciazione, senza potere estendere la propria indagine a questioni che, pur se in ipotesi non esaminate nel giudizio di legittimità, costituiscono il presupposto stesso della pronuncia, formando oggetto di giudicato implicito interno, atteso che il riesame delle suddette questioni verrebbe a porre nel nulla o a limitare gli effetti della sentenza, in contrasto col principio di intangibilità della stessa (Cass., Sez. 1, n. 7091 del 3 marzo 2022).

D’altronde, l’art. 384, comma 2, prima parte, dispone chiaramente che “La Corte, quando accoglie il ricorso, cassa la sentenza rinviando la causa ad altro giudice, il quale deve uniformarsi al principio di diritto e comunque a quanto statuito dalla Corte (…)”.

Ciò posto, si rileva che, in effetti, la cassazione della prima sentenza della Corte d’appello di Catanzaro, avvenuta sul presupposto che nella sua motivazione era stata riconosciuta alla ricorrente la retribuzione di risultato, non aveva riguardato le parti della stessa sentenza che avevano accertato l’illegittimità della revoca e la spettanza delle retribuzioni non corrisposte.

Da questo, non può ricavarsi, però, che la corte territoriale avrebbe dovuto limitare solo al profilo del compenso di risultato la sua cognizione.
Infatti, dalla decisione della Corte di cassazione n. 25688/15 si evince che il secondo motivo di ricorso della Regione Calabria è stato dichiarato assorbito e che la stessa ricorrente, nella presente sede, ha riferito che, con tale motivo, la prima sentenza della Corte d’appello di Catanzaro era stata censurata per non avere equiparato la posizione della lavoratrice a quella di dirigente generale, pur essendo formalmente dirigente di settore. Pertanto, deve affermarsi che, sull’oggetto del contratto in questione, ossia se con esso fosse stato attribuito o meno un incarico di dirigente generale, non si era formato alcun giudicato.

4) Con il terzo motivo la ricorrente contesta la violazione e falsa applicazione dell’art. 1, comma 15, della legge Regione Calabria n. 14 del 2000, che aveva sostituito l’art. 25, comma 7, della legge Regione Calabria n. 7 del 1996, che consentiva la revoca dell’incarico solo per i dirigenti generali. Infatti, la corte territoriale avrebbe errato nell’affermare che essa fosse una dirigente generale, atteso che essa sarebbe stata sempre sottoposta al dirigente di dipartimento quale dirigente generale.

Il suo incarico sarebbe rientrato nell’ambito di applicazione dell’art. 10, comma 4, della legge Regione Calabria n. 31 del 2002 e non sarebbe stato qualificabile come “funzione dirigenziale non generale” in quanto conferito a soggetto non appartenente al ruolo dei dirigenti regionali. I provvedimenti che l’avrebbero riguardata le avrebbero conferito l’incarico di dirigente di settore e la legge Regione Calabria n. 7 del 1996 avrebbe qualificato come dirigente generale solo quello preposto al dipartimento e non al settore.

Sarebbe stato irrilevante, quindi, il fatto che il suo incarico fosse stato conferito dal Presidente della Giunta regionale atteso che essa sarebbe stata formalmente Dirigente del Settore “Programmazione e Sviluppo Economico – Interventi Comunitari presso il Dipartimento n. 3, con la conseguenza che sarebbe stata subordinata al Dirigente Generale del Dipartimento di riferimento.

L’attribuzione dei poteri indicati dall’art. 16, comma 1, d.lgs. n. 165 del 2001 si sarebbe dovuto spiegare con la necessità di assicurare tempestività, efficacia e regolarità alle attività che già stava espletando.

La stessa legge Regione Calabria n. 7 del 1996 agli artt. 2 e 3 avrebbe ripartito le strutture amministrative della Regione in 15 Dipartimenti, affidati ai dirigenti generali, a loro volta distinti in 51 settori, poi suddivisi in servizi e, all’art. 22, avrebbe qualificato i dirigenti preposti ai Dipartimenti come dirigenti generali.

Essa non avrebbe mai preso parte alla determinazione dell’indirizzo politico della Regione Calabria.

Da ciò sarebbe derivata la validità del suo contratto, non essendone stata mai dedotta la nullità. Infine, non avrebbe avuto alcun rilievo la previsione contrattuale che ne prevedeva la libera revocabilità, in quanto la durata minima dei contratti non poteva essere, comunque, inferiore a tre anni.

In particolare, il detto contratto avrebbe previsto la possibilità di risoluzione del rapporto solo in presenza di oggettive e ragionevoli motivazioni, da comunicarsi con almeno sei mesi di anticipo, o in caso di mancato rispetto degli indirizzi e degli obiettivi prefissati o di esito negativo dell’attività svolta, accertato dall’apposito Nucleo di valutazione interno, tutte circostanze non verificatesi.

La censura è fondata.

La giurisprudenza di legittimità ha già chiarito che, in materia di dirigenti nell’impiego pubblico regionale, il capo dipartimento della Regione Calabria, avendo la funzione di organizzare, coordinare e dirigere l’ufficio secondo le direttive generali degli organi di direzione politica che assiste, svolge un incarico rispetto al quale opera il sistema di c.d. s.s., rientrando esso negli incarichi dirigenziali apicali che non attengono ad una semplice attività di gestione, ed essendo invece rapportabile alla direzione di strutture articolate al loro interno in uffici dirigenziali generali (Cass., Sez. L, n. 2510 del 31 gennaio 2017).

L’art. 22, comma 2, della legge Regione Calabria n. 7 del 1996 dispone espressamente che “I Dirigenti preposti ai Dipartimenti svolgono le funzioni di Dirigente Generale ed assumono tale denominazione”.

Da quanto sopra si ricava che i dirigenti apicali ai quali si applica la normativa sullo s.s. nella Regione Calabria sono i dirigenti preposti ai dipartimenti.

Nella specie, è accertato che la ricorrente era formalmente un dirigente di settore, ma la corte territoriale ha ritenuto di equipararla ai dirigenti di dipartimento sul presupposto che fosse stata nominata senza alcuna preventiva selezione e che le fossero stati attribuiti contrattualmente i poteri propri dei dirigenti statali di livello generale “al fine di assicurare tempestività, efficacia e regolarità alle attività di carattere programmatico, amministrativo e di coordinamento afferenti la programmazione, lo sviluppo economico, gli interventi comunitari e il coordinamento delle attività connesse alle funzioni quale autorità di gestione dei fondi strutturali”.

Questa ricostruzione, però, non è condivisibile.

La circostanza che il contratto richiamasse l’art. 16, comma 1, d.lgs. n. 165 del 2001, il quale individua le funzioni dei dirigenti di uffici dirigenziali generali statali, non è dirimente in quanto il presupposto dell’applicazione dello s.s. è il carattere apicale del dirigente interessato e, nella specie, la corte territoriale non ha tenuto conto che, essendo la ricorrente formalmente un dirigente di settore, essa era, sempre formalmente, sottoposta al competente dirigente di dipartimento.

Un’equiparazione della posizione della ricorrente a quella di un dirigente generale avrebbe imposto, piuttosto, alla Corte d’appello di Catanzaro di compiere un particolare accertamento che, nella specie, è del tutto mancato.

Per superare il dato formale, dal quale, comunque, occorre partire, la corte territoriale avrebbe dovuto, infatti, verificare non tanto se la dirigente avesse in concreto i poteri propri dell’apicale, ma, soprattutto, se essa fosse stata posta a capo di una struttura che, da un punto di vista organizzativo, avesse le stesse caratteristiche di un Dipartimento, in modo da distinguersi, per la sua totale autonomia, dai Dipartimenti ufficialmente esistenti e da aggiungersi ad essi.

Solo a queste condizioni i poteri eventualmente assegnati alla ricorrente avrebbero potuto condurre ad una sua equiparazione a un dirigente apicale.
Pure la nomina fiduciaria ad opera del Presidente della Giunta regionale ha un’importanza relativa, atteso che l’art. 4 della legge Regione Calabria n. 39 del 2002, vigente quando è stato concluso il contratto oggetto di causa, prevedeva 
che:

“1. Il comma 4, dell’art. 10 della L.R. 7 agosto 2002 n. 31 è così sostituito:10102002 Supplemento straordinario n. 4 al B. U. della Regione Calabria Parti I e II n. 18 dell’1 ottobre 2002 16056

«4. Il Presidente della Giunta regionale può conferire incarichi in funzione dirigenziale di settore e/o in funzione dirigenziale generale, previa delibera di Giunta proposta dall’Assessore al personale, entro il limite complessivo del 10 per cento della dotazione organica dei dirigenti della Regione.
4.bis Tutti i predetti incarichi possono essere conferiti a persone di particolare e comprovata qualificazione professionale in possesso dei requisiti stabiliti dall’art. 19, comma 6, del D.Lgs. 30 marzo 2001 n. 165, così come modificato dalla Legge 15 luglio 2002, n. 145».

Pertanto, il conferimento diretto di incarichi dirigenziali ad opera del Presidente della Giunta regionale poteva riguardare sia i dirigenti di settore sia quelli generali.

Assolutamente privo di pregio è il riferimento, contenuto in sentenza, alla previsione dell’applicazione dell’art. 1, comma 15, della legge Regione Calabria n. 14 del 2000, che prevedeva la libera revocabilità dell’incarico di dirigente generale.

Questa disposizione, in effetti, prescriveva che: “15. Il comma 7 dell’Art. 25 della legge regionale 13 maggio 1996, n. 7, è così sostituito:

“7. Gli incarichi di dirigente generale e di direzione dell’avvocatura sono di natura fiduciaria e possono essere revocati dalla Giunta regionale.

I dirigenti generali provenienti dal ruolo della Giunta regionale e revocati dall’incarico sono utilizzati, fino alla naturale scadenza del relativo contratto individuale di conferimento di dette funzioni, anche per compiti ispettivi, di consulenza, studio o altri specifici incarichi, fermo restando il trattamento economico contrattualmente pattuito, ad eccezione dell’ulteriore indennità prevista nell’ultima parte del precedente quarto comma”.

Essa, però, era applicabile sul presupposto che l’incarico conferito alla ricorrente fosse quello di dirigente di dipartimento, il che non risulta dal suo contratto.
Inoltre, la corte territoriale non ha considerato che il detto contratto contiene all’art. 4 già una specifica disciplina delle ipotesi nelle quali l’incarico della ricorrente avrebbe potuto essere risolto.

5) Il ricorso è accolto quanto al terzo motivo, rigettati il primo e il secondo.

La sentenza impugnata è cassata con rinvio alla corte d’appello di Catanzaro, in diversa composizione, la quale deciderà la causa nel merito, anche in ordine alle spese di legittimità, applicando i seguenti principi di diritto:

Ai fini dell’applicazione della normativa sul c.d. s.s., la natura apicale dell’incarico conferito con contratto a un dirigente va valutata tenendo conto, in linea di principio, della qualificazione formale di tale incarico contenuta nel contratto medesimo, senza che rilevi di per sé il semplice richiamo dell’art. 16, comma 1, d.lgs. n. 165 del 2001, il quale individua le funzioni dei dirigenti di uffici dirigenziali generali statali, pur se in astratto incompatibile con la menzionata qualificazione.

Per superare il dato formale, dal quale, comunque, occorre partire, è necessario verificare non tanto i poteri attribuiti al detto dirigente in concreto, ma se egli sia stato posto a capo di una struttura che, da un punto di vista organizzativo, abbia le stesse caratteristiche di un ufficio apicale, in modo da distinguersi e aggiungersi, per la sua totale autonomia, a quelli già esistenti”.

P.Q.M.

– Accoglie il terzo motivo di ricorso, rigettati il primo e il secondo;

– cassa la sentenza impugnata con rinvio alla Corte d’appello di Catanzaro, in diversa composizione, la quale deciderà la causa nel merito anche in ordine alle spese di legittimità.