CORTE di CASSAZIONE, sezione lavoro, ordinanza n. 17470 depositata il 25 giugno 2024

Licenziamento – Licenziamento collettivo – Trasferimento d’azienda – Raccomandata di impugnazione stragiudiziale – Avviso di ricevimento – Impugnazione nei termini di decadenza – Tentativo di conciliazione – Risarcimento danno – Rigetto

Rilevato che

1.- C.S. era stato dipendente di C. spa fino a quando era stato licenziato (per soppressione della sua posizione lavorativa) all’esito di una procedura di licenziamento collettivo iniziata con comunicazione del 03/10/2014.

Aveva impugnato il licenziamento con lettera raccomandata del 17/12/2014 ed aveva esperito il tentativo di conciliazione in data 15/06/2015.

A C. spa era poi subentrata A. spa. Deduceva l’illegittimità del licenziamento perché avvenuto senza comparazione con alcun altro dipendente, nonostante egli avesse 25 anni di anzianità di servizio, fosse monoreddito e con moglie e due figli a carico.

Lamentava altresì la violazione dei criteri di scelta previsti dall’art. 5 L. n. 223/1991, nonché dell’art. 4, co. 9, L. n. 223 cit. per tardività e genericità della comunicazione relativa alle modalità applicative dei criteri di scelta.

Pertanto adìva il Tribunale di Civitavecchia per ottenere la declaratoria di illegittimità del licenziamento per motivo illecito con conseguente tutela ai sensi dell’art. 18, co. 1, L. n. 300/1970 o, in subordine, co. 4, l’ordine di reintegrazione nel posto di lavoro e la condanna al risarcimento del danno pari a tutte le retribuzioni medio tempore maturate; in ulteriore subordine la condanna al risarcimento del danno nella misura massima di 24 mensilità.

2.- Instauratosi il contraddittorio, il Tribunale all’esito della fase c.d. sommaria, dichiarava inammissibile il ricorso, evidenziando che la raccomandata di impugnazione stragiudiziale del licenziamento, indirizzata a C. spa, era datata 15/12/2014 e risultava spedita il 18/12/2014, ma non ne era stato prodotto l’avviso di ricevimento, sicché non era nota la data di ricevimento, mentre il ricorso giudiziario era stato depositato in data 03/09/2015 e quindi successivamente al decorso del termine di decadenza di 180 giorni di cui all’art. 6, co. 2, L. n. 604/1966.

Aggiungeva che nessuna efficacia interruttiva (rectius impeditiva) della decadenza poteva essere riconosciuto al tentativo di conciliazione, in quanto promosso esclusivamente nei confronti di A., ossia di società diversa dal datore di lavoro che aveva intimato il licenziamento.

3.- All’esito della fase c.d. a cognizione piena il Tribunale rigettava l’opposizione del lavoratore sulla base di una diversa motivazione: a prescindere dalla possibile sospensione (rectius impedimento) del termine di decadenza ad opera del tentativo di conciliazione nei confronti della cessionaria, non vi era la prova che quest’ultima avesse ricevuto la raccomandata contenente l’istanza di conciliazione.

4.- La Corte d’appello rigettava il reclamo del lavoratore, evidenziando la tardività e l’inammissibilità della produzione dell’avviso di ricevimento (del 16/06/2015) della raccomandata – indirizzata ad A. spa –relativa al tentativo di conciliazione del 15/06/2015, che dimostrava l’avvenuto ricevimento di quella raccomandata, non avendo il lavoratore dedotto alcuna ragione che potesse giustificare il tardivo deposito di quel documento.

5.- Con sentenza n. 401/2023 questa Corte cassava la sentenza di secondo grado, evidenziando la mancanza di qualunque motivazione circa l’indispensabilità del documento prodotto per la prima volta in sede di reclamo ed affermando il seguente principio di diritto: “Prova nuova indispensabile, anche ai dell’art. 1, comma 59, legge n. 92 del 2012, è quella di per sé idonea ad eliminare ogni possibile incertezza circa la ricostruzione fattuale accolta dalla pronuncia gravata, smentendola o confermandola senza lasciare margini di dubbio oppure provando quel che era rimasto non dimostrato o non sufficientemente dimostrato, a prescindere dal rilievo che la parte interessata sia incorsa, per propria negligenza o per altra causa, nelle preclusioni istruttorie del primo grado”.

6.- Riassunto il giudizio dallo S., instauratosi il contraddittorio, con la sentenza indicata in epigrafe la Corte territoriale, quale giudice di rinvio, rigettava la domanda del lavoratore di cui al ricorso originario (depositato in data 04/09/2015).

Per quanto ancora rileva in questa sede, a sostegno della sua decisione la Corte territoriale affermava:

a) il Tribunale aveva omesso ogni considerazione circa la possibile validità, ai fini della sospensione del termine di decadenza, del tentativo di conciliazione proposto nei confronti della sola cessionaria;

b) neppure la sentenza di reclamo, poi cassata, ha affrontato tale questione, avendo “a monte” evidenziato che comunque mancava la prova che l’istanza di conciliazione fosse stata presentata nei confronti della cessionaria;

c) a seguito della pronunzia della Corte di Cassazione, deve ritenersi che vi sia la prova della proposizione dell’istanza di conciliazione nei confronti della cessionaria, ma resta impregiudicata la questione relativa all’idoneità di tale istanza ad impedire una decadenza;

d) la decadenza non è impedita, in quanto la predetta istanza non è stata presentata anche nei confronti di C. spa, cedente l’azienda, che aveva intimato il licenziamento;

e) trattasi di un’eccezione che C. aveva sollevato nei precedenti giudizi di merito ed ha riproposto in questa sede;

f) a tal proposito la Corte di Cassazione, con sentenza n. 404/2023, ha precisato che qualora l’effetto risolutivo del rapporto di lavoro si sia realizzato prima della cessione d’azienda, non può operare il principio della continuazione del rapporto di lavoro con il cessionario ai sensi dell’art. 2112 c.c., poiché alla data della cessione il rapporto è già estinto;

g) solo in caso di declaratoria di illegittimità del licenziamento e di suo annullamento, con effetto ex tunc, il rapporto si ricostituisce fra le parti originarie (lavoratore e cedente) e quindi di trasferisce al cessionario ex art. 2112 c.c.;

h) ai fini del ripristino del rapporto di lavoro ex tunc è dunque necessario che la decadenza non sia maturata in favore del datore di lavoro che lo ha disposto (cedente), perché l’accertamento dell’illegittimità del licenziamento, disposto dal cedente, è il presupposto necessario rispetto all’accertamento del trasferimento d’azienda, sicché vi è l’onere di impugnazione nei termini di decadenza previsti dall’art. 6 L. n. 604/1966 come modificato dalla legge n. 92/2012 (Cass. n. 8039/2022);

i) in questo sistema la fase dell’impugnazione stragiudiziale è legata a quella dell’impugnazione giudiziale, sicché è conforme a diritto la sentenza di primo grado, che ha dichiarato intervenuta la decadenza per non aver il lavoratore proposto il tentativo di conciliazione, né depositato il ricorso giudiziario, nei termini nei confronti di chi aveva intimato il licenziamento, ossia quella che poi sarebbe stata la cedente l’azienda.

7.- Avverso tale sentenza S.C. ha proposto ricorso per cassazione, affidato a due motivi.

8.- Compagnia Aerea Italiana spa ha resistito con controricorso.

9.- A. spa in a.s. è rimasta intimata.

10.- La società controricorrente ha depositato memoria.

11.- Il Collegio si è riservata la motivazione nei termini di legge.

Considerato che

1.- Con il primo motivo, proposto ai sensi dell’art. 360, co. 1, nn. 3) e/o 4), c.p.c. il ricorrente lamenta “violazione e falsa applicazione” dell’art. 2909 c.c. per avere la Corte territoriale omesso di rilevare il giudicato interno formatosi sulla statuizione della prima sentenza di reclamo, con cui quei giudici avevano affermato che correttamente il tentativo di conciliazione era stato promosso nei confronti di A. spa, cessionaria dall’01/01/2015 del ramo d’azienda al quale egli era addetto, e dunque era atto idoneo ad impedire la decadenza.

Il motivo è infondato.

Il giudicato investe i fatti costitutivi, oppure i fatti impeditivi, modificativi o estintivi della pretesa fatta valere. Dunque esso deve concernere un capo idoneo a costituire oggetto anche di una pronunzia autonoma.

Nel caso di specie il fatto impeditivo era rappresentato dall’eccezione di decadenza, che, attraverso le impugnazioni proposte dal lavoratore, è rimasto controverso – sia pure con variegate motivazioni – fino al presente giudizio di legittimità. In particolare, i giudici del primo reclamo non si sono affatto posti la questione dell’idoneità del tentativo di conciliazione (promosso solo nei confronti della cessionaria) ad impedire la decadenza, per la semplice ed assorbente ragione per cui non vi era prova che la raccomandata, con cui quel tentativo era stato proposto, fosse stata ricevuta dalla destinataria.

Tale ragione, già affermata dal giudice di primo grado all’esito della fase di opposizione, è stata confermata in ragione della ritenuta tardività e, quindi, inammissibilità della produzione dell’avviso di ricevimento (rectius del suo retro) per la prima volta in secondo grado.

Una volta che la ragione di tale conferma è stata cassata da questa Corte, i giudici del rinvio, a fronte dell’ammissibilità della produzione di quel documento, hanno dovuto dunque valutare se quel tentativo di conciliazione fosse idoneo, oppure no, ad impedire la decadenza. Dunque non sussisteva alcun giudicato preclusivo di questo accertamento e di questa valutazione.

2.- Con il secondo motivo, proposto ai sensi dell’art. 360, co. 1, n. 3), c.p.c. il ricorrente lamenta “violazione e falsa applicazione” degli artt. 6 L. n. 604/1966 e 2112 c.c. per avere la Corte territoriale ritenuto necessario, a fini impeditivi della decadenza, promuovere il tentativo di conciliazione nei confronti della cedente.

Il motivo è infondato.

E’ sufficiente richiamare i principi di diritto affermato da questa Corte nella sentenza n. 8039/2022: 

“21. Nell’ipotesi in cui, come accade nella fattispecie in esame, in epoca anteriore al trasferimento, sia stato intimato il licenziamento … la norma di garanzia di cui all’art. 2112 cod. civ. può operare solo a condizione che sia dichiarata la nullità o l’illegittimità del licenziamento, con le conseguenze a ciò connesse in termini di ripristino del rapporto di lavoro alle dipendenze della cedente. Solo la declaratoria di nullità o l’annullamento dell’atto di recesso consentono di considerare il lavoratore dipendente della cedente al momento della cessione, con trasferimento e continuazione del suo rapporto di lavoro in capo alla cessionaria.

22. La declaratoria di nullità del licenziamento o il suo annullamento costituiscono dunque un dato pregiudiziale ed autonomo – sul piano logico e su quello giuridico – rispetto all’accertamento del trasferimento d’azienda e dei suoi effetti.

23. La circostanza che nell’ambito di un’unica controversia possano essere proposte tanto la domanda di nullità o annullamento del licenziamento che quella di accertamento dell’avvenuto trasferimento di azienda, con conseguente dichiarazione della prosecuzione rapporto di lavoro alle dipendenze dirette del cessionario, non esclude che la contestazione del licenziamento rimanga sottoposta alla regole sue proprie, e tra queste all’onere di impugnazione nei termini di decadenza di cui all’art. 6, l. n. 604 del 1966, nel testo modificato dalla l. n. 92 del 2012 (v. Cass. 7665 del 2013, relativa ad una fattispecie in cui la lavoratrice aveva convenuto in giudizio la cedente e la cessionaria per far accertare l’intervenuto trasferimento di azienda e dichiarare nullo il licenziamento intimato dalla cedente prima del recesso. La S.C. ha respinto il ricorso della lavoratrice, confermando la sentenza d’appello che, conformemente al Tribunale, avevano rigettato la domanda per intervenuta decadenza dall’impugnativa del licenziamento)”.

Dunque quando il licenziamento ed il suo effetto estintivo del rapporto di lavoro abbiano preceduto il trasferimento di (ramo d’) azienda, se è vero che la domanda di reintegrazione va proposta nei confronti della cessionaria, è altresì vero che occorre pregiudizialmente proporre (anche con lo stesso ricorso) la domanda di annullamento del licenziamento, di cui la reintegrazione è solo una delle possibili conseguenze (a seconda del regime applicabile) ai sensi dell’art. 18 L. n. 300/1970.

Ciò in quanto solo la pronunzia di annullamento del licenziamento è idonea a produrre effetti ripristinatori ex tunc e, dunque, a far “rivivere” il rapporto di lavoro alle dipendenze del cedente e, quindi, a rendere possibile la vicenda giuridica del trasferimento del rapporto medesimo (così ricostituito) alle dipendenze del cessionario ex art. 2112 c.c. Trattasi di domande distinte, che vedono legittimazioni passive distinte: l’impugnazione stragiudiziale del licenziamento e la domanda di annullamento vedono legittimato passivo il cedente, la domanda di reintegrazione vede legittimato passivo il cessionario.

Ai sensi dell’art. 6 L. n. 604/1966 la decadenza attiene all’impugnazione del licenziamento, quindi all’azione volta alla sua caducazione ad opera della sentenza (di tipo costitutivo) con effetti ripristinatori del rapporto di lavoro ex tunc. Dunque gli atti impeditivi della decadenza devono necessariamente essere indirizzati al cedente.

E’ vero che il tentativo di conciliazione che investa tutte le domande deve essere indirizzato a cedente e cessionario, ma ciò non esclude che, ai fini impeditivi della decadenza, debba essere indirizzato al cedente.

Il precedente invocato dal ricorrente (Cass. n. 15678/2006) non giova alla sua tesi.

In quella pronunzia questa Corte ha esaminato il caso in cui il licenziamento era stato intimato dal cedente, ma prima del suo ricevimento da parte del lavoratore – e quindi prima della produzione dell’effetto estintivo del rapporto di lavoro – era intervenuto il trasferimento d’azienda. In quel caso – assolutamente diverso da quello ora in esame, in cui il trasferimento d’azienda è intervenuto quando il licenziamento era stato già intimato ed aveva già prodotto l’effetto estintivo del rapporto di lavoro – questa Corte ha affermato il principio per cui ai fini del destinatario dell’impugnazione occorre guardare a chi sia il datore di lavoro nel momento in cui si produce l’effetto estintivo del rapporto di lavoro.

Ed in quel caso il datore di lavoro, a quel momento, era il cessionario, perciò ritenuto destinatario dell’impugnazione del licenziamento.

Quel precedente conferma, dunque, che intanto l’art. 2112 c.c. può operare ed il rapporto di lavoro può ritenersi trasferito al cessionario, in quanto il rapporto stesso sia ancora esistente (ossia non ancora estinto) alla data del trasferimento d’azienda.

Se invece tale condizione non sussiste, in quanto il rapporto è stato estinto (nel momento del ricevimento dell’atto di licenziamento, quale atto recettizio) prima del trasferimento d’azienda, l’art. 2112 c.c. potrà operare solo una volta impugnato vittoriosamente il licenziamento nei confronti del cedente (in tal senso v. altresì Cass. n. 404/2023).

3.- Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate come in dispositivo.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso; condanna il ricorrente a rimborsare alla controricorrente le spese del presente giudizio di legittimità, che liquida in euro 4.500,00, oltre euro 200,00 per esborsi, oltre rimborso forfettario delle spese generali e accessori di legge.

Dà atto che sussistono i presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, ai sensi dell’art. 13, co. 1 quater, d.P.R. n. 115/2002 pari a quello per il ricorso a norma dell’art. 13, co. 1 bis, d.P.R. cit., se dovuto