CORTE di CASSAZIONE, sezione lavoro, Ordinanza n. 17964 depositata il 1° luglio 2024

Lavoro – Mancata soluzione di continuità – Periodi di lavoro non regolarizzato – Periodi di lavoro subordinato – Potere direttivo e gerarchico – Pagamento differenze retributive – Rigetto

Rilevato che

1. La Corte d’appello di Roma ha accolto in parte l’appello di G.M.M. e, in parziale riforma della pronuncia di primo grado, ha rideterminato in misura inferiore i periodi di lavoro subordinato (non regolarizzato) svolto da A.F. alle dipendenze della M., che ha condannato al pagamento delle differenze retributive pari alla minor somma di euro 11.190,77, oltre accessori.

2. La Corte territoriale ha premesso che il lavoratore aveva dedotto di aver lavorato, senza soluzione di continuità, alternando periodi di lavoro non regolarizzato, specificamente elencati in atti, a periodi di lavoro subordinato svolto formalmente alle dipendenze di diverse società (L.C. s.r.l., L.C. s.r.l., ICM s.r.l., M.C. s.r.l., G.H. s.r.l.), sempre gestite e controllate dalla M. (anche per il tramite dei propri figli); che quest’ultima aveva provveduto personalmente ad assumerlo, ad esercitare nei suoi confronti il potere gerarchico, direttivo e disciplinare, e a corrispondergli la retribuzione.

I giudici di appello hanno confermato la statuizione di primo grado che, per i periodi di lavoro regolarizzati, aveva escluso la fittizietà della imputazione dei rapporti in capo alle società formali datrici di lavoro.

Hanno ritenuto, per i periodi non regolarizzati, che le circostanze allegate dall’attore, in ordine alla durata di tali rapporti, alla assunzione da parte della M., agli ordini dalla stessa impartiti e alla corresponsione del compenso, non fossero state contestate dalla predetta; che tali circostanze fossero idonee a dimostrare la soggezione del lavoratore al potere direttivo e gerarchico della M.;

che quest’ultima non aveva dimostrato l’imputabilità del rapporto a soggetti diversi; che una prova in tal senso emergeva dagli atti di causa con riguardo unicamente al periodo da gennaio 2009 fino al 20 ottobre 2012; che in relazione a quest’ultimo periodo l’appellato doveva considerarsi dipendente della società G.H. s.r.l. e che pertanto dalle somme al medesimo riconosciute in primo grado dovevano detrarsi quelle corrispondenti alle differenze retributive per i periodi da ultimo indicato.

3. Avverso tale sentenza G.M.M. ha proposto ricorso per cassazione, affidato a due motivi. A.F. non ha svolto difese.

4. Il Collegio si è riservato di depositare l’ordinanza nei successivi sessanta giorni, ai sensi dell’art. 380 bis.1 c.p.c., come modificato dal d.lgs. n. 149 del 2022.

Considerato che

5. Con il primo motivo di ricorso è dedotta, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c., violazione o falsa applicazione degli artt. 2697, 2727, 2729 c.c. nonché degli artt. 100, 115, 116, 414 e 416 c.p.c. e del principio del giusto processo di cui all’art. 111 Cost., per non avere la sentenza d’appello considerato che la titolarità dal lato passivo del rapporto controverso è elemento costitutivo della domanda, il cui onere di allegazione e prova grava sull’attore; che ove tale onere non sia assolto, la parte convenuta può limitarsi a negare la titolarità in capo ad essa del rapporto dedotto in giudizio e a negare l’esistenza dei fatti costitutivi dell’altrui diritto, senza altri oneri; che la decisione d’appello è stata adottata in spregio alle norme che regolano la prova per presunzioni, valorizzando una mera congettura, elevando un fatto del tutto incerto a fatto noto e incontestato.

6. Con il secondo motivo si denuncia la nullità della sentenza per mancanza o apparenza della motivazione, in violazione dell’art. 111 Cost. e dell’art. 132, comma 2, n. 4 c.p.c., per essere la sentenza motivata solo per relationem alla pronuncia di primo grado, senza la necessaria analisi delle censure mosse dall’appellante.

7. Nessuno dei motivi può essere accolto.

8. La Corte d’appello ha fatto propria la valutazione del tribunale che aveva riconosciuto l’esistenza di plurimi rapporti di lavoro subordinato dell’A. alle dipendenze della M. per i periodi non regolarizzati (eccetto quello dal gennaio 2009 al 20 ottobre 2012), sul rilievo che le circostanze allegate dal ricorrente e significative della soggezione dello stesso al potere direttivo e gerarchico “esercitato in prima persona della M.”, non erano state da quest’ultima contestate.

La stessa si era limitata a negare in modo generico il suo ruolo di datrice di lavoro, senza allegare alcun elemento specifico a sostegno della imputabilità dei rapporti in capo a soggetti terzi, quali le società che in altri periodi avevano formalmente assunto l’appellato.

9. Il principio di non contestazione trova fondamento nell’art. 416 c.p.c. che impone al convenuto l’onere di prendere immediata e precisa posizione, a pena di decadenza, in ordine ai fatti asseriti dall’attore, con la conseguenza che la mancata contestazione dei fatti costitutivi della domanda vincola il giudice a ritenerli sussistenti, sempre che si tratti di fatti primari, cioè costitutivi, modificativi, impeditivi od estintivi del diritto fatto valere in giudizio dall’attore o dal convenuto che agisca in riconvenzionale, mentre i fatti secondari – vale a dire quelli dedotti in mera funzione probatoria – possono contestarsi in ogni momento (Cass. n. 1878 del 2012; n. 18202 del 2008; S.U. n. 11353 del 2004; S.U. n. 761 del 2002).

10. Deve anzitutto rilevarsi che la ricorrente, che denuncia la violazione degli artt. 414 e 416 c.p.c. e, tramite essi, l’erronea applicazione del principio di non contestazione, ha omesso, tuttavia, di trascrivere, anche solo per estratto, o di depositare gli atti processuali necessari al vaglio di tale questione, il che rende inammissibile per questo aspetto la censura.

11. Né, data la rituale applicazione del principio di non contestazione, può dirsi violato l’art. 2697 c.c. atteso che la Corte di merito ha correttamente addossato al lavoratore l’onere di provare i fatti costitutivi della domanda, tra cui la titolarità dal lato passivo del diritto controverso, ed ha giudicato tale onere assolto.

Dal che discende anche l’impropria deduzione di violazione delle regole in ordine alla prova presuntiva.

12. Sul secondo motivo di ricorso deve richiamarsi l’orientamento di questa Corte, secondo cui la sentenza d’appello può essere motivata per relationem, purché dia conto, sia pur sinteticamente, delle ragioni della conferma in relazione ai motivi di impugnazione ovvero della identità delle questioni prospettate in appello rispetto a quelle già esaminate in primo grado, sicché dalla lettura della parte motiva di entrambe le sentenze possa ricavarsi un percorso argomentativo esaustivo e coerente, mentre va cassata la decisione con cui la corte territoriale si sia limitata ad aderire alla pronunzia di primo grado in modo acritico senza alcuna valutazione di infondatezza dei motivi di gravame (v. Cass. n. 20883 de 2019; n. 28139 del 2018).

13. La sentenza della Corte d’appello, sia pure esprimendo una condivisione degli argomenti utilizzati dal tribunale, ha tuttavia preso in esame e replicato alle censure oggetto dei motivi di impugnazione attraverso proprie valutazioni in fatto e in diritto, sia riguardo ai criteri di imputazione dell’attività negoziale ad una persona giuridica e al relativo onere di prova, sia quanto all’applicazione del canone di non contestazione e sia sull’apprezzamento del materiale istruttorio, (v. sentenza, p. 3-5), giungendo alla motivata parziale riforma della pronuncia di primo grado.

14. Per le ragioni esposte il ricorso deve essere respinto.

15. Non si provvede sulle spese poiché la controparte è rimasta intimata.

16. Il rigetto del ricorso costituisce presupposto processuale per il raddoppio del contributo unificato, ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, del d.P.R. n. 115 del 2002 (cfr. Cass. S.U. n. 4315 del 2020).

P.Q.M.

Rigetta il ricorso.

Ai sensi dell’art. 13, co. 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma del comma 1 bis dello stesso art.13, se dovuto.