CORTE di CASSAZIONE, sezione lavoro, Ordinanza n. 1818 depositata il 25 gennaio 2025
Lavoro – Ruolo di direttore amministrativo – Sospensione dal servizio e dalla retribuzione – Irregolarità amministrativo-contabili – Accoglimento parziale
Rilevato che
1. la Corte d’Appello di Milano, pronunciando sull’appello principale di A.V. e sull’impugnazione incidentale notificata dall’A.B.A.B., ha confermato la sentenza del Tribunale della stessa sede che aveva accolto solo parzialmente il ricorso proposto dalla V. ed aveva annullato la sanzione conservativa comminata per avere impedito le attività del consiglio di amministrazione della seduta del 28 marzo 2017 mentre aveva accertato la legittimità della sospensione dal servizio e dalla retribuzione per giorni nove, irrogata in relazione alle contestate irregolarità amministrativo-contabili emerse con riferimento a cinque procedure di affidamento;
2. la Corte territoriale, riassunti i fatti di causa e precisato che le irregolarità in questione erano state contestate alla V. in ragione del suo ruolo di direttore amministrativo dell’Accademia, ha evidenziato, in sintesi che:
a) il potere disciplinare era stato correttamente esercitato ai sensi dell’art. 25, comma 9, e 55 bis d.lgs. n. 165/2001 dal Direttore dell’Accademia, che riveste la medesima posizione propria del capo di istituto e, pertanto, al pari di ogni altro dirigente, può infliggere le sanzioni del rimprovero verbale e della sospensione dal servizio fino a dieci giorni;
b) non sussiste alcuna incompatibilità fra la titolarità del potere disciplinare e il ruolo di responsabile della prevenzione della corruzione e della trasparenza (RPCT);
c) l’affidamento ad uno studio di consulenza esterno dell’incarico di verificare l’attività amministrativa dell’Accademia era avvenuto nel rispetto del d.lgs. n. 165/2001 e dello statuto, perché i poteri conferiti al Collegio dei revisori non escludono che ai fini di controllo ci si possa avvalere anche di soggetti esterni;
d) il direttore amministrativo, in quanto preposto alla direzione degli uffici e responsabile della gestione amministrativa, organizzativa, finanziaria, patrimoniale e contabile dell’Accademia, è tenuto a sovrintendere all’attività degli uffici e, pertanto, la sua responsabilità non può essere esclusa per il solo fatto che le irregolarità riscontrate siano state commesse dal personale tecnico amministrativo incaricato di curare i singoli procedimenti;
e) la necessità della determina a contrarre si desume dall’art. 11 d.lgs. n. 163/2003, (ndr art. 11 d.lgs. n. 163/2006) applicabile alle prime quattro procedure in rilievo, ed è stata ribadita dal successivo art. 32 d.lgs. n. 50/2016, norma, questa, che disciplina la quinta procedura oggetto dell’attività ispettiva e di controllo;
f) la fondatezza delle doglianze inerenti alla mancata verbalizzazione delle operazioni di gara e all’omesso accertamento dei requisiti di legge richiesti in capo agli affidatari dei contratti pubblici, non determina l’illegittimità della sanzione disciplinare in ragione della pluralità degli addebiti e considerato, altresì, che l’appellante non aveva espressamente domandato la riduzione della sospensione;
g) la condotta addebitata é idonea a ledere i principi di trasparenza e di concorrenza nelle gare e, pertanto, non rileva che dalla stessa non sia derivato un danno immediatamente apprezzabile sul piano monetario;
h) la ritenuta legittimità della sanzione rende superfluo l’accertamento in ordine all’allegata, ma non provata, volontà ritorsiva dell’Accademia;
3. per la cassazione della sentenza A.V. ha proposto ricorso sulla base di otto motivi, illustrati da memoria, ai quali ha opposto difese con controricorso l’A.B.A.B..
Considerato che
1.1. con il primo motivo, formulato ai sensi dell’art. 360 n. 5 cod. proc. civ., la ricorrente denuncia l’omesso esame di fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione tra le parti, ravvisato nell’incompatibilità fra le funzioni di RPCT e l’esercizio del potere disciplinare; addebita alla Corte distrettuale di avere acriticamente recepito un parere dell’ANAC, privo di efficacia vincolante e, comunque, errato perché fondato su un’interpretazione non corretta delle disposizioni normative che vengono in rilievo;
1.2. con la seconda critica, formulata ai sensi dell’art. 360 n. 3 cod. proc. civ., è dedotta la violazione e falsa applicazione degli artt. 20, comma 7, e 23 d.lgs. n. 123/2011 nonché dell’art. 7, comma 6, e 14 d.lgs. n. 165/2001 nonché dell’art. 97 Cost. e la ricorrente reitera la tesi, ritenuta infondata dal giudice d’appello, secondo cui l’attività di controllo è affidata in via esclusiva ai revisori, alla ragioneria ed ai servizi ispettivi del Ministero dell’Economia e delle Finanze nonché alla Corte dei conti e, pertanto, non poteva l’Accademia affidare ad uno studio legale esterno, senza alcuna necessità e senza previa selezione pubblica, l’incarico di condurre l’ispezione interna che aveva poi dato luogo all’avvio del procedimento disciplinare;
1.3. con il terzo motivo la ricorrente denuncia la violazione e falsa applicazione dell’art. 13 del d.P.R. n. 132/2003 nonché degli artt. 4, 5 e 6 della legge n. 241/1990 e censura il capo della sentenza impugnata che ha ritenuto la responsabilità del direttore amministrativo anche con riferimento ad irregolarità ricadenti nell’ambito delle attività riservate ad altri dipendenti; addebita alla Corte territoriale di non avere concretamente individuato i fatti e i comportamenti censurabili nell’ambito della asserita “responsabilità apicale” facendo solo cenno a “un evanescente obbligo di supervisione dell’operato degli stessi”;
1.4. la quarta critica deduce, sempre ai sensi dell’art. 360 n. 3 cod. proc. civ., la violazione e falsa applicazione dell’art. 11 d.lgs. n. 163/2006 nonché dell’art. 32 d.lgs. n. 50/2016 e ripropone la tesi secondo cui non sarebbe stata necessaria la determina a contrarre, che è atto amministrativo interno, di spettanza dirigenziale; aggiunge, poi, che:
a) il regolamento di amministrazione non prevedeva alcun obbligo in tal senso;
b) la delibera a contrattare può essere legittimamente sostituita dal bando di gara e la sua assenza non determina nullità della procedura;
c) in ogni caso la sua adozione rientrava nella competenza del direttore dell’Accademia e non del dirigente amministrativo;
1.5. con il quinto motivo, formulato ai sensi dell’art. 360 n. 5 cod. proc. civ., si denuncia testualmente «motivazione apparente e/o contraddittoria, perplessa o incomprensibile della sentenza di secondo grado (accoglimento del quinto e del sesto motivo di appello senza annullamento o modifica della sanzione – accertata osservanza degli obblighi dei requisiti degli affidatari-inesistenza delle irregolarità dei verbali nonché dell’obbligo di pubblicazione dei bandi sottosoglia- infondatezza della censura degli obblighi di postinformazione)»;
la ricorrente addebita, in sintesi, alla Corte territoriale di avere contraddittoriamente, da un lato, escluso che fossero fondate le contestazioni inerenti all’accertamento dei requisiti in capo agli affidatari, alla pubblicazione dei bandi, agli obblighi di informazione e, dall’altro, ritenuto che non ci fossero i presupposti per l’annullamento della sanzione disciplinare; aggiunge che ha errato il giudice d’appello nel richiamare il principio di diritto enunciato da Cass. n. 3896/2019 perché affermato in fattispecie non sovrapponibile a quella oggetto di causa;
1.6. la sesta critica, egualmente formulata ai sensi dell’art. 360 n. 5 cod. proc. civ., denuncia il vizio motivazionale sotto altro profilo e censura la sentenza impugnata nella parte in cui ha ritenuto rilevanti sotto il profilo disciplinare gli addebiti contestati, sebbene le irregolarità asseritamente commesse non avessero in alcun modo inciso sulla legittimità delle gare e degli affidamenti;
1.7. con il settimo motivo è denunciata, ex art. 360 n. 3 cod. proc. civ., la violazione e falsa applicazione degli artt. 54 e 56 del CCNL 2002/2005 e la ricorrente assume che la Corte territoriale avrebbe finito per disapplicare le disposizioni citate che richiedono, ai fini del giudizio di proporzionalità, una valutazione complessiva delle condotte, negli aspetti oggettivi e soggettivi; la ricorrente insiste nel sostenere che, una volta esclusa la fondatezza di parte degli addebiti, la sanzione disciplinare inflitta doveva essere ritenuta non proporzionata all’illecito;
1.8. infine l’ottavo motivo, formulato ai sensi dell’art. 360 n. 5 cod. proc. civ., ravvisa un omesso esame di fatto decisivo per il giudizio nel mancato accertamento della dedotta finalità ritorsiva, che era stata eccepita quale ulteriore profilo di illegittimità della sanzione;
2. il primo motivo di ricorso è inammissibile perché la censura esula dai ristretti limiti del riformulato art. 360 n. 5 cod. proc. civ. che, secondo l’orientamento espresso dalle Sezioni Unite di questa Corte a partire da Cass. S.U. n. 8053/2014 (cfr. anche Cass. S.U. n. 9558/2018, Cass. S.U. n. 33679/2018 e Cass. S.U. n. 34476/2019), concerne unicamente l’omesso esame di un fatto storico decisivo ai fini di causa ed oggetto di discussione fra le parti e non può essere esteso né alla mancata valutazione di un mezzo di prova acquisito agli atti del giudizio, ove il fatto sia stato comunque apprezzato, né, tantomeno, all’errato giudizio espresso in ordine ad un punto controverso della causa;
la Corte territoriale ha pronunciato sull’asserito divieto di cumulo in capo al medesimo soggetto della funzione di RPCT e della titolarità del potere disciplinare ed ha escluso la fondatezza del rilievo, facendo leva sul disposto dell’art. 1, comma 7, della legge n. 190/2012 e ritenendo condivisibili le valutazioni espresse al riguardo dall’ANAC;
peraltro, anche a voler riqualificare la censura, riconducendola al vizio di cui al n. 3 dell’art. 360 cod. proc. civ., va detto che questa Corte ha già escluso l’eccepita incompatibilità fra la funzione di responsabile prevenzione della corruzione e trasparenza ed il ruolo di componente o titolare dell’UPD, rilevando che l’art. 1, comma 7, della legge n. 190/2012, come modificato dal d.lgs. n. 97/2016, «postula una alterità dei due uffici ma non indica espressamente una loro incompatibilità» (Cass. n. 15239/2021);
è stato evidenziato al riguardo che l’incompatibilità non sussiste neppure nell’ipotesi (che qui non ricorre) in cui venga in rilievo una segnalazione effettuata dallo stesso responsabile per la prevenzione, atteso che «il principio di terzietà dell’ufficio dei procedimenti disciplinari ne postula la distinzione sul piano organizzativo con la struttura nella quale opera il dipendente, e non va confuso con la imparzialità dell’organo giudicante, che solo un soggetto terzo, rispetto al lavoratore ed alla P.A., potrebbe assicurare, laddove il giudizio disciplinare, sebbene connotato da plurime garanzie poste a difesa del dipendente, è comunque condotto dal datore di lavoro, ossia da una delle parti del rapporto. »;
3. parimenti inammissibile è il secondo motivo;
la censura, oltre a prospettare questioni nuove alle quali non fa cenno la sentenza impugnata (mancanza di selezione pubblica e dell’iscrizione della società nell’elenco degli OIV) ed a sollecitare un esame diretto degli atti non consentito nel giudizio di legittimità, non è sorretta dal necessario interesse all’impugnazione giacché la supposta illegittimità del conferimento dell’incarico a soggetto terzo potrebbe, al più, essere fonte di responsabilità contabile a carico del soggetto conferente ma non rendere inutilizzabile, ai fini disciplinari, la documentazione acquisita nell’espletamento dell’incarico;
gli atti dei quali è impedita al datore di lavoro, pubblico o privato, l’utilizzazione nel procedimento disciplinare sono solo quelli espressamente menzionati dal legislatore (cfr. artt. 4 e 5 della legge n. 300/1970) che, con riferimento alla responsabilità disciplinare del dipendente pubblico, ha previsto la doverosità dell’azione in ogni caso in cui il responsabile della struttura sia venuto a conoscenza di fatti aventi rilievo disciplinare;
la circostanza che il controllo sulla regolarità amministrativa sia normalmente attribuito ai revisori ed agli organi ispettivi del ministero non esclude che il dirigente possa avere notizia per altra via delle irregolarità amministrative e che in tal caso debba attivare il procedimento in relazione agli illeciti accertati;
4. non sfugge alla sanzione di inammissibilità neppure il terzo motivo che, sotto l’apparente deduzione del vizio di violazione di legge, in realtà finisce per prospettare una insufficienza della motivazione della sentenza impugnata, ossia un vizio che non trova più ingresso nel giudizio di legittimità, all’esito della riformulazione dell’art. 360 n. 5 cod. proc. civ.;
la Corte territoriale, individuati i compiti e le responsabilità proprie del direttore amministrativo ai sensi dell’art. 13, comma 2, del d.P.R. n. 132/2003, ha escluso che la V. potesse andare esente da responsabilità per il solo fatto che le irregolarità contestate fossero imputabili ai dipendenti addetti all’ufficio acquisti ed all’ufficio contratti ed ha evidenziato al riguardo che incombe sul direttore amministrativo un «onere di controllo e sorveglianza sull’operato dell’ufficio» e che nella specie venivano in rilievo «irregolarità più volte riscontrate tali da far presumere un errato indirizzo dato al personale tecnico-amministrativo»;
il motivo, come già anticipato, seppure ricondotto al vizio di violazione di norma di legge, non indica le ragioni per le quali il giudice d’appello avrebbe errato nell’interpretare il citato art. 13 e nel desumere dallo stesso l’obbligo di vigilanza e di controllo del personale amministrativo, sicché trova applicazione nella fattispecie l’orientamento espresso da questa Corte secondo cui «il vizio di violazione di legge deve essere dedotto …non solo con l’indicazione delle norme che si assumono violate, ma anche, e soprattutto, mediante specifiche argomentazioni, intellegibili ed esaurienti, intese a motivatamente dimostrare in qual modo date affermazioni in diritto, contenute nella sentenza impugnata, debbano ritenersi in contrasto con le indicate norme regolatrici della fattispecie o con l’interpretazione delle stesse fornite dalla giurisprudenza di legittimità» (Cass. S.U. n. 18607/2023 con ampi rinvii a precedenti);
5. parimenti inammissibile è il quarto motivo che, per escludere l’obbligo di previa adozione della delibera a contrarre, fa leva sul bando di gara (che asseritamente conteneva tutti gli elementi essenziali del contratto ed i criteri di selezione degli operatori e delle offerte) e sul regolamento di amministrazione, ossia su atti amministrativi il cui esame diretto è riservato al giudice del merito;
la censura, poi, è manifestamente infondata nella parte in cui addebita alla Corte territoriale di avere violato le norme richiamate nella rubrica, il cui testo, sostanzialmente sovrapponibile (l’art. 11, comma 2 del d.lgs. n. 163/2006 nel testo originario stabilisce che Prima dell’avvio delle procedure di affidamento dei contratti pubblici, le amministrazioni aggiudicatrici decretano o determinano di contrarre, in conformità ai propri ordinamenti, individuando gli elementi essenziali del contratto e i criteri di selezione degli operatori economici e delle offerte.; negli stessi termini si esprime l’art. 32 d.lgs. 50 del 2016 secondo cui Prima dell’avvio delle procedure di affidamento dei contratti pubblici, le stazioni appaltanti, in conformità ai propri ordinamenti, decretano o determinano di contrarre, individuando gli elementi essenziali del contratto e i criteri di selezione degli operatori economici e delle offerte) è inequivoco nell’imporre la previa adozione della delibera a contrarre che deve precedere l’avvio della gara;
quanto, poi, all’asserita incompetenza del direttore amministrativo ed alla responsabilità del direttore dell’Accademia, il motivo, che non denuncia la violazione degli artt. 6 e 13 del d.P.R. n. 132/2003, non si confronta con il decisum della sentenza impugnata nella parte in cui sottolinea che ai sensi del d.P.R. citato fa capo al direttore amministrativo la responsabilità «della gestione amministrativa, organizzativa, finanziaria, patrimoniale e contabile dell’istituzione»;
si tratta di conclusioni alle quali correttamente la Corte territoriale è pervenuta, atteso che il d.P.R. n. 123/2003, oltre a delineare con chiarezza l’ambito delle competenze del direttore amministrativo, con altrettanta chiarezza stabilisce, all’art. 6, che il direttore dell’Accademia «è responsabile dell’andamento didattico, scientifico ed artistico dell’istituzione e ne ha la rappresentanza legale in ordine alle collaborazioni e alle attività per conto terzi che riguardano la didattica, la ricerca, le sperimentazioni e la produzione.»;
6. il quinto ed il settimo motivo possono essere trattati congiuntamente in ragione della loro connessione logica e giuridica perché entrambi censurano, sotto diversi profili, il capo della sentenza impugnata che, dopo avere accertato l’insussistenza di parte degli addebiti contestati alla V. (escludendo, in particolare, che l’appellante avesse omesso di acquisire il certificato del casellario giudiziale degli aggiudicatari, di verbalizzare le operazioni di gara e gli atti della procedura, di valutare i requisiti morali dei partecipanti), ha comunque escluso che la sanzione potesse essere annullata per difetto di proporzionalità, valorizzando anche l’argomento secondo cui non sarebbe consentita al giudice, in mancanza di esplicita domanda, la riduzione della sanzione comminata;
così ragionando il giudice d’appello è incorso nel vizio di violazione di legge e del contratto collettivo denunciato nel settimo motivo ed anche in quello motivazionale, che la ricorrente lamenta attraverso il quinto mezzo;
qualora, come nella fattispecie, il procedimento disciplinare venga avviato e concluso in relazione ad una pluralità di addebiti ed in sede giudiziale venga esclusa la fondatezza di parte delle contestazioni, il giudice è tenuto a verificare se la sanzione inflitta sia o meno proporzionata in relazione agli illeciti accertati e detta valutazione va effettuata nel rispetto delle previsioni di legge (per le fattispecie tipizzate dal legislatore), del codice di comportamento di cui all’art. 54 del d.lgs. n. 165/2001, del codice disciplinare previsto dalla contrattazione collettiva di comparto;
l’art. 55 del d.lgs. n. 165 del 2001, infatti, richiama l’art. 2106 cod. civ., sicché anche al datore di lavoro pubblico, come a quello privato, è imposta l’osservanza del principio di proporzionalità fra sanzione e illecito disciplinare, principio che la Corte costituzionale ha ritenuto essere espressione dei canoni fondamentali di ragionevolezza e di eguaglianza, che si ricavano dall’art. 3 Cost. e che impongono una risposta sanzionatoria «graduata, di regola, nell’ambito dell’autonomo procedimento a ciò preposto, secondo criteri di proporzionalità e adeguatezza al caso concreto» (Corte Cost. n. 268/2016);
il principio in parola è richiamato dalla contrattazione collettiva che la ricorrente invoca, ed in particolare dall’art. 56 del CCNL 16 febbraio 2005 per il personale del comparto AFAM, con il quale le parti stipulanti, dopo avere evidenziato che la sanzione deve essere determinata «nel rispetto del principio di gradualità e proporzionalità delle sanzioni in relazione alla gravità della mancanza e in conformità a quanto previsto dall’art. 55 del d.lgs. n.165 del 2001 e successive modificazioni ed integrazioni», hanno indicato i criteri generali da rispettare ai fini della scelta della sanzione medesima e di seguito tipizzato gli illeciti puniti con sanzioni conservative, graduate a partire dal rimprovero verbale sino a giungere alla sospensione dal servizio fino a mesi sei;
la sentenza impugnata è, quindi, erronea nella parte in cui ritiene sufficiente ai fini della legittimità della sanzione irrogata il solo accertamento di uno dei fatti contestati ed è altresì errata lì dove esclude che il giudice ordinario, in assenza di esplicita domanda, possa rideterminare la sanzione medesima;
6.1. il precedente citato dalla Corte territoriale (Cass. n. 3896/2019) non si attaglia alla fattispecie, innanzitutto perché in quel caso, riscontrata l’assenza di proporzionalità, la sanzione era stata annullata, ed inoltre perché il principio è stato enunciato in relazione al rapporto di lavoro alle dipendenze di privati, mentre nell’impiego pubblico contrattualizzato la disciplina è dettata dall’art. 63, comma 2 bis, del d.lgs. n. 165/2001;
nell’interpretare la disposizione in parola questa Corte, affermata l’applicabilità della stessa a tutti i giudizi in corso al momento dell’entrata in vigore della modifica apportata dal d.lgs. n. 75 del 25 maggio 2017, ha evidenziato che «se si considerano il contesto nel quale la disposizione è inserita, la finalità che la stessa persegue, la non discrezionalità che caratterizza il potere disciplinare attribuito al datore di lavoro pubblico ( che induce anche ad escludere che l’applicazione della norma sia stata pensata come condizionata dalla richiesta dell’amministrazione) si perviene, allora, a ritenere che il legislatore abbia inteso attribuire al giudice il potere/dovere di rideterminare la sanzione, nei casi in cui quella inflitta venga ritenuta non proporzionata alla gravità del fatto accertato.» (Cass. n. 10236/2023);
in via conclusiva, sulla base delle argomentazioni sopra esposte, va enunciato il seguente principio di diritto: « qualora nel rapporto di impiego pubblico contrattualizzato la sanzione disciplinare conservativa venga inflitta in relazione ad una pluralità di condotte, il giudice che escluda la sussistenza di parte degli illeciti contestati è tenuto a verificare la proporzionalità della sanzione inflitta rispetto agli addebiti accertati, tenendo conto della tipizzazione degli illeciti e delle sanzioni contenute nel codice disciplinare, e, ove riscontri il difetto di proporzionalità, deve rideterminare la sanzione medesima in applicazione e nel rispetto dell’art. 63, comma 2 bis, del d.lgs. n. 165/2001, come modificato dal d.lgs. n. 75/2017, a prescindere da una espressa domanda di rideterminazione della sanzione formulata dalle parti »;
7. inammissibile, invece, è il sesto motivo che nella sostanza addebita alla Corte territoriale di avere accertato la responsabilità disciplinare conseguente alla mancata adozione della delibera a contrarre, sebbene l’irregolarità riscontrata non avesse comportato l’annullamento della procedura né cagionato un danno all’amministrazione;
valgono al riguardo le considerazioni già svolte sui limiti del vizio previsto dal riformulato art. 360 n. 5 cod. proc. civ.;
il motivo, che non fa cenno a norme di legge o di contratto che la Corte territoriale avrebbe violato nell’escludere la rilevanza dell’assenza di danno, non consente di riqualificare la censura e di ricondurla ad uno dei vizi denunciabili nel giudizio di legittimità, che, come è noto, è a critica vincolata, con la conseguenza che le censure devono trovare collocazione entro un elenco tassativo di motivi, giacché compito della Corte di legittimità è quello di esercitare un controllo sulla legalità e logicità della decisione ed il giudizio si svolge entro detti limiti, che non permettono di riesaminare e di valutare autonomamente il merito della causa;
8. infine è inammissibile anche l’ottava critica che esula anch’essa dai limiti del riformulato art. 360 n. 5 cod. proc. civ., svolge considerazioni che non colgono l’effettiva ratio decidendi della pronuncia gravata, sollecita accertamenti di fatto riservati al giudice del merito; la Corte distrettuale, una volta accertata la responsabilità disciplinare in relazione ad uno degli addebiti contestati ed escluso che a detto fine fosse rilevante l’assenza di danno, ha ritenuto «superfluo qualsiasi accertamento in ordine ad una presunta, e comunque non provata, volontà ritorsiva dell’amministrazione»;
così ragionando il giudice del merito ha fatto applicazione del principio di diritto, consolidato nella giurisprudenza di questa Corte, secondo cui l’intento ritorsivo, al pari di ogni altro motivo illecito, deve avere efficacia determinativa esclusiva e va escluso qualora risulti accertato un inadempimento del prestatore che giustifichi l’esercizio del potere disciplinare;
il principio, affermato in relazione al licenziamento disciplinare, può essere esteso alle sanzioni conservative per le quali la nullità ex art. 1345 cod. civ. può essere dichiarata solo qualora il motivo di ritorsione sia stato determinante, ossia abbia integrato l’unica effettiva ragione di irrogazione della sanzione, ed esclusivo, esclusività che presuppone il riscontro giudiziale della insussistenza del motivo lecito formalmente addotto;
la ricorrente, oltre a non cogliere il senso dell’affermata “superfluità” dell’accertamento in ordine all’intento ritorsivo, quanto all’ulteriore ratio decidendi della pronuncia gravata, concernente l’assenza di prova della denunciata ritorsione, nella sostanza sollecita inammissibilmente una diversa valutazione delle risultanze processuali, che esorbita dai limiti del giudizio di legittimità;
9. in via conclusiva vanno accolti il quinto ed il settimo motivo di ricorso, con conseguente cassazione in parte qua della sentenza impugnata e rinvio alla Corte territoriale indicata in dispositivo che procederà ad un nuovo esame, da condurre nel rispetto del principio di diritto enunciato al punto 6.1., provvedendo anche al regolamento delle spese del giudizio di cassazione;
10. non sussistono le condizioni processuali richieste dall’art. 13, comma 1 quater, del d.P.R. n. 115/2002, come modificato dalla L. 24.12.12 n. 228, per il raddoppio del contributo unificato.
P.Q.M.
Accoglie il quinto ed il settimo motivo di ricorso e dichiara inammissibili gli ulteriori motivi.
Cassa la sentenza impugnata in relazione ai motivi accolti e rinvia alla Corte d’Appello di Milano in diversa composizione alla quale demanda di provvedere anche al regolamento delle spese del giudizio di cassazione.