CORTE di CASSAZIONE, sezione lavoro, Ordinanza n. 18719 depositata il 9 luglio 2024

Lavoro pubblico – Organi dell’amministrazione comunale – Demansionamento – Scavalcamento decisionale – Mobbing – Danno non patrimoniale per lesione dell’immagine – Risarcimento danni – Inammissibilità

Ritenuto in fatto

1. Con sentenza n. 379/2018, pubblicata in data 9 novembre 2018, la Corte d’appello di Brescia, nella regolare costituzione dell’appellato COMUNE DI BEDIZZOLE, ha accolto solo parzialmente il gravame proposto da S.V. avverso la sentenza del Tribunale di Brescia n. 1421/17, pubblicata in data 21 dicembre 2017 e, per l’effetto, ha condannato il COMUNE DI BEDIZZOLE a corrispondere a S.V. la sola cifra di € 6.000,00 a titolo di danno non patrimoniale per lesione dell’immagine.

2. S.V. – assunto in data 10 aprile 2008 come vice-Segretario con posizione da dirigente precedentemente non esistente nell’organico del COMUNE DI BEDIZZOLE e successivamente soppressa nel 2013 – aveva adito il Tribunale di Brescia, chiedendo il risarcimento dei danni derivanti dal demansionamento e dal mobbing che assumeva di avere sofferto.

Aveva dedotto, in particolare, di avere subito sia un progressivo svuotamento delle proprie mansioni – con riduzione delle aree amministrative precedentemente assegnategli e scavalcamento decisionale – sia condotte di mobbing ad opera della persona cui erano stati cumulativamente conferiti i ruoli di Segretario Comunale e di Direttore Generale del COMUNE DI BEDIZZOLE.

3. Disattesa integralmente la domanda in primo grado, la Corte d’appello di Brescia, nel valutare il gravame, ha escluso la fondatezza delle pretese risarcitorie ricondotte a mobbing e demansionamento.

La Corte, infatti, ha ritenuto, in primo luogo, che il conferimento dei ruoli di Segretario Comunale e di Direttore Generale alla medesima persona – pur nei diversi contenuti dei ruoli stessi – giustificasse l’avocazione da parte di quest’ultima di alcune competenze dei dirigenti, senza che ciò venisse a tradursi in demansionamento o in uno svuotamento del ruolo dell’odierno ricorrente.

La Corte, parimenti, ha escluso che fosse ravvisabile uno scenario di mobbing, ritenendo che gli episodi di attrito tra lo stesso S.V. ed Direttore Generale – Segretario Comunale fossero da ricondurre da una situazione di conflittualità lavorativa, non tale da integrare un mobbing, anche per l’assenza di prova del profilo del dolo nelle condotte allegate.

La Corte territoriale, nondimeno, ha ritenuto che in ogni caso si fosse integrato un danno all’immagine dell’odierno ricorrente, oltre ad una sofferenza morale, quantificando in via equitativa il relativo risarcimento.

4. Per la cassazione della sentenza della Corte d’appello di Brescia ricorre ora S.V..

Resiste con controricorso il COMUNE DI BEDIZZOLE.

5. La trattazione del ricorso è stata fissata in camera di consiglio, a norma degli artt. 375, secondo comma, e 380-bis.1, c.p.c.

Il ricorrente ha depositato memoria.

6. Lo svolgimento dell’adunanza camerale è iniziato in data 18 giugno 2024 e, a seguito della sospensione di tutte le attività disposta dal Presidente Aggiunto della Corte a causa della situazione verificatasi nel palazzo della Corte di cassazione, è proseguito in data 27 giugno 2024 come da provvedimento del Presidente del Collegio in data 19 giugno 2024.

Considerato in diritto

1. Con l’unico motivo di ricorso si deduce, in relazione all’art. 360, n. 3), c.p.c., la “violazione, per errata interpretazione ed applicazione, degli artt. 97, 107 e 108 del D. Lgs. n. 267/2000 singolarmente e in combinato disposto tra loro e artt. 5, 17, 19, 21 e 52 del D. Lgs. n. 165/2001”.

Argomenta, in particolare, il ricorso che la Corte territoriale sarebbe pervenuta all’erronea conclusione per cui il titolare del ruolo di Segretario Comunale – e di quello di Direttore Generale – avrebbe avuto per tale ragione la possibilità di avocare a sé gli incarichi conferiti ai dirigenti.

Deduce il ricorrente che il ruolo di Segretario Comunale comporta compiti di coordinamento e supervisione ma non consente l’avocazione delle materie attribuite ai dirigenti, né conferisce un ruolo di supremazia gerarchica rispetto a questi ultimi.

Avrebbe, pertanto, errato la Corte territoriale nel momento in cui ha ritenuto che la sottrazione di competenze all’odierno ricorrente fosse legittima e, conseguentemente, non integrasse un demansionamento e quindi anche un mobbing.

2. Il ricorso è inammissibile ed anzi, facendo applicazione del criterio della ragione più liquida, la declaratoria di inammissibilità vale a superare l’esame dell’eccezione di improcedibilità per violazione dell’art. 369, secondo comma, n. 2), c.p.c., sollevata dal controricorrente.

Nella giurisprudenza di questa Corte è consolidato l’orientamento, al quale occorre qui dare continuità, secondo cui nel giudizio di cassazione i motivi devono avere i caratteri della specificità, completezza e riferibilità alla decisione gravata, il che comporta l’esatta individuazione del capo di pronunzia impugnato e l’esposizione di ragioni che illustrino in modo intelligibile ed esauriente le ragioni per le quali quel capo è affetto dal vizio denunciato, con la conseguenza che la proposizione di censure prive di specifica attinenza al decisum della sentenza gravata è assimilabile alla mancata enunciazione, richiesta dall’art. 366 n.4 cod. proc. civ., e determina l’inammissibilità, in tutto o in parte, del ricorso, rilevabile anche d’ufficio (cfr. Cass. Sez. L, Sentenza n. 4904 del 2021 che, a propria volta, richiama Cass. n. 20910/2017, Cass. n. 20652/2009, Cass. n. 17125/2007, Cass. S.U. n. 14385/2007).

Nel caso in esame, invece, si deve rilevare che il ricorso, dietro l’apparente deduzione del vizio di violazione o falsa applicazione di legge mira, in realtà, ad una rivalutazione dei fatti storici operata dal giudice di merito (Cass. Sez. U – Sentenza n. 34476 del 27/12/2019; Cass. Sez. 6 – 3, Ordinanza n. 8758 del 04/04/2017).

La decisione impugnata, infatti, ha premesso che quelle di cui il ricorrente si era venuto a dolere costituivano condotte di mero fatto, giungendo poi alla conclusione per cui tali condotte non erano idonee ad integrare un demansionamento.

Ne consegue che il ricorso, nello svolgere diffuse considerazioni in diritto in ordine al contenuto dei poteri dei singoli organi dell’amministrazione comunale, non solo non si confronta con la ratio della decisione – la quale, appunto, non ha ragionato in termini di ambito formale di competenze e poteri bensì in termini di condotte di mero fatto – ma, sotto lo schermo delle deduzioni in diritto, finisce per sindacare inammissibilmente la valutazione operata dalla Corte territoriale.

3. Il ricorso deve quindi essere dichiarato inammissibile con conseguente condanna del ricorrente alla rifusione in favore del controricorrente delle spese del giudizio di legittimità, liquidate direttamente in dispositivo.

4. Stante il tenore della pronuncia, va dato atto, ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater D.P.R. n. 115/02, della “sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13, se dovuto”, spettando all’amministrazione giudiziaria verificare la debenza in concreto del contributo, per la inesistenza di cause originarie o sopravvenute di esenzione dal suo pagamento (Cass. Sez. U, Sentenza n. 4315 del 20/02/2020).

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso;

condanna il ricorrente a rifondere al controricorrente le spese del giudizio di Cassazione, che liquida in € 4.200,00, di cui € 200,00 per esborsi, oltre spese generali al 15% ed accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13 comma 1-quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, ove dovuto.