CORTE di CASSAZIONE, sezione lavoro, Ordinanza n. 18902 depositata il 10 luglio 2024
Lavoro pubblico – Trasferimento di ramo d’azienda – Accordo collettivo di salvaguardia – Superminimo – Accordi sindacali integrativi – Mancato pagamento del superminimo – Decreto ingiuntivo – Mutamento in peius – Trattamento retributivo – Rigetto
Rilevato che
1.- B.E. era dipendente di Confartigianato Imprese Padova e, a seguito del mutamento del ccnl applicato (da artigianato a terziario), aveva percepito il “superminimo non assorbibile” previsto dall’accordo collettivo di salvaguardia del 28/04/1997 e dal contratto collettivo integrativo aziendale del 04/03/2010.
In data 27/11/2018 Unione Provinciale Artigiani (poi Confartigianato) aveva intimato disdetta di tutti gli accordi sindacali integrativi e preannunziato che il superminimo non sarebbe stato più pagato a partire dall’01/04/2019, data poi rinviata all’01/05/2020.
La lavoratrice quindi chiedeva ed otteneva dal Tribunale di Padova decreto ingiuntivo per il pagamento di questa voce retributiva.
2.- L’opposizione proposta da Confartigianato veniva rigettata dal Tribunale, sulla base dell’assunto per cui si trattava di superminimo dichiarato espressamente non assorbibile e concordato proprio al fine di conservare a tutti i dipendenti la retribuzione fino ad allora goduta, senza la diminuzione che sarebbe stata determinata dall’applicazione della nuova contrattazione collettiva ex art. 2112 c.c. a seguito del trasferimento di ramo d’azienda da Confartigianato (ex UPA) alla neo costituita U.S. srl.
3.- Con la sentenza indicata in epigrafe la Corte d’Appello accoglieva il gravame interposto da Confartigianato e, in accoglimento dell’opposizione, revocava il decreto ingiuntivo.
Per quanto ancora rileva in questa sede, a sostegno della sua decisione la Corte territoriale affermava:
a) i fatti di causa sono pacifici: l’appellata è stata ed è dipendente di UPA con applicazione fino al 31/12/1996 di un CCNL di primo livello ad hoc, chiamata “contrattazione UPA”;
b) con effetto dall’01/01/1997 UPA cedeva ai sensi dell’art. 2112 c.c. ad U.S. srl (poi trasformata in U.S. spa) il ramo d’azienda relativo al servizio di elaborazione dati e servizi fiscali;
c) dall’01/01/1997 a tutti i dipendenti, sia a quelli transitati in U.S. srl, sia a quelli rimasti in UPA, veniva applicato il CCNL del settore terziario;
d) dalla stessa data dell’01/01/1997 a tutti i dipendenti veniva riconosciuto un “superminimo non assorbibile” pari alla differenza tra il trattamento retributivo prima goduto in base al contratto UPA e quello previsto dal CCNL terziario;
e) in data 28/04/1997 veniva stipulato fra UPA e la Commissione in rappresentanza del personale impiegatizio un accordo di salvaguardia, secondo cui dall’01/01/1997 tutto il personale sarebbe stato sottoposto al CCNL per i dipendenti da aziende del terziario ed eventuali differenze in meno rispetto al precedente CCNL UPA sarebbero state colmate mediante un superminimo non assorbibile;
f) in data 02/07/2004 tale disciplina veniva recepita in accordo integrativo aziendale, stipulato da UPA e U.S. da un lato, e le r.s.a. dall’altro, secondo cui le condizioni di miglior favore in essere per gli assunti ante 1997 venivano mantenute;
g) in data 27/11/2018 UPA comunicava alle organizzazioni sindacali formale disdetta da tutti gli accordi integrativi, con effetto dall’01/04/2019, poi differito all’01/05/2020, data a decorrere dalla quale in busta paga è venuto meno il superminimo non assorbibile;
h) il primo problema attiene alla natura di accordo plurisoggettivo oppure di vero e proprio contratto collettivo per l’accordo di salvaguardia del 28/04/1997 e la sua applicabilità anche alla B., rimasta dipendente di UPA e non transitata in U.S.;
i) secondo la lavoratrice si tratterebbe di accordo plurisoggettivo sia perché destinato a regolare la situazione dei dipendenti già in servizio presso UPA e poi transitati ex art. 2112 c.c. in U.S., sia perché la Commissione firmataria non aveva potere rappresentativo, sicché quell’accordo non sarebbe a lei applicabile;
j) questa tesi non può essere condivisa, in quanto in primo luogo la predetta Commissione ai sensi dell’art. 28 dell’accordo sindacale 11/07/1983 era composta da membri eletti dall’assemblea del personale; inoltre quell’accordo è stato sempre invocato dai lavoratori e anche dalla B. e non hanno mai contestato la rappresentatività della Commissione, in ogni caso si sono sempre avvalsi degli istituti contrattuali derivanti dall’attività da essa svolta;
k) la prova orale chiesta dalla B. per dimostrare l’asserito difetto di rappresentatività non è ammissibile, in quanto irrilevante ed anche generica;
l) dunque la libertà sindacale si è manifestata mediante quell’accordo, con cui sono state convenute condizioni migliorative, come appunto il superminimo non assorbibile, rispetto al CCNL del terziario, applicato dall’01/01/1997;
m) dal punto di vista oggettivo tutti i contratti stipulati dalla Commissione (11/07/1983, 21/01/1991, 07/07/1995, quello di salvaguardia del 28/04/1997) sono accordi di primo livello fino al 1997 e poi di secondo livello in funzione attuativa del CCNL terziario, generali ed astratti, riferibili a tutti i lavoratori e regolanti tutti gli aspetti del rapporto di lavoro, proprio come l’accordo successivo del 04/03/2010 stipulato con le costituite r.s.a.;
n) in relazione ad entrambi i profili soggettivo e oggettivo va richiamata quindi la giurisprudenza della Suprema Corte, secondo cui i contratti di lavoro aziendali, cui sono legittimate anche le commissioni interne, hanno natura ed efficacia di contratti collettivi e quindi le loro clausole ben possono essere derogate o sostituite da clausole meno favorevoli, contenuti in contratti collettivi successivi, sia aziendali che di categoria, essendo inapplicabile l’art. 2077, co. 2, c.c., che riguarda unicamente il rapporto fra contratto collettivo e contratto individuale di lavoro subordinato (Cass. n. 6414/1981);
o) gli istituti del contratto collettivo non si incorporano nel contratto individuale (Cass. n. 16043/2018);
p) di “diritti quesiti” può parlarsi solo per quelli già entrati a far parte del patrimonio del lavoratore, quale corrispettivo di una prestazione già resa o di una fase del rapporto già esaurita; al di fuori di questi limiti non è possibile pretendere il mantenimento nel tempo di normative collettive più favorevoli (Cass. n. 18548/2009; Cass. n. 23105/2019);
q) nessuna delle disposizioni dell’accordo di salvaguardia del 28/04/1997 contiene espressioni che possano far ritenere operante una deroga al principio sopra detto e, quindi, realizzata un’incorporazione dei suoi istituti nei singoli contratti individuali di lavoro, anzi vi sono passi di segno contrario, essendo stato previsto il mantenimento dei superminimi già in atto al 31/12/1996 ma non anche di quello istituito con l’accordo medesimo;
r) peraltro l’accordo aziendale ben può derogare, anche in peius, al ccnl di livello nazionale (Cass. n. 31201/2021);
s) il predetto accordo di salvaguardia è applicabile anche a UPA, che l’ha sottoscritto, e quindi anche alla B., rimasta dipendente di UPA;
peraltro tale accordo non disciplina solo la situazione dei dipendenti transitati in U.S., ma anche quella dei dipendenti rimasti in UPA;
t) né a diverse conclusioni può giungersi attraverso il contratto individuale di lavoro della B., che contiene solo il rinvio alla fonte collettiva ossia al contratto UPA, che, secondo i principi generali, è rimasta esterna al rapporto di lavoro e quindi ben poteva essere sostituita da altra fonte esterna;
u) peraltro, non si è trattato di modifica unilaterale del CCNL applicabile, bensì di modifica concordata con un organismo di rappresentanza, come la Commissione di cui si è detto;
v) con l’accordo di salvaguardia è stato concordato in primo luogo la sostituzione del contratto collettivo UPA con quello terziario, ma con il mantenimento dei livelli retributivi in precedenza raggiunti (più favorevoli rispetto a quelli previsti dal CCNL terziario) mediante la previsione del superminimo non assorbibile;
w) in ogni caso i minimi previsti dal CCNL terziario sono pacificamente rispettosi del minimo costituzionale ex art. 36 Cost.;
x) la mancanza di qualunque pattuizione individuale è confermata dalla circostanza per cui il superminimo è stato corrisposto indistintamente a tutti i lavoratori a partire da gennaio 1997;
y) il principio di irriducibilità della retribuzione ex art. 2103 c.c. non è invocabile in relazione a voci retributive di fonte collettiva nel caso di recesso dal contratto collettivo;
z) la disdetta del 27/11/2018 è pienamente efficace, riferita a tutti gli accordi sindacali integrativi rispetto ai ccnl, e quindi determina la caducazione pro futuro delle previsioni contrattuali relative al superminimo oggetto di causa.
4.- Avverso tale sentenza B.M. ha proposto ricorso per cassazione, affidato a tre motivi.
5.- Confartigianato Imprese Padova ha resistito con controricorso.
6.- Entrambe le parti hanno depositato memoria.
7.- Il Collegio si è riservata la motivazione nei termini di legge.
Considerato che
Va respinta la richiesta di trattazione in pubblica udienza, rientrando la valutazione degli estremi per la trattazione del ricorso in udienza pubblica ex art. 375 c.p.c., e, specificamente, della particolare rilevanza della questione di diritto coinvolta, nella discrezionalità del collegio giudicante (Cass. n. 5533 del 2017; Cass. n. 26480 del 2020); il collegio ben può escludere, nell’esercizio di tale valutazione discrezionale, la ricorrenza dei presupposti della trattazione in pubblica udienza proprio “in ragione del carattere consolidato dei principi di diritto da applicare al caso di specie” (cfr. Cass. SS.UU. n. 14437/2018).
Nel caso in esame l’istanza di celebrazione della pubblica udienza va disattesa, non sussistendo alcuna delle ragioni previste dal legislatore (art. 375 c.p.c.) per la scelta di tale rito. Va infatti escluso che il ricorso prospetti questioni “di particolare rilevanza” (come quella di particolare importanza economica e/o sociale, quella che implica la soluzione di questioni nuove o la presa di posizione rispetto a contrasti giurisprudenziali etc.).
1.- Con il primo motivo, proposto ai sensi dell’art. 360, co. 1, n. 3), c.p.c. la ricorrente lamenta “violazione e falsa applicazione” degli artt. 2077, co. 2, e 2103 c.c. per avere la Corte territoriale ritenuto possibile che, in sede di successione di contratti collettivi di primo livello, sia ridotto il livello retributivo, in contrasto con il principio di irriducibilità della retribuzione.
Il motivo è infondato.
Il presupposto logico-giuridico da cui parte la tesi della ricorrente è che il livello retributivo da lei raggiunto fino al 31/12/1996 facesse parte del suo patrimonio e quindi giammai avrebbe potuto essere ridotto.
Il presupposto è errato: quel trattamento retributivo, fino al 31/12/1996, non era determinato dal contratto individuale, ma pur sempre da un contratto collettivo (all’epoca il contratto collettivo UPA), che come tale resta “fonte” esterna al rapporto individuale di lavoro, sicché le sue clausole ben potevano essere modificate anche in peius da successivi contratti collettivi (nella specie dal CCNL terziario, che il datore di lavoro ha deciso di applicare a decorrere dall’01/01/1997 sulla base di una scelta non unilaterale, bensì concordata con i rappresentanti dei lavoratori).
Il rinvio – contenuto nella lettera di assunzione – al “vigente contratto di lavoro interno”, ossia al contratto collettivo UPA, non era “materiale”, bensì “formale”, come normalmente accade, ossia era destinato soltanto a individuare la “fonte” collettiva regolatrice del rapporto di lavoro. Dunque con quella clausola non veniva recepito e quindi incorporato nel contratto individuale il trattamento economico previsto dal contratto collettivo UPA, restando questo pur sempre la “fonte” esterna regolatrice di quel trattamento, come tale suscettibile di essere modificata nel tempo, secondo le ordinarie dinamiche sindacali (Cass. n. 5285/1989). Né sono stati indicati trattamenti retributivi concreti che possano consentire la verifica del rispetto del principio di irriducibilità della retribuzione (aspetto considerato da Cass. ord. n. 25423/2023).
2.- Con il secondo motivo, proposto in subordine ai sensi dell’art. 360, co. 1, n. 3), c.p.c. la ricorrente lamenta “violazione e falsa applicazione” degli artt. 2077, co. 2, e 2103 c.c. per avere la Corte territoriale escluso che in occasione della sostituzione di un contratto collettivo con altro deteriore, le differenze retributive restino comunque a vantaggio del lavoratore quale superminimo destinato ad essere assorbito dalle future modifiche del trattamento previsto dai contratti collettivi successivi.
Il motivo è infondato.
La clausola del superminimo può ritenersi incorporata nel contratto individuale di lavoro, e come tale insensibile ai successivi mutamenti del contratto collettivo, solo se destinata a compensare determinate qualità professionali del dipendente o determinate mansioni oppure specifiche modalità di esecuzione della prestazione lavorativa. In mancanza, esso resta di “fonte” collettiva e, come tale, sempre modificabile anche in peius da parte di successivi contratti collettivi.
Nella specie non è stato dedotto né vi è alcun elemento che possa far ritenere che quel superminimo non assorbibile fosse riconosciuto alla B. per una delle specifiche ragioni sopra dette. Anzi, risulta pacificamente riconosciuto a tutti i dipendenti, sia a quelli rimasti in UPA, sia a quelli transitati in U.S. srl.
3.- Con il terzo motivo, proposto in via ulteriormente gradata ai sensi dell’art. 360, co. 1, nn. 3) e 5), c.p.c. la ricorrente lamenta un travisamento della prova, con conseguente “violazione e falsa applicazione” degli artt. 1362, co. 2, e 1363 c.c. per avere la Corte territoriale proceduto all’esegesi dell’accordo di salvaguardia del 28/04/1997 “sulla base di elementi bensì riconducibili ai principi ermeneutici codicistici …, sulla base però di un apprezzamento travisato delle risultanze di causa, tale da ridondare in violazione di quei medesimi criteri”.
Il motivo è inammissibile sia per il suo carattere confuso, sia perché volto a sollecitare a questa Corte una diversa interpretazione di quell’accordo, attività interdetta in sede di legittimità. Infine vengono individuati almeno “due fatti decisivi” (il primo dedotto alle pag. 19-20 del ricorso per cassazione, il secondo alle pagg. 21-22 del ricorso per cassazione), che tuttavia, proprio perché plurimi, negano da sé l’asserita decisività, che presuppone necessariamente l’unicità del fatto.
Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate come in dispositivo.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso; condanna la ricorrente a rimborsare alla controricorrente le spese del presente giudizio di legittimità, che liquida in euro 3.500,00, oltre euro 200,00 per esborsi, oltre rimborso forfettario delle spese generali e accessori di legge.
Dà atto che sussistono i presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, ai sensi dell’art. 13, co. 1 quater, d.P.R. n. 115/2002 pari a quello per il ricorso a norma dell’art. 13, co. 1 bis, d.P.R. cit., se dovuto.