CORTE di CASSAZIONE, sezione lavoro, Ordinanza n. 18951 depositata il 10 luglio 2024
Licenziamento – Condanna al risarcimento danni – Differenze retributive – TFR – Inefficacia del licenziamento intimato – Ricorso – Principi di chiarezza e sinteticità espositiva – Inammissibilità
Rilevato che
1. la Corte di Appello di Napoli, con la sentenza impugnata, ha confermato la pronuncia di primo grado con cui la T.M.M. s.r.l. era stata condannata, anche in solido con la società S. s.a.s., al pagamento, in favore di G.R.A., di somme a titolo di differenze retributive e TFR, altresì con declaratoria di inefficacia del licenziamento intimato al suddetto e condanna al risarcimento danni;
2. in estrema sintesi, la Corte ha respinto sia il primo motivo di appello, “attinente alla CTU espletata in primo grado”, sia il secondo mezzo di gravame, “attinente alla prescrizione presuntiva di un anno”;
3. per la cassazione di tale sentenza ha proposto ricorso in data 1.3.2023 la T.M.M. s.r.l., cui ha resistito l’intimato con controricorso;
parte ricorrente ha anche comunicato memoria;
all’esito della camera di consiglio, il Collegio si è riservato il deposito dell’ordinanza nel termine di sessanta giorni;
Considerato che
1. il ricorso è radicalmente inammissibile;
1.1. innanzitutto, esso è formulato in violazione dell’art. 366, comma 1, n. 3, c.p.c., il quale prescrive che esso deve contenere, “a pena di inammissibilità”, “la chiara esposizione dei fatti della causa essenziali alla illustrazione dei motivi di ricorso” (numero sostituito dal comma 27, art. 3, d. lgs. n. 149 del 2002 (ndr comma 27, art. 3, d. lgs. n. 149 del 2022), applicabile “ai giudizi introdotti con ricorso notificato a decorrere” dal 1° gennaio 2023, ex art. 35, comma 5, d. lgs n. 149/2022 cit.);
questa Corte ha già avuto modo di precisare (v. Cass. n. 10594 del 2024) che il nuovo testo dell’art. 366, n. 3, c.p.c., “non ha fatto che esplicitare un requisito di chiarezza, concisione e strumentalità già implicito nel sistema”;
ciò in continuità e coerenza con una giurisprudenza di legittimità che ha sempre interpretato il n. 3 dell’art. 366 c.p.c. – che nella precedente formulazione postulava “l’esposizione sommaria dei fatti di causa” – come preordinato allo scopo di agevolare la comprensione dell’oggetto della pretesa, l’esito dei gradi precedenti con eliminazione delle questioni non più controverse, ed il tenore della sentenza impugnata in immediato coordinamento con i motivi di censura (Cass. SS. UU. n. 16628 del 2009), essendo la suddetta esposizione funzionale alla comprensione dei motivi nonché alla verifica dell’ammissibilità, pertinenza e fondatezza delle censure proposte (Cass. SS. UU. n. 22575 del 2019);
è stato, in particolare, rilevato che il disposto non può dirsi osservato laddove sia necessaria una faticosa o complessa opera di distillazione del successivo coacervo espositivo dei singoli motivi, perché tanto equivarrebbe a devolvere alla S.C. un’attività di estrapolazione della materia del contendere, che è riservata invece al ricorrente: il requisito non è adempiuto, pertanto, laddove i motivi di censura si articolino in un’inestricabile commistione di elementi di fatto, riscontri di risultanze istruttorie, riproduzione di atti e documenti incorporati nel ricorso, argomentazioni delle parti e frammenti di motivazione della sentenza di primo grado (Cass. n. 13312 del 2018);
da ultimo è stato ribadito che il ricorso per cassazione deve essere redatto in conformità ai principi di chiarezza e sinteticità espositiva, occorrendo che il ricorrente selezioni i profili di fatto e di diritto della vicenda sub iudice posti a fondamento delle doglianze proposte, in modo da offrire al giudice di legittimità una concisa rappresentazione dell’intera vicenda giudiziaria e delle questioni giuridiche prospettate e non risolte o risolte in maniera non condivisa, per poi esporre le ragioni delle critiche nell’ambito della tipologia dei vizi elencata dall’art. 360 c.p.c. e che l’inosservanza di tali doveri può condurre ad una declaratoria di inammissibilità dell’impugnazione quando si risolva in una esposizione oscura o lacunosa dei fatti di causa o pregiudichi l’intelligibilità delle censure mosse alla sentenza gravata (cfr. Cass. SS.UU. n. 37552 del 2021);
tali princìpi sono sicuramente applicabili anche nel vigore del nuovo testo dell’art. 366, n. 3, c.p.c., laddove la “sommarietà” si è trasformata nella “essenzialità”, quale requisito che sottolinea il rapporto di pertinenza tra i fatti, sostanziali e processuali, che devono essere esposti e l’oggetto del giudizio devoluto alla Suprema Corte mediante i motivi, per cui i primi vanno narrati nella stretta misura in cui siano funzionali proprio alla “illustrazione dei motivi di ricorso”;
il tutto attraverso una esposizione che sia “chiara”, ossia intelligibile senza equivoci, tale da esprimere nitidamente a chi legge i fatti rilevanti ai fini del decidere;
nella specie, la parte ricorrente invece si limita a narrare lacunosamente lo svolgimento del processo di primo e di secondo grado, senza specificare con chiarezza i fatti storici posti a base della domanda né quali fossero i contenuti delle difese delle parti e senza individuare in modo comprensibile il rapporto di pertinenza tra quanto dedotto e le censure che si intendono sottoporre alla Corte di legittimità;
1.2. in secondo luogo, l’atto è privo della “chiara e sintetica esposizione dei motivi per i quali si chiede la cassazione, con l’indicazione delle norme di diritto su cui si fondano”, così come prescritto, sempre “a pena di inammissibilità”, dal comma 1, n. 4, dell’art. 366 c.p.c. (numero sostituito dal comma 27, art. 3, d. lgs. n. 149/2002 (ndr comma 27, art. 3, d. lgs. n. 149/2022) cit., applicabile “ai giudizi introdotti con ricorso notificato a decorrere” dal 1° gennaio 2023, ex art. 35, comma 5, dello stesso decreto legislativo);
nel ricorso in esame non solo manca una chiara e sintetica esposizione dei motivi per i quali si chiede la cassazione, ma difetta anche qualsivoglia specifica indicazione delle norme di diritto su cui si fondano le censure;
1.3. l’unica doglianza che appare parzialmente decifrabile è quella con cui si lamenta una pretesa mancanza o apparenza della motivazione impugnata;
tuttavia, le Sezioni unite di questa Corte, con le sentenze nn. 8053 e 8054 del 2014, hanno sancito che l’anomalia motivazionale, implicante una violazione di legge costituzionalmente rilevante, integra un error in procedendo che comporta la nullità della sentenza nel caso di “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, di “motivazione apparente”, di “contrasto irriducibile fra affermazioni inconciliabili”, di “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”; si è ulteriormente precisato che di “motivazione apparente” o di “motivazione perplessa e incomprensibile” può parlarsi laddove essa non renda “percepibili le ragioni della decisione, perché consiste di argomentazioni obiettivamente inidonee a far conoscere l’iter logico seguito per la formazione del convincimento, di talché essa non consenta alcun effettivo controllo sull’esattezza e sulla logicità del ragionamento del giudice” (Cass. SS.UU. n. 22232 del 2016; v. pure Cass. SS.UU. n. 16599 del 2016);
il che non ricorre nella specie in quanto è certamente percepibile il percorso motivazionale seguito dalla Corte territoriale per respingere l’appello della società, mentre non è sufficiente a determinare il vizio radicale della nullità della sentenza né una eventuale insufficienza della motivazione, né, tanto meno, la circostanza che la medesima non soddisfi le aspettative di chi è rimasto soccombente;
2. conclusivamente il ricorso deve essere dichiarato inammissibile, con spese che seguono la soccombenza liquidate come da dispositivo;
ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, della legge n. 228 del 2012, occorre dare atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello, ove dovuto, per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13 (cfr. Cass. SS.UU. n. 4315 del 2020);
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna la parte ricorrente al pagamento delle spese liquidate in euro 3.500,00, oltre euro 200,00 per esborsi, accessori secondo legge e rimborso spese forfettario nella misura del 15%.
Ai sensi dell’art. 13, co. 1 quater, d.P.R. n. 115 del 2002 dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello per il ricorso a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13, se dovuto.