CORTE di CASSAZIONE, sezione lavoro, Ordinanza n. 21645 depositata il 1° agosto 2024

Lavoro – Riconoscimento della qualifica dirigenziale – CCNL dirigenti aziende industriali – Impiegato con funzioni direttive – Potere di firma – Apprezzamenti di merito – Carenza di legittimazione passiva – Inammissibilità

Rilevato che

1. Con la sentenza indicata in epigrafe, la Corte di appello di Caltanissetta, in riforma della pronuncia del Tribunale di Enna, ha respinto la domanda di riconoscimento della qualifica dirigenziale (con decorrenza 1.1.1978) proposta da P.V. nei confronti dell’Associazione industriali della provincia di Enna.

2. La Corte territoriale – premessa la formazione di un giudicato sostanziale in relazione alle differenze retributive vantate per il periodo antecedente l’1.1.1988 – ha, in sintesi, ritenuto che non potevano ritenersi acquisite prove sufficienti a dimostrare quel grado di autonomia, di responsabilità e di poteri attribuiti dalla consolidata giurisprudenza e dal CCNL dirigenti aziende industriali alla figura del dirigente a fronte del compendio probatorio raccolto: le dichiarazioni dei testi P. e M. orientavano maggiormente verso la figura dell’impiegato con funzioni direttive, il potere di firma non era assoluto (ma richiedeva la “controfirma” del Vice presidente o del Presidente), la struttura aziendale era modesta (tre o cinque dipendenti), l’orario di lavoro osservato era stato pari a quello degli altri dipendenti, le mansioni disimpegnate “non denotano affatto quell’incidenza nel governo aziendale, nell’orientamento e nell’impulso delle scelte gestionali, che caratterizzano la figura dirigenziale”.

3. Il lavoratore ha proposto, avverso tale sentenza, ricorso per cassazione affidato a due motivi, illustrati da memoria.

L’Associazione è rimasta intimata.

4. Al termine della camera di consiglio, il Collegio si è riservato il deposito dell’ordinanza nei successivi sessanta giorni.

Considerato che

1. Con il primo motivo di ricorso si denunzia violazione e falsa applicazione degli artt. 437, secondo comma, e 115 cod.proc.civ. (ex art. 360, primo comma, n. 3, cod.proc.civ.) avendo, la Corte territoriale, trascurato l’assenza di esplicite contestazioni alla qualità di direttore-dirigente svolta dal V. e illustrata nel ricorso introduttivo del giudizio, limitandosi, l’Associazione, a dedurre che le pretese antecedenti l’1.1.1988 andavano riferite ad altro e distinto soggetto giuridico (l’Associazione tra commercianti, industriali ed artigiani della provincia di Enna) e che, in ogni caso, era maturata la prescrizione quinquennale.

2. Con il secondo motivo di ricorso si denunzia violazione e falsa applicazione dell’art. 1 del CCNL Dirigenti di aziende industriali (ex art. 360, primo comma, n. 3, cod.proc.civ.) avendo, la Corte territoriale, erroneamente escluso la qualifica di dirigente in capo all’originario ricorrente nonostante le evidenze della prova orale raccolta (che hanno dimostrato lo svolgimento della qualifica di direttore dell’Associazione).

3. Il ricorso è inammissibile.

4. Le censure formulate come violazione o falsa applicazione di legge mirano in realtà alla rivalutazione dei fatti e del compendio probatorio operata dal giudice di merito non consentita in sede di legittimità.

4.1. Come insegna questa Corte, il ricorso per cassazione non rappresenta uno strumento per accedere ad un terzo grado di giudizio nel quale far valere la supposta ingiustizia della sentenza impugnata, spettando esclusivamente al giudice di merito il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di controllarne l’attendibilità e la concludenza e di scegliere, tra le complessive risultanze del processo, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad essi sottesi, dando così liberamente prevalenza all’uno o all’altro dei mezzi di prova acquisiti, salvo i casi tassativamente previsti dalla legge (cfr. Cass. n. 27686 del 2018; Cass., Sez. U, n. 7931 del 2013; Cass. n. 14233 del 2015; Cass. n. 26860 del 2014).

4.2. Entrambi i motivi non individuano un errore di diritto ma, piuttosto, involgono apprezzamenti di merito in ordine al concreto espletamento di mansioni dirigenziali, valutazioni in quanto tali sottratti al sindacato di questa Corte.

5. Pur potendo il datore di lavoro inquadrare come dirigente, in via di favore, un dipendente addetto a mansioni non classificate come dirigenziali dal contratto di lavoro applicato (fenomeno del c.d. pseudo dirigente), la sentenza impugnata ha, innanzitutto, precisato che l’appellativo di “direttore” attribuita al V. non era significativa per orientare la valutazione verso la qualifica di dirigente, piuttosto che verso l’inquadramento nella figura dell’impiegato con funzioni direttive (pagg. 4 e 7 della sentenza); ha, poi, esaminato il quadro probatorio acquisito ed ha concluso per la carenza di prova in ordine all’espletamento delle mansioni superiori;

la Corte territoriale ha, altresì, (pag. 2) espressamente sottolineato che l’Associazione aveva, in sede di primo grado, eccepito la carenza di legittimazione passiva per il periodo anteriore all’1.1.1988 ed aveva contestato che le mansioni svolte dal ricorrente originario fossero riconducibili alla figura dirigenziale; lo stesso ricorrente, d’altra parte, rileva che con la memoria di costituzione in primo grado l’Associazione aveva contestato la rilevanza del contenuto dei documenti prodotti dal lavoratore “rispetto al contratto di lavoro tra l’associazione convenuta ed il ricorrente”, con ciò chiaramente dando atto dell’opposizione del datore di lavoro convenuto alla prospettazione attorea circa il riconoscimento di una qualifica diversa rispetto a quella contemplata dal contratto stipulato dalle parti.

6. In conclusione, il ricorso è inammissibile e le spese del presente giudizio di legittimità seguono il criterio della soccombenza dettato dall’art. 91 cod.proc.civ.

7. Sussistono i presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, previsto dal D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17 (legge di stabilità 2013).

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità che si liquidano in Euro 200,00 per esborsi, nonché in Euro 4.000,00 per compensi professionali, oltre spese generali al 15% ed accessori di legge.

Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater del D.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello – ove dovuto – per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso articolo 13.