CORTE di CASSAZIONE, sezione lavoro, Ordinanza n. 22450 depositata l’ 8 agosto 2024
Licenziamento – Dequalificazione professionale – Sospensione cautelare del lavoratore – Sanzione disciplinare espulsiva – Condizione di mortificazione professionale e lavorativa – Sofferenze psicofisiche del lavoratore – Mancata erogazione della retribuzione variabile – Differenze retributive – Riconoscimento delle ferie maturate – Rigetto
Fatti di causa
1. Con la sentenza in epigrafe indicata, la Corte d’appello di Milano respingeva sia l’appello principale che l’appello incidentale proposti, rispettivamente, il primo, da C.M.G. e, il secondo, da A. Ass.ni s.p.a. contro la sentenza del Tribunale della medesima sede n. 2242/2021, che, in parziale accoglimento del ricorso proposto dal C. nei confronti di A. (volto ad ottenere, oltre alla corresponsione di differenze retributive derivanti dalla mancata erogazione della retribuzione variabile e dal riconoscimento delle ferie maturate, il risarcimento dei danni patrimoniali e non patrimoniali originati dalla dequalificazione professionale e dalle sofferenze psicofisiche causategli dalla datrice di lavoro per non aver rettamente ottemperato alle sentenze del Tribunale, confermate in sede di appello, con le quali erano stati dichiarati illegittimi due consecutivi licenziamenti per giusta causa), respinta ogni altra domanda, aveva condannato la società resistente al ristoro dei pregiudizi indotti dalla condizione di mortificazione professionale e lavorativa, nonché esistenziale, del dipendente, stimati pari ad € 26.109,16, dichiarando cessata la materia del contendere in ordine alla domanda di regolarizzazione contributiva proposta anche nei confronti dell’INPS.
2. Per quanto qui interessa, la Corte territoriale premetteva in sintesi che il Tribunale: a) aveva reputato da risarcire nella misura sopra indicata il complessivo pregiudizio subito dal lavoratore per il periodo di dieci mesi, compresi tra il primo licenziamento disciplinare per giusta causa intimato il 21 agosto 2018 e la prima sospensione cautelare del lavoratore in data 9.9.2019; b) aveva, infatti, creduto legittimamente disposte le due sospensioni cautelari che avevano riguardato il lavoratore, e, cioè, quella appena detta del 9.9.2019 e una seconda, intervenuta il 20.10.2020, a seguito di un secondo licenziamento disciplinare per giusta causa intimato il 17.3.2020, sulla base di addebiti disciplinari che ricalcavano quelli fatti valere nel precedente procedimento disciplinare; c) in particolare, aveva considerato che il combinato disposto degli artt. 29 e 68 del CCNL applicato al rapporto davano facoltà all’impresa di sospendere cautelativamente il lavoratore in caso di procedimento penale, essendo il potere sospensivo autonomo da quello di recedere, anche se nel caso di specie si era in presenza di pronunce giudiziali, rispettivamente, circa il primo licenziamento e il secondo licenziamento, parzialmente contrastanti.
2.1. Sempre per quello che rileva in questa sede, non essendo qui impugnate altre statuizioni della Corte di merito, quest’ultima condivideva, tra l’altro, quanto all’esclusione del pregiudizio lamentato dal lavoratore (anche) per i periodi d’inattività coperti dalle due sospensioni cautelari, “la ragione sistematica di fondo ravvisata dal primo Giudice”, nel distinguere “tra potere disciplinare e potere cautelare sulla base del combinato disposto dalle due norme ex artt. 29 e 68 del CCNL quale elemento che consente di comprovare la legittimità delle due sospensioni cautelari”.
2.2. Inoltre, considerava che: “Il substrato materiale del fatto addebitato nei termini che si sono detti era stato infatti realmente utile, sia per intraprendere la procedura disciplinare che competeva alla datrice di lavoro, sia per l’attivazione di iniziative penali tradottesi nell’attivazione del relativo processo per truffa a carico del lavoratore, processo che la stessa A. aveva stimolato con la sua denuncia”.
2.3. Secondo la stessa Corte, era “quindi da condividere l’assunto espresso nella sentenza impugnata a proposito del fatto che si era in presenza dell’avvio di un processo penale quale condizione che oggettivamente legittimava la sospensione cautelare del prestatore”, perché: “In tale senso le due norme ex artt. 29 e 68 del CCNL consentivano invero la soluzione adottata dal Tribunale notando che sulla loro base, nella vicenda, la Società poteva avvalersi del potere di sospendere cautelativamente il suo impiegato”.
2.4. Infatti, la Corte, dopo aver riportato il tenore testuale dell’art. 29 del CCNL e delle lettere b), d) ed e) del successivo art. 68, richiamate dall’ultimo comma dell’art. 29, si dichiarava “propensa a ritenere che non difettassero, in concreto, le ragioni per disporre una sospensione cautelare dettata e legittimata dal fatto dell’instaurazione del processo penale”.
3. Avverso tale decisione C.M.G. ha proposto ricorso per cassazione, affidato a due motivi.
4. L’intimata ha resistito con controricorso.
5. Entrambe le parti hanno depositato memoria.
Ragioni della decisione
1. Il primo motivo è rubricato come segue: “Art. 360 cpc – Sulla erronea interpretazione del disposto dell’art. 29 CCNL ANIA, anche letto in combinato disposto con l’art. 68 del medesimo CCNL, nella parte in cui consente, a discrezione dell’Azienda, di disporre la sospensione cautelare del lavoratore – Violazione dell’art. 1363 c.c.”. Secondo il ricorrente, ad avviso del giudice di secondo grado, per il disposto di cui all’art. 29 CCNL Ania, l’azienda avrebbe sempre e comunque la facoltà di sospendere il lavoratore in pendenza di un procedimento penale, indipendentemente dalla circostanza che i fatti oggetto del predetto procedimento penale siano, o meno, rilevanti ai fini disciplinari e ciò anche considerando l’esistenza della facoltà alternativa consentita dall’art. 68 del medesimo CCNL Ania. Per il ricorrente, invece, segnatamente secondo il canone ermeneutico di cui all’art. 1363 c.c., in base a dette disposizioni collettive, si doveva escludere che in caso di pieno esercizio del potere disciplinare (e per gli stessi fatti) possa essere disposta la sospensione cautelare successivamente all’irrogazione della relativa sanzione.
2. Con un secondo motivo ex art. 360 n. 5 (c.p.c.) denuncia “omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione fra le parti”. Secondo il ricorrente il percorso decisionale reso dalla Corte di appello si palesa ulteriormente illegittimo per la evidente inesistenza di qualsiasi esame e valutazione dei fatti presupposti dell’odierno giudizio.
Infatti, il giudicante di secondo grado ha ritenuto legittima la sospensione cautelare disposta nei confronti del lavoratore solo in ragione dell’esistenza del procedimento penale in essere nei suoi confronti, senza per un momento analizzare la circostanza che, per i medesimi fatti (oggetto del procedimento penale), il dott. C. avesse subito ben due licenziamenti, entrambi annullati giudizialmente (ed il primo con sentenza dotata di valore di giudicato, dopo la conferma della Suprema Corte).
3. Il primo motivo è infondato.
4. L’art. 29 del CCNL Ania del 22.2.2017 (recante la disciplina dei rapporti fra le imprese di assicurazione e il personale dipendente non dirigente) è contenuto in parte del CCNL titolata “Provvedimenti disciplinari”.
Detto articolo recita: “Il lavoratore/trice, sottoposto a procedimento penale per reato non colposo, deve darne immediata notizia all’impresa, anche tramite l’Organizzazione Sindacale cui aderisce.
Il lavoratore/trice che, a seguito di procedimento penale, subisca limitazione della libertà personale, è senz’altro sospeso dal servizio ed è altresì sospeso, a decorrere dal 31° giorno successivo, dal trattamento economico e ciò fino a che tale limitazione permanga.
Qualora, ferma restando la limitazione della libertà personale, non si tratti di reato contro l’impresa, a decorrere dal 31° giorno, al lavoratore/trice sospeso sarà corrisposto un assegno pari al 50% della normale retribuzione mensile.
In caso di sentenza definitiva di condanna, l’assegno percepito ai sensi del comma precedente dovrà essere restituito e sarà recuperabile sulle competenze ed altri trattamenti a qualunque titolo dovuti.
Qualora non vi sia limitazione della libertà personale o la limitazione venga a cessare, l’impresa determina se il lavoratore/trice debba o meno essere sospeso dal servizio.
Il periodo di sospensione sarà computabile ai fini della anzianità.
Le disposizioni che precedono non modificano in alcun modo le facoltà spettanti all’impresa in base al successivo art. 68 punti b), d) ed e)”.
La successiva parte del medesimo CCNL, dedicata alla “Risoluzione del rapporto di lavoro” consta di unico articolo, ossia l’art. 68, che recita:
“La risoluzione del rapporto di lavoro ha luogo:
a) per dimissioni;
b) per recesso da parte dell’impresa a norma dell’art. 2118 nei limiti consentiti dalla legge;
c) per malattia o conseguenza di infortunio la cui durata abbia superato il periodo contrattuale di conservazione del posto ai sensi dei precedenti artt. 44 e 45;
d) per recesso per giusta causa a norma dell’art. 2119 c.c. e della l. n. 604/1966 e successive modifiche e integrazioni;
e) per recesso per giustificato motivo a norma della l. n. 604/1966 e successive modificazioni e integrazioni e nell’ambito dell’applicazione della stessa;
f) per morte”.
4.1. Devesi aggiungere che il primo articolo del precedente capo “Provvedimenti disciplinari”, ossia, l’art. 26, al primo comma, lett. c), prevede, ma appunto quale provvedimento disciplinare, “la sospensione dal servizio e dal trattamento economico per un periodo non superiore a 10 giorni”.
Il seguente art. 27 dello stesso capo, inoltre, al primo comma recita: “Quando sia richiesto dalla natura della mancanza o dalla necessità di accertamento in conseguenza della medesima, l’impresa, in attesa di deliberare l’eventuale provvedimento disciplinare, può disporre, dalla data di comunicazione della contestazione e comunque non oltre cinque giorni dalla ricezione della eventuale risposta del lavoratore/trice di cui all’articolo successivo, la sospensione temporanea dal servizio per il tempo strettamente necessario, ferma restando la corresponsione degli emolumenti”.
5. Da questa più completa rassegna delle disposizioni collettive da considerare, in ossequio ai principali canoni ermeneutici legali deve trarsi quanto segue.
La “sospensione dal servizio”, come disciplinata ed esplicitamente denominata dal citato art. 26 del CCNL, è certamente una sanzione disciplinare in senso stretto.
Di diversa natura all’evidenza sono, invece, le sospensioni dal servizio disciplinate, rispettivamente, dall’art. 27 e dall’art. 29.
Benché contemplate entrambe nel capo del CCNL dedicato ai “Provvedimenti disciplinari” e pur se non esplicitamente qualificate come “cautelari”, una tale funzione lato sensu cautelare nel caso della sospensione dal servizio di cui all’art. 27 è rivelata sia dalla esplicita previsione della sua temporaneità che dalla sua sottolineata necessarietà (riferita sia al tempo della sua durata che agli accertamenti appunto occorrenti).
5.1. Nel caso della sospensione dal servizio disciplinata dall’art. 29 devono svolgersi differenti rilievi esegetici.
In primo luogo, essa, nelle articolate disposizioni che la disciplinano, è configurata in modo sensibilmente diverso da quella disciplinata dall’art. 27.
Più nello specifico, mentre quest’ultima è prevista in termini espressamente facoltativi (come rivelato dalla locuzione verbale “può disporre”), a loro volta, indicativi di una discrezionalità datoriale, sia pure legata agli indicati presupposti (“Quando sia richiesto dalla natura della mancanza o dalla necessità di accertamenti in conseguenza della medesima”), così non è sempre per quella ex art. 29. Nel comma secondo di tale articolo, infatti, il lavoratore che, a seguito di procedimento penale, subisca limitazione della libertà personale, è senz’altro sospeso dal servizio, senza che all’impresa datrice di lavoro siano lasciati spazi di valutazione discrezionale.
Inoltre, tutte le disposizioni che compongono l’art. 29 sono accomunate dal riferirsi alla sottoposizione del dipendente a procedimento penale, il che non si riscontra nell’art. 27.
Ancora, entrambe le due ipotesi di sospensione dal servizio contemplate dall’art. 29 (una, appena vista, per il caso di limitazione in essere della libertà personale del lavoratore, e l’altra, per il caso di mancanza o esaurimento della medesima limitazione) non hanno una durata esplicitamente determinata o determinabile (mentre quella ex art. 27 è “per il tempo strettamente necessario”).
La sospensione dal servizio prevista dall’art. 27, poi, è esplicitamente legata all’esordio del procedimento disciplinare, e segnatamente alla comunicazione della relativa contestazione al dipendente, e richiama anche il successivo art. 28 (che riguarda aspetti procedurali in senso stretto appunto della vicenda disciplinare), ma non fa cenno al successivo art. 68.
Invece, l’art. 29 in nessun comma si riferisce ad una contestazione o procedura disciplinare. Piuttosto, prevede, nel suo ultimo comma, che “Le disposizioni che precedono”, vale a dire, quelle dettate nei commi precedenti del medesimo art. 29, “non modificano in alcun modo le facoltà spettanti all’impresa in base al successivo art. 68, punti b), d) ed e)”.
Tale ultima “selezione” di tre del maggior numero di ipotesi di risoluzione del rapporto contemplate dal successivo art. 68, com’è agevole verificare dalla natura stessa di dette tre ipotesi, si riferisce ai casi di licenziamento per giusta causa o giustificato motivo, compresi quelli di natura, come suol dirsi, ontologicamente disciplinare.
Pertanto, la norma specifica vuol significare in definitiva che le disposizioni precedenti dell’art. 29, e, segnatamente, sia la sospensione dal servizio, per così dire, “automatica” (in caso di attuale soggezione del lavoratore a limitazione della libertà personale) che l’altra, non precludono alla datrice di lavoro le suddette forme di recesso, ove ovviamente ne sussistano i presupposti.
Non altro coordinamento è in effetti previsto nell’art. 29 tra le due sospensioni dal servizio per “sottoposizione a procedimento penale” ivi contemplate ed una procedura disciplinare.
6. Tutto ciò considerato, l’interpretazione delle norme collettive considerate dai giudici di merito non risulta censurabile nei sensi sostenuti dal ricorrente.
E’ vero, come si è visto, che nessun particolare coordinamento tra l’esercizio del potere di sospendere dal servizio di cui all’art. 29 del CCNL e l’esercizio del potere disciplinare è contenuto o evincibile dalla stessa fonte collettiva.
Infatti, il CCNL non preclude in assoluto che, pur dopo l’irrogazione di un licenziamento disciplinare che abbia avuto inizialmente effetto, ma cui sia seguita una altrettanto effettiva reintegra del lavoratore per ordine giudiziale di qualsiasi genere (cautelare oppure di cognizione sommaria o piena), questi, se sottoposto a procedimento penale, debba (se limitato nella libertà) o possa essere sospeso dal servizio.
E’ fin troppo ovvio, per contro, che, se il datore di lavoro abbia già adottato un recesso per giusta causa o giustificato motivo soggettivo, come senz’altro consentito dal combinato disposto dell’art. 29, ult. comma, e dell’art. 69 lett. b), d) e c) dello stesso CCNL, e se il licenziamento resti effettuale ed attuato, una sospensione dal servizio giusta il comma quinto dell’art. 29, pur in presenza di successiva soggezione del prestatore di lavoro a procedimento penale, sarebbe priva di senso.
7. Pertanto, la censura in esame non può trovare accoglimento.
7.1. E’, infatti, errata l’interpretazione delle norme collettive sostenuta dal ricorrente.
Per quanto sin qui considerato, non è esatto il suo assunto, in base al quale, “una volta esaurito il procedimento disciplinare (in questo caso esercitato per ben due volte), per i medesimi fatti”, la datrice di lavoro non avrebbe potuto disporre la sospensione cautelare.
Come si è visto, la disciplina collettiva precipua consente, invece, le sospensioni ex art. 29 del CCNL, anche in tale ipotesi, purché la sanzione disciplinare espulsiva non sia rimasta efficace.
7.2. Inoltre, dev’essere evidenziato che il ricorrente nulla aveva dedotto innanzi ai giudici del doppio grado di giudizio nel merito circa le eventuali ragioni poste a base delle due sospensioni cautelari in questione, che egli riconosce adottate ex art. 29 del CCNL.
Invero, anche davanti alla Corte territoriale il motivo d’appello circa il tema ora in esame si fondava sulla sola tesi – come si è visto errata – che “la datrice di lavoro, avendo già esercitato tramite la procedura disciplinare le sue prerogative di incidere sulla funzionalità pratica del rapporto di lavoro intrattenuto con C. esaurendole, era ormai priva della facoltà di sospendere il prestatore in rapporto a ciò che aveva formato oggetto dei licenziamenti” (cfr. pag. 6 dell’impugnata sentenza).
In definitiva, nella sospensione ex art. 29 deve ravvisarsi una sospensione cautelare rispetto alla quale la norma attribuisce al datore di lavoro una facoltà, che è più ampia nel caso in cui vi sia un procedimento penale e il correlato procedimento disciplinare sia funzionale a un licenziamento. La condotta della società nell’esercizio di tale facoltà è da valutare ex ante, non ex post, una volta ritenuta la non congruità della contestazione e l’impossibilità di reiterarla in modo corretto perché i fatti già noti al datore.
8. Il secondo motivo è inammissibile.
9. Occorre, infatti, ricordare che, per questa Corte, ricorre l’ipotesi di c.d. “doppia conforme”, ai sensi dell’art. 348 ter, commi 4 e 5, c.p.c., con conseguente inammissibilità della censura di omesso esame di fatti decisivi ex art. 360, comma 1, n. 5), c.p.c., non solo quando la decisione di secondo grado è interamente corrispondente a quella di primo grado, ma anche quando le due statuizioni siano fondate sul medesimo iter logico-argomentativo in relazione ai fatti principali oggetto della causa, non ostandovi che il giudice di appello abbia aggiunto argomenti ulteriori per rafforzare o precisare la statuizione già assunta dal primo giudice (in tal senso, ex multis, Cass. civ., sez. VI, 9.3.2022, n. 7724).
E’ stato, inoltre, specificato che, nell’ipotesi di “doppia conforme” prevista dal quinto comma dell’articolo 348-ter del c.p.c., il ricorrente per cassazione, per evitare l’inammissibilità del motivo di cui al n. 5 dell’articolo 360 del c.p.c., deve indicare le ragioni di fatto poste a base della decisione di primo grado e quelle poste a base della sentenza di rigetto dell’appello, dimostrando che esse sono tra loro diverse (così, tra le altre, Cass. civ., sez. II, 14.12.2021, n. 39910; id., sez. III; 3.11.2021, n. 31312; id., sez. III, 9.11.2020, n. 24974).
9.1. E tale linea interpretativa dev’essere confermata in relazione al vigente comma quarto dell’art. 360 c.p.c., come inserito dall’art. 3, comma 27, lett. a), n. 1, d.lgs. n. 149/2022.
Invero, tale previsione, applicabile al ricorso per cassazione in esame in quanto notificato dopo l’1.1.2023 (ex art. 35 comma 5, dell’ora cit. decreto), ha riprodotto la preclusione prevista dal previgente art. 348 ter, comma quinto, c.p.c.
9.2. Nel caso in esame, la sentenza di secondo grado e quella che ha definito il primo grado sono del tutto conformi.
9.3. Ebbene, il ricorrente neanche ha allegato se ed in che parti le motivazioni delle due sentenze in questione fossero significativamente difformi.
10. Il ricorrente, in quanto soccombente, dev’essere condannato al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese di questo giudizio di legittimità, liquidate come in dispositivo, ed è tenuto al versamento di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, ove dovuto.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in € 5.500,00 per compensi professionali, oltre al rimborso forfettario delle spese generali nella misura del 15%, IVA e CPA come per legge.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto.