CORTE di CASSAZIONE, sezione lavoro, Ordinanza n. 23562 depositata il 3 settembre 2024

 Fondo di garanzia INPS – Trattamento di fine rapporto – Impresa cedente e impresa cessionaria – Diritto di credito alla prestazione previdenziale – Credito retributivo nei confronti del datore di lavoro – Insolvenza del datore di lavoro – Accertamento dell’esistenza e della misura del credito in sede di ammissione al passivo – Rigetto

Fatti di causa

1.– La signora D.V. ricorre per cassazione, sulla base di tre motivi, illustrati da memoria, contro la sentenza n. 520 del 2022, pronunciata dalla Corte d’appello di Palermo e depositata il 16 maggio 2022, che ha accolto il gravame dell’INPS contro la pronuncia del Tribunale della medesima sede e ha dunque respinto la domanda di condanna del Fondo di garanzia istituito presso l’INPS al pagamento della somma di Euro 5.377,69, a titolo di trattamento di fine rapporto (TFR), maturato nel corso del rapporto intrattenuto con la GE.S.I.P.s.p.a. in liquidazione.

2.– L’INPS resiste con controricorso.

3.– Il ricorso è stato fissato per la trattazione in camera di consiglio, ai sensi degli artt. 375, secondo comma, e 380-bis.1., primo comma, cod. proc. civ.

4.– Il Pubblico Ministero non ha depositato conclusioni scritte.

5.– All’esito della camera di consiglio, il Collegio si è riservato il deposito dell’ordinanza nei successivi sessanta giorni (art. 380-bis.1., secondo comma, cod. proc. civ.).

Ragioni della decisione

1.– La sentenza impugnata evidenzia che il diritto del lavoratore di ottenere dal Fondo istituito presso l’INPS la corresponsione del TFR, in caso d’insolvenza del datore di lavoro, si configura come diritto di credito ad una prestazione previdenziale, che si perfeziona al verificarsi dei presupposti tipizzati dalla legge.

Il TFR diviene esigibile solo al momento della cessazione del rapporto di lavoro e l’intervento solidaristico del Fondo di garanzia presuppone l’insolvenza del datore di lavoro che assume tale veste al momento in cui il TFR diviene esigibile.

La Corte d’appello di Palermo aderisce all’orientamento di questa Corte, che nega «la possibilità di azionare il Fondo di garanzia laddove l’insolvenza riguardi la precedente impresa cedente e non l’impresa cessionaria con la quale il rapporto di lavoro è continuato».

Una diversa interpretazione del dato normativo condurrebbe ad «azionare il Fondo quando lo scopo solidaristico che lo ispira non sussiste» (pagina 8 della sentenza impugnata).

In questa prospettiva, è ininfluente il provvedimento di ammissione al passivo della società cedente del credito della lavoratrice, per l’importo di Euro 5.377,69.

Tale provvedimento non vincola l’INPS, che è pur sempre terzo.

Nel caso di specie, è intercorso un trasferimento del ramo di azienda tra GE.S.I.P. s.p.a. in liquidazione (cedente) e Re.Se.T. s.p.a. (cessionaria) e si riscontra la «prosecuzione, senza interruzione, del rapporto di lavoro» (pagina 8 della pronuncia d’appello).

La Corte d’appello di Palermo puntualizza che tali conclusioni non mutano sol perché le parti hanno convenzionalmente derogato alla responsabilità solidale della cessionaria, stabilita dall’art. 2112 cod. civ., e hanno pattuito l’accollo in capo alla cedente dei debiti inerenti al TFR.

Tale previsione derogatoria, difatti, è inoperante, in quanto, al tempo dell’accordo, la cedente non era coinvolta in una procedura concorsuale e non risultavano, dunque, integrati i tassativi presupposti di validità della deroga.

2.– Contro le statuizioni della Corte d’appello di Palermo la ricorrente formula tre motivi di ricorso.

2.1.– Con il primo mezzo (art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ.), la ricorrente deduce violazione e falsa applicazione dell’art. 2120 cod. civ., dell’art. 2, primo e secondo comma, della legge 29 maggio 1982, n. 297, degli artt. 1362, 1363 e seguenti cod. civ.

Avrebbe errato la Corte d’appello di Palermo nel muovere dal presupposto della continuità del rapporto di lavoro nel passaggio da GE.S.I.P. a Re.Se.T., tralasciando la novità del rapporto di lavoro instaurato con quest’ultima società e la conseguente cessazione del rapporto di lavoro con GE.S.I.P.

Tali circostanze sarebbero dimostrate dalla stipulazione di nuovi contratti di lavoro individuali, con contenuti del tutto diversi, e di un nuovo contratto aziendale, di natura gestionale, tra Re.Se.T. e le organizzazioni sindacali.

La cessazione del rapporto di lavoro con GE.S.I.P. legittimerebbe, dunque, la lavoratrice a vantare le sue pretese nei confronti del Fondo di Garanzia.

Né l’INPS potrebbe contestare le risultanze dello stato passivo, che avrebbe accertato il credito dell’odierna ricorrente.

2.2.– Con la seconda critica (art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ.), la ricorrente si duole della violazione e della falsa applicazione dell’art. 47, commi 4-bis e 5, della legge 29 dicembre 1990, n. 428, della violazione dell’art. 12 delle preleggi e dell’art. 118 disp. att. cod. proc. civ.

La sentenza impugnata sarebbe erronea, in quanto avrebbe trascurato la deroga alle previsioni dell’art. 2112 cod. civ., sorretta da preminenti esigenze di salvaguardia dell’occupazione di un’impresa insolvente e sancita sotto l’egida del controllo pubblico dell’Ispettorato del lavoro e del Comune di Palermo.

2.3.– Con la terza doglianza (art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ.), la ricorrente prospetta, infine, l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio, oggetto di discussione fra le parti.

La Corte di merito, anche avvalendosi dei poteri istruttori officiosi, «avrebbe dovuto compiere un accertamento più penetrante» sulle procedure che approdarono all’intesa tra Comune di Palermo, GE.S.I.P. e Re.Se.T. e organizzazioni sindacali, intesa che prelude all’accordo di trasferimento del ramo d’azienda del 30 dicembre 2014, e sulle pronunce del Tribunale di Palermo, indicative di un aggravarsi della situazione debitoria di GE.S.I.P.

3.– I motivi possono essere scrutinati congiuntamente, per la connessione che li unisce, e, nel loro complesso, devono essere disattesi.

4.– Per giurisprudenza oramai consolidata di questa Corte, il diritto del lavoratore di ottenere la corresponsione del TFR dallo speciale Fondo di cui alla legge n. 297 del 1982 si configura come il diritto di credito a una prestazione previdenziale, distinto e autonomo rispetto al credito retributivo vantato nei confronti del datore di lavoro e rimasto insoddisfatto.

Il sorgere di tale diritto presuppone l’insolvenza del datore di lavoro e l’accertamento dell’esistenza e della misura del credito in sede di ammissione al passivo, ovvero all’esito di procedura esecutiva.

Quanto allo stato passivo, la sua definitività impedisce all’Istituto di «opporre eccezioni derivanti da ragioni interne al rapporto di lavoro che mirino a contestare esistenza ed entità dei crediti in ragione del concreto atteggiarsi delle situazioni giuridiche soggettive del lavoratore e del datore di lavoro» (Cass., sez. lav., 19 luglio 2018, n. 19277, punto 18 delle Ragioni della decisione).

All’INPS, tuttavia, non è preclusa la contestazione dei presupposti d’intervento del Fondo e degli elementi costitutivi della propria obbligazione previdenziale, autonoma rispetto a quella del datore di lavoro (Cass., sez. lav., 27 dicembre 2022, n. 37789, punto 4 dei Motivi della decisione).

In particolare, le risultanze dello stato passivo non sono opponibili all’INPS «in ordine agli elementi soggettivi e oggettivi al cui ricorrere scatti l’obbligo di tutela assicurativa interni alla stessa autonoma fattispecie previdenziale» (Cass., sez. VI-L, 6 dicembre 2021, n. 38696, punto 2 del Considerato).

Questa Corte è ferma nel ritenere «irrilevante e inopponibile all’INPS la stessa circostanza che il credito maturato per TFR fino al momento della cessione dell’azienda sia stato ammesso allo stato passivo nella procedura fallimentare del cedente (Cass. n. 19277 del 2018): scopo della direttiva Europea 80/987/CEE (di cui la legge n. 297 del 1982, art. 2, rappresenta recepimento) è infatti l’assicurazione di una copertura del Fondo di garanzia per i crediti insoddisfatti che siano maturati in quel determinato periodo di tempo in cui si può ragionevolmente presumere che l’inadempimento datoriale sia conseguenza della sua condizione di insolvenza, non anche la copertura di un qualsiasi inadempimento verificatosi in danno del lavoratore, essendo i crediti del lavoratore nelle vicende circolatorie dell’azienda oggetto di specifica tutela da parte di altre normative comunitarie» (Cass., sez. lav., 18 novembre 2022, n. 34032).

Non coglie nel segno, dunque, la censura, nella parte in cui prende le mosse dalla vincolatività delle risultanze dello stato passivo, vincolatività che anche la memoria illustrativa ribadisce (pagina 6).

5.– Tra gli elementi costitutivi della pretesa dedotta in causa, si annoverano l’obbligo attuale di pagamento del TFR e l’insolvenza di chisia datore di lavoro allorché tale obbligo sia azionabile (sentenza n. 19277 del 2018, cit., punto 22 delle Ragioni della decisione).

Alla stregua dell’art. 2120 cod. civ., «è necessario, innanzi tutto, che sia intervenuta la risoluzione del rapporto di lavoro.

Ciò, non solo perché il TFR non può essere preteso se non alla cessazione del rapporto di lavoro (vd. da ultimo Cass. n. 2827 del 2018), ma anche in quanto è la stessa fattispecie di cui all’art. 2 della legge n. 297 del 1982 che include la risoluzione del rapporto, espressamente, fra i presupposti di applicazione della tutela (sentenza n. 19277 del 2018, cit., il già richiamato punto 22 delle Ragioni della decisione).

Nella medesima linea interpretativa si collocano anche le pronunce di questa Corte, che, qualora l’azienda sia stata fatta oggetto di cessione anteriormente al fallimento del cedente, escludono dall’ammissione al concorso il credito, inerente al TFR, del lavoratore dell’azienda ceduta.

Tale credito – si rileva – matura progressivamente in ragione dell’accantonamento annuale e diviene esigibile solo al momento della cessazione definitiva del rapporto di lavoro (Cass., sez. I, 27 febbraio 2020, n. 5376).

6.– Da tali premesse, diffusamente richiamate dalla sentenza d’appello, discende che la funzione precipua del Fondo di garanzia è di proteggere il lavoratore dal rischio dell’insolvenza «di colui il quale è il proprio datore di lavoro al momento in cui il TFR diviene esigibile» (Cass., sez. lav., 23 febbraio 2021, n. 4897, punto 12 delle Ragioni della decisione).

Pertanto, «quando il fallimento o comunque l’insolvenza del datore di lavoro cedente intervenga dopo che sia cessato il rapporto di lavoro proseguito con il cessionario, l’intervento del Fondo di garanzia va circoscritto al caso in cui sia stato dichiarato insolvente ed ammesso alle procedure concorsuali il datore di lavoro che è tale al momento in cui il TFR diviene esigibile» (Cass., sez. lav., 7 marzo 2023, n. 6847, nel Considerato in diritto).

Non si ravvisano, dunque, i presupposti d’intervento del Fondo quando, in seguito alla circolazione dell’azienda, manchi «la relazione causale e temporale tra inadempimento datoriale ed insolvenza dichiarata con procedura concorsuale che costituisce l’ambito applicativo fisiologico dell’intervento del Fondo di garanzia legato allo scopo sociale della normativa Europea» (sentenza n. 19277 del 2018, cit., punto 31 delle Ragioni della decisione).

Riguardo a tali fattispecie, si deve ribadire che «il credito del lavoratore non è più relativo al periodo “determinato” che connota lo scopo sociale dell’obbligo di copertura assicurativa, ma viene agganciato, senza limiti temporali e prescindendo dalla attuale individuazione dei soggetti del rapporto di lavoro, ad uno degli ex datori di lavoro, interessati dalle vicende circolatorie pregresse, che viene dichiarato fallito in epoca in cui il rapporto di lavoro non è più in essere nei confronti del lavoratore istante perché proseguito con altro soggetto» (sentenza n. 19277 del 2018, cit., punto 32 delle Ragioni della decisione).

L’interpretazione estensiva distoglierebbe il Fondo di garanzia, «finanziato dai contributi dei datori di lavoro e dallo Stato, dalla sua funzione primaria, in contrasto con l’art. 2, ottavo comma, della leggen. 297 del 1982, che vieta d’impiegare le disponibilità del Fondo “al di fuori della finalità istituzionale del fondo stesso”» (sentenza n. 37789 del 2022, cit., punto 5 dei Motivi della decisione).

7.– È indicativo che sia stato necessario un intervento espresso del legislatore, con l’art. 368, comma 4, lettera d), del decreto legislativo  12 gennaio 2019, n. 14, per sancire quell’immediata esigibilità del trattamento di fine rapporto nei confronti del cedente dell’azienda, che rappresenta presupposto imprescindibile per l’attivazione del Fondo di garanzia.

Tale disciplina, peraltro circoscritta alla peculiare fattispecie del trasferimento riguardante «imprese nei confronti delle quali vi sia stata apertura della liquidazione giudiziale o di concordato preventivo liquidatorio, ovvero emanazione del provvedimento di liquidazione coatta amministrativa, nel caso in cui la continuazione dell’attività non sia stata disposta o sia cessata», è inapplicabile ratione temporis alla fattispecie controversa, come l’INPS non manca di osservare.

Inoltre, la normativa sopravvenuta, per il suo carattere marcatamente innovativo e per la netta discontinuità che interviene a segnare, non somministra utili indicazioni ermeneutiche in ordine alla disciplina previgente (sentenza n. 37789 del 2022, cit., punto 9.3. delle Ragioni della decisione).

8.– Sull’inesigibilità del diritto al TFR fa leva la sentenza impugnata (pagina 8), con argomentazioni che il ricorso non scalfisce in modo efficace e si rivelano, invece, dirimenti ai fini della declaratoria d’infondatezza della domanda.

Si dimostrano, per contro, assertive e generiche le deduzioni veicolate con il primo mezzo, allo scopo di contestare la sussunzione della fattispecie nelle coordinate dell’art. 2112 cod. civ. e di sollecitare un diverso apprezzamento dei fatti, peraltro in antitesi con la stessa impostazione difensiva di una valida deroga al regime di tutela che tale previsione appresta.

9.– Non sono decisivi, in senso contrario, accordi derogatori all’art. 2112 cod. civ., che comunque non rimuovono l’ostacolo dell’inesigibilità del credito, che si frappone all’accoglimento della pretesa azionata verso il Fondo (sentenza n. 37789 del 2022, cit., punto 8 dei Motivi della decisione).

Né si può sottacere che «l’intervento del Fondo di garanzia, costituendo adempimento di un’obbligazione pubblica che trova nella legge (in specie, comunitaria) la propria disciplina, non può che rimanere insensibile ad eventuali pattuizioni intercorse tra le parti private con cui – in deroga alla garanzia apprestata dall’art. 2112 cod. civ. – si sia esclusa la solidarietà dell’impresa cessionaria, trattandosi di res inter alios actae» (Cass., sez. lav., 7 marzo 2023, n. 6842, nel Considerato in diritto)

L’intervento del Fondo di garanzia è assoggettato a una disciplina imperativa, «distinta da quella civilistica che regola, ai sensi dell’art. 2112 cod. civ., i rapporti tra lavoratore, affittante e affittuario dell’azienda.

L’accordo sindacale concluso ai sensi dell’art. 47, comma5, della legge n. 428 del 1990 incide su tali rapporti, non sul rapporto previdenziale» (di recente, Cass., sez. lav., 17 giugno 2024, n. 16740).

10.– Peraltro, nel caso di specie, i giudici d’appello, con accertamento di fatto congruamente motivato e condotto in conformità ai criteri enucleati dalla giurisprudenza di questa Corte (Cass., sez. lav., primo giugno 2020, n. 10414), hanno escluso la riconducibilità degli accordi tanto alla previsione dell’art. 47, comma 4-bis, della legge n. 428 del 1990 quanto a quella delineata dal comma 5 della medesima disposizione.

Invero, nel caso di specie, a rigore non si riscontra un trasferimento riguardante «aziende: a) delle quali sia stato accertato lo stato di crisi aziendale, ai sensi dell’articolo 2, quinto comma, lettera c), della legge 12 agosto 1977, n. 675; b) per le quali sia stata disposta l’amministrazione straordinaria, ai sensi del decreto legislativo 8 luglio 1999, n. 270, in caso di continuazione o di mancata cessazione dell’attività; b-bis) per le quali vi sia stata la dichiarazione di apertura della procedura di concordato preventivo; b-ter) per le quali vi sia stata l’omologazione dell’accordo di ristrutturazione dei debiti» (art. 47, comma 4-bis, della legge n. 428 del 1990, nella formulazione applicabile ratione temporis).

Fattispecie che, peraltro, consentirebbe una diversa modulazione, non un azzeramento radicale, della tutela accordata dall’art. 2112 cod. civ.

Neppure si verte, stricto sensu, in tema di trasferimento concernente «imprese nei confronti delle quali vi sia stata dichiarazione di fallimento, omologazione di concordato preventivo consistente nella cessione dei beni, emanazione del provvedimento di liquidazione coatta amministrativa ovvero di sottoposizione all’amministrazione straordinaria» (art. 47, comma 5, della legge n. 428 del 1990, nella formulazione antecedente alle modificazioni introdotte dal d.lgs. n. 14 del 2019), giacché il trasferimento, risalente a epoca anteriore, non si colloca nell’alveo della procedura concorsuale, presidiata da garanzie e controlli stringenti, idonei a giustificare la deroga all’art. 2112 cod. civ.

Contro tali elementi, puntualmente richiamati nella sentenza impugnata e nel controricorso, s’infrangono le considerazioni formulate nel secondo e nel terzo mezzo, che pongono l’accento sulla finalità di mantenimento dell’occupazione e sull’ampio coinvolgimento delle istituzioni pubbliche nella fase prodromica all’intesa derogatoria e addebitano alla Corte d’appello di Palermo di non avere conferito il debito peso a tali circostanze.

Le doglianze non solo sconfinano nell’àmbito della valutazione delle prove, demandata ai giudici del merito, e ambiscono a un più favorevole inquadramento delle prove acquisite, a fronte di una sentenza che ha soppesato tutti i dati rilevanti.

Le critiche non rivestono nemmeno, a ben vedere, rilievo risolutivo.

In primo luogo, la portata derogatoria degli accordi è ancorata a presupposti tassativi, che devono essere intesi con rigore, in quanto si ripercuotono sulle fondamentali garanzie che competono al lavoratore in occasione del trasferimento d’azienda.

Le critiche della ricorrente adombrano, in realtà, una assimilazione del caso di specie a quelli tipizzati dalla legge, senza infirmare le divergenze sottolineate dai giudici d’appello.

Inoltre, il riconoscimento di una valida deroga non varrebbe ad elidere le circostanze già passate in rassegna, di per sé idonee a determinare il rigetto della domanda: l’inesigibilità del TFR, che l’INPS ha opposto alle pretese della lavoratrice secondo la legge ratione temporis applicabile, e l’inopponibilità all’Istituto, in quanto res inter alios acta, di un’intesa derogatoria che vanifichi la disciplina imperativa.

11.– Il ricorso, in ultima analisi, dev’essere rigettato.

12.– Le spese del presente giudizio, liquidate nella misura indicata in dispositivo alla stregua del valore della controversia e dell’attività processuale svolta, seguono la soccombenza.

13.– L’integrale rigetto del ricorso, proposto dopo il 30 gennaio 2013, impone di dare atto dei presupposti per il sorgere dell’obbligo della ricorrente di versare un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per la stessa impugnazione, ove sia dovuto (Cass., S.U., 20 febbraio 2020, n. 4315).

P.Q.M.

Rigetta il ricorso; condanna la parte ricorrente a rifondere alla parte controricorrente le spese del presente giudizio, che liquida in Euro 1.800,00 per compensi, in Euro 200,00 per esborsi, oltre al rimborso delle spese forfettarie nella misura del 15% e agli accessori di legge.

Dichiara la sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per la stessa impugnazione, a norma del comma 1-bis dell’art. 13 del d.P.R. n. 115 del 2002, ove dovuto.