CORTE di CASSAZIONE, sezione lavoro, Ordinanza n. 23992 depositata il 6 settembre 2024
Lavoro – Licenziamento – Giusta causa – Erede del defunto lavoratore licenziato – Esposizione sommaria dei fatti di causa – Inammissibilità
Fatti di causa
1. Con la sentenza in epigrafe indicata, la Corte d’appello di Messina rigettava il reclamo proposto da C.F., nella qualità di erede di C.R., contro la sentenza del Tribunale della medesima sede n. 1452/2020 che aveva respinto l’opposizione del citato C.R. (poi defunto nel corso del giudizio) all’ordinanza dello stesso Tribunale che, nella fase sommaria del procedimento ex lege n. 92/2012, pure aveva rigettato l’impugnativa giudiziale del licenziamento disciplinare per giusta causa intimato a C.R. con nota del 27.4.2016.
2. Avverso tale decisione C.F., sempre nella suddetta qualità di erede del defunto lavoratore licenziato, ha proposto ricorso per cassazione, affidato a cinque motivi.
3. L’intimata ha resistito con controricorso.
4. Entrambe le parti hanno depositato memoria.
Ragioni della decisione
1. Con il primo motivo il ricorrente denuncia “violazione e falsa applicazione dell’art. 654 c.p.p., in relazione all’articolo 360 n. 3 c.p.c. per avere i giudici di merito erroneamente ritenuto vincolanti le argomentazioni svolte dalla Corte di Appello penale, che, “sebbene avesse dichiarato non doversi procedere nei confronti del C.R. in relazione al reato ascritto, perché estinto per prescrizione, ne aveva, tuttavia, pienamente confermato il giudizio penale di responsabilità già espressa dal primo giudice, mantenendo ferme le statuizioni di condanna in favore delle parti civili”.
2. Con un secondo motivo denuncia “Violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 c.c., nonché omesso esame di un fatto decisivo e controverso, in relazione all’art. 360 n. 3 e 5 c.p.c.”, e sostiene che “I primi due motivi possono essere esaminati congiuntamente perché connessi”
3. Un terzo motivo è rubricato come segue: “Giusta causa di licenziamento.
Violazione e/o falsa applicazione dell’art. 1 legge 604/66 e dell’art. 2119 c.c. in relazione all’art. 360 n. 3 e 5 c.p.c.”.
4. Con un quarto motivo il ricorrente denuncia “Violazione e/o falsa applicazione dell’art. 654 c.p.p. e degli artt. 2119 e 2697 c.c. in relazione all’art. 360 n. 3 e 5 c.p.c., omesso esame di un fatto decisivo e controverso”.
5. Con un quinto motivo assume che “Per i su esposti motivi le spese del giudizio andavano poste a carico di B.B. s.p.a.”.
6. Il ricorso è inammissibile.
7. Secondo le Sezioni unite di questa Corte, il ricorso per cassazione deve essere redatto in conformità ai principi di chiarezza e sinteticità espositiva, occorrendo che il ricorrente selezioni i profili di fatto e di diritto della vicenda sub iudice posti a fondamento delle doglianze proposte, in modo da offrire al giudice di legittimità una concisa rappresentazione dell’intera vicenda giudiziaria e delle questioni giuridiche prospettate e non risolte o risolte in maniera non condivisa, per poi esporre le ragioni delle critiche nell’ambito della tipologia dei vizi elencata dall’art. 360 c.p.c.;
tuttavia l’inosservanza di tali doveri può condurre ad una declaratoria di inammissibilità dell’impugnazione soltanto quando si risolva in una esposizione oscura o lacunosa dei fatti di causa o pregiudichi l’intellegibilità delle censure mosse alla sentenza gravata, così violando i requisiti di contenuto-forma stabiliti dai nn. 3 e 4 dell’art. 366 c.p.c. (così Cass., sez. un., 30.11.2021, n. 37552).
8. Sempre per le Sezioni unite, inoltre, il ricorso per cassazione deve essere articolato in specifiche censure riconducibili in maniera immediata ed inequivocabile ad uno dei cinque motivi di impugnazione previsti dall’art. 360, comma 1, c.p.c., sicché, pur senza la necessaria adozione di formule sacramentali o l’esatta indicazione numerica di uno dei predetti motivi, è indispensabile che le censure individuino con chiarezza i vizi prospettati, tra quelli inquadrabili nella tassativa griglia normativa (in tal senso Cass., sez. un., 8.11.2021, n. 32415).
9. Ebbene, il ricorso in esame risulta concepito e redatto in chiaro contrasto con i suddetti principi di diritto.
9.1. Più in particolare, in tale atto d’impugnazione manca del tutto “l’esposizione sommaria dei fatti di causa”, richiesta dall’art. 366, comma primo, n. 3) c.p.c. (nel testo vigente all’epoca di proposizione del ricorso per cassazione). Invero, il ricorrente, in sede di “Svolgimento del processo”, si limita a riportare testualmente che: “Con sentenza n. 400/21, depositata in data 11.08.2021, la Corte d’Appello di Messina sezione feriale ha rigettato il reclamo proposto da C.F., nella qualità, avverso la sentenza n. 1425/20 del Tribunale di Messina – Giudice del lavoro, ed ha confermato la sentenza impugnata, condannando il C. al pagamento delle spese processuali” (v. pag. 2 del ricorso per cassazione), per poi subito passare all’esposizione dei cinque motivi d’impugnazione (cfr. pagg. 2-12 dello stesso atto).
9.2. E’ pur vero che si è ritenuto che, in tema di giudizio di legittimità, per soddisfare il requisito dell’esposizione sommaria dei fatti di causa prescritto, a pena d’inammissibilità del ricorso per cassazione dal n. 3 dell’art. 366 c.p.c., non è necessario che tale esposizione costituisca parte a sé stante del ricorso, ma è sufficiente che essa risulti in maniera chiara dal contesto dell’atto, attraverso lo svolgimento dei motivi (così Cass., sez. III, 28.6.2018, n. 17036).
9.3. Nel ricorso in esame, tuttavia, non solo è senz’altro graficamente assente una parte dell’atto dedicata all’esposizione sommaria dei fatti, ma la stessa non è affatto desumibile in modo chiaro dallo svolgimento dei singoli motivi d’impugnazione.
Invero, una sia pur “concisa rappresentazione dell’intera vicenda giudiziaria e delle questioni giuridiche prospettate e non risolte o risolte in maniera non condivisa” non è dato poter desumere dallo stesso svolgimento dei cinque motivi proposti, a loro volta, ben poco perspicui.
Ognuna di tali censure, infatti, entra in medias res, mancandovi, ad es., la previa esposizione di cosa precisamente fosse stato contestato al lavoratore in sede disciplinare.
L’intelligibilità di tali motivi è quindi irrimediabilmente pregiudicata da quanto sin qui rilevato.
10. Il ricorrente, in quanto soccombente, dev’essere condannato al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese di questo giudizio di legittimità, liquidate come in dispositivo, ed è tenuto al versamento di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, ove dovuto.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso.
Condanna il ricorrente al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in € 200,00 per esborsi ed € 5.500,00 per compensi professionali, oltre al rimborso forfettario delle spese generali nella misura del 15%, IVA e CPA come per legge.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da