CORTE di CASSAZIONE, sezione lavoro, Ordinanza n. 26446 depositata il 10 ottobre 2024
Lavoro – Licenziamento disciplinare – Frasi denigratorie nei confronti della società – Salubrità degli ambienti di lavoro – Stato di ira – Reintegra – CCNL Settore Gas Acqua – Azioni costituenti delitto – Proporzionalità della sanzione rispetto al fatto contestato – Rigetto
Rilevato che
1. Con lettera del 31.5.2019, in esito ad una contestazione del 7.5.2019, la P. spa intimava licenziamento disciplinare alla dipendente D.O.P. per avere pubblicato il 12.4.2019, sul suo profilo Facebook, “frasi altamente denigratorie, offensive e diffamatorie nei confronti della società e, in particolare, verso la persona del suo amministratore delegato ingegnere P.T.S.”.
2. Impugnato il recesso il Tribunale di Firenze, sia in fase sommaria che in sede di opposizione ex lege n. 92 del 2012, rigettava le domande della lavoratrice.
3. Proposto reclamo la Corte di appello di Firenze, con la sentenza n. 110 del 2022, dopo avere svolto attività istruttoria, annullava il licenziamento e condannava la società a reintegrare D.O.P. nel posto di lavoro, a corrisponderle una indennità risarcitoria nella misura massima di dodici mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, oltre accessori, nonché alla regolarizzazione della posizione contributiva.
4. I giudici di seconde cure, premesso che i fatti oggetto dell’addebito erano inquadrabili nelle vicende legate alla salubrità degli ambienti della palazzina cd. D., sita in via V. a Firenze, che ospitava all’epoca dei fatti anche l’impianto di potabilizzazione di P. spa, oltre ad una sessantina di dipendenti amministrativi, in aggiunta al personale addetto all’impianto, rilevavano che nell’aprile del 2019 si era verificata una fuoriuscita di sostanze tossiche nei locali nella palazzina suddetta e risultarono intossicati sei lavoratori.
5. La Corte territoriale sottolineava che, in relazione a tale episodio, preceduto da una lunga serie di doglianze dei lavoratori riguardanti la salubrità dell’area dello stabile, la P., la quale nell’occasione aveva avuto il marito infortunato, aveva scritto le frasi contestate sul profilo Facebook.
6. I giudici del reclamo, pertanto, dovendosi ritenere che ricorreva, nella fattispecie, l’ipotesi della esimente di cui all’art. 599 cp (avere commesso i fatti di cui all’art. 595 cp nello stato di ira determinato da un fatto ingiusto altrui e subito dopo di esso), escludevano che il fatto addebitato potesse essere qualificato come delitto per il quale il CCNL di categoria prevedeva il licenziamento per giusta causa.
I medesimi giudici evidenziavano anche che non si verteva in una ipotesi di insubordinazione, non ravvisabile nei commenti in contestazione; consideravano, inoltre, che le condotte commesse non integravano comunque la nozione legale di giusta causa o del giustificato motivo soggettivo proprio per le ragioni esposte in ordine alla sussistenza dei presupposti di cui all’art. 599 cp, operanti anche a livello putativo, alla anzianità aziendale della P. e al fatto di non avere ricevuto alcuna precedente sanzione disciplinare.
La Corte territoriale, pertanto, riteneva illegittimo il recesso per essere l’illecito sproporzionato rispetto alla sanzione irrogata, pur avendo la vicenda rilievo disciplinare.
7. Quanto alla tutela da applicare, i giudici di secondo grado ritenevano i fatti addebitati quali comportamenti lesivi della dignità della persona, anche in ragione della condizione sessuale, puniti dalla contrattazione collettiva con sanzione conservativa, non ravvisando, invece, ai fini della applicabilità della sanzione del licenziamento senza preavviso, azioni costituenti delitti a termini di legge ovvero gravi comportamenti lesivi della dignità delle persona in ragione della condizione sessuale ovvero comportamenti reiterati che assumano forma di violenza morale o atti di discriminazione.
Ne derivava, secondo la Corte di appello, l’applicazione dell’art. 18 co. 4 legge n. 300 del 1970 e, quindi, la reintegra attenuta con il riconoscimento della indennità risarcitoria nella misura massima di dodici mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, oltre accessori, non dovendo essere detratto nulla a titolo di aliunde perceptum essendosi la lavoratrice rioccupata oltre i dodici mesi dal licenziamento e non essendo la Naspi, percepita medio tempore, reddito di lavoro.
8. Avverso la sentenza di secondo grado la P. spa proponeva ricorso per cassazione affidato a cinque motivi cui resisteva con controricorso l’intimata.
9. Le parti depositavano memorie.
10. Il Collegio si riservava il deposito dell’ordinanza nei termini di legge ex art. 380 bis 1 cpc.
Considerato che
1. I motivi possono essere così sintetizzati.
2. Con il primo motivo la ricorrente denuncia la violazione e falsa applicazione degli artt. 599 e 59 co. 4 cp, degli artt. 2104, 2106 e 2119 cc nonché dell’art. 3 legge n 604/1966, ai sensi dell’art. 360 co. 1 n. 3 cpc, per avere erroneamente la Corte territoriale ritenuto che non costituisse delitto la condotta gravemente denigratoria tenuta dalla P. e, quindi, che non rientrasse nella fattispecie di cui all’art. 21 co. 5 del CCNL Settore Gas Acqua che prevedeva il licenziamento disciplinare per il caso in cui il dipendente aveva commesso azioni che costituivano delitto a termini di legge.
La società sostiene che la Corte fiorentina, in base ad una erronea interpretazione dell’art. 599 cp, da un lato, non aveva considerato che l’art. 599 cp esclude la punibilità del reato ma non anche la natura di illecito civile del fatto; dall’altro che, ai fini della operatività della non punibilità del fatto, occorreva che la provocazione doveva verificarsi in un momento immediatamente precedente alla reazione dell’autore del fatto; sottolinea, infine, che la valutazione di un atto disciplinarmente rilevante doveva rivestire autonomia rispetto ai profili penalistici.
3. Con il secondo motivo si eccepisce l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio, oggetto di discussione tra le parti, ai sensi dell’art. 360 co. 1 n. 5 cpc. Si rappresenta che la Corte territoriale, sul presupposto che era stato intimato, a seguito della graduazione della sanzione, licenziamento con preavviso in relazione a tre condotte contestate (avere affermato che l’Amministratore delegato in una occasione si sarebbe rivolto verso la dipendente con l’epiteto “testa di cazzo”; avere profferito all’indirizzo dell’ingegnere S. l’offesa “che muoia quel coglione”; avere scritto che la società, nei confronti dei propri dipendenti, si era comportata nel senso che “gl’hanno dato i flit come le mosche”) aveva valutato solo i comportamenti lesivi della dignità della persona (amministratore delegato) ma non anche le frasi offensive della reputazione e della immagine della società.
4. Con il terzo motivo la ricorrente si duole della violazione e falsa applicazione degli artt. 2082, 2094, 2104, 2106 e 2119 cc, nonché dell’art. 3 della legge n. 604/1966, ai sensi dell’art. 360 co. 1 n. 3 cpc, per avere erroneamente la Corte di appello escluso che, nella condotta della lavoratrice, non fossero ravvisabili gli estremi della insubordinazione grave trattandosi comunque di un comportamento da cui conseguiva un riflesso negativo sull’ordinata attività aziendale, lì dove era appunto diretto sia nei confronti dell’amministratore delegato che della società, e per non avere tenuto conto che il licenziamento era avvenuto per giustificato motivo soggettivo e non per giusta causa.
5. Con il quarto motivo la ricorrente lamenta la violazione e falsa applicazione degli artt. 1324, 1362, 1363, 2082, 2094, 2104, 2106 e 2119 cc, 21 CCNL 18.5.2017 per i lavoratori del Settore Gas Acqua, art. 3 legge n. 604/1966, 30 legge n. 183/2010 e 18 co. 4 legge n. 300 del 1970, ai sensi dell’art. 360 co. 1 n. 3 cpc, per avere la Corte distrettuale operato il giudizio di graduazione della sanzione anche se il fatto contestato ed accertato non era espressamente contemplato da una previsione di fonte negoziale vincolante per il datore di lavoro e per non avere accertato se l’illecito addebitato, per le sue caratteristiche oggettive e soggettive, integrasse un notevole inadempimento degli obblighi del prestatore di lavoro anche al di là della sussistenza della giusta causa ex art. 2119 cc.
6. Con il quinto motivo la società obietta la violazione e falsa applicazione dell’art. 18 co. 4 legge n. 300 del 1970, ai sensi dell’art. 360 co. 1 n. 3 cpc, per non avere considerato, ai fini dell’aliunde perceptum, i redditi di lavoro percepiti dalla dipendente nel periodo oltre i dodici mesi dal licenziamento quando, invece, la lettera della legge non avvalorava tale interpretazione (“dal giorno del licenziamento a quello della effettiva reintegrazione”).
7. Il primo motivo è infondato.
8. L’art. 21 n. 5 del CCNL Settore Gas – Acqua, applicabile al caso di specie, per quello che interessa in questa sede, testualmente recita: “Verrà comminata la sanzione del licenziamento senza preavviso a quei lavoratori che commettono infrazioni alla disciplina ed alla diligenza del lavoro che siano così gravi da non consentire la prosecuzione nemmeno provvisoria del rapporto di lavoro o che commettano azioni che costituiscono delitto a termine di legge, anche non specificamente richiamate nel presente Contratto, come ad esempio: – pone in essere gravi comportamenti lesivi della dignità della persona in ragione della condizione sessuale […]”.
9. Il primo problema che viene posto con la censura è quello di accertare se, allorquando la contrattazione collettiva fa riferimento testuale al concetto di “delitto”, la verifica giudiziale in ambito lavoristico debba essere autonoma rispetto a quella penale e se una eventuale causa di non punibilità in concreto possa incidere anche sulla natura di illecito civile del fatto.
10. Il secondo problema concerne, invece, la corretta applicazione dell’art. 599 cp come effettuata dalla Corte distrettuale.
11. Con riguardo alla prima questione, i giudici di seconde cure si sono attenuti ai principi, statuiti in sede di legittimità in relazione alla risarcibilità del danno non patrimoniale ex art. 2059 cod. civ. ma validi anche per il caso de quo, secondo cui l’inesistenza di una pronuncia del giudice penale non costituisce impedimento all’accertamento da parte del giudice civile della sussistenza degli elementi costitutivi del reato e, in ogni caso, l’accertamento del giudice civile deve essere condotto secondo la legge penale e deve avere ad oggetto l’esistenza del reato in tutti i suoi elementi oggettivi e soggettivi, ivi comprese eventuali cause di giustificazione e l’eccesso colposo ad esse relativo (Cass. n. 1643/2000; Cass. n. 20684/2009).
12. Il giudice civile deve, pertanto, accertare “incidenter tantum” l’esistenza del reato, nei suoi elementi obiettivi e soggettivi, individuandone l’autore e procedendo al relativo accertamento nel rispetto dei canoni della legge penale (Cass. n. 13425/2000).
13. In modo corretto, quindi, la Corte territoriale ha svolto un accertamento anche circa la non punibilità del fatto, costituente reato doloso, in concreto e in ordine, quindi, alla ravvisabilità della condotta quale delitto per escludere l’ipotesi sanzionata con il licenziamento senza preavviso dalla contrattazione collettiva.
14. La Corte territoriale, poi, in modo esaustivo si è comunque pronunciata anche sulla problematica se la condotta riscontrata (attraverso i suoi elementi oggettivo e soggettivo nonché le causa di non punibilità) potesse essere comunque rilevante ai fini della sussistenza della giusta causa di licenziamento.
15. La conclusione raggiunta è stata negativa in quanto gli stessi fatti, che sul piano penalistico sono stati ritenuti idonei ad escludere la esistenza di un delitto, sono stati poi considerati rilevanti, sul piano del rapporto di lavoro, ai fini della valutazione della non gravità del fatto, essendo stato qualificato come uno “sfogo” legato alla particolare emotività determinata da un accadimento contingente che la lavoratrice, non irragionevolmente, aveva ritenuto potersi essere realizzato e, secondo lei, ingiustamente minimizzato dalla datrice di lavoro.
16. La Corte di appello, in conclusione, ha svolto un completo e condivisibile esame della vicenda, sia sotto il profilo penalistico che sotto quello civilistico, giungendo, con un accertamento di fatto esente dai vizi di cui all’art. 360 co. 1 n. 5 cpc, al risultato di escludere la possibilità di irrogare la sanzione espulsiva, pur in presenza di un rilievo disciplinare della condotta.
17. Con riferimento agli aspetti più propriamente penalistici, ritiene questo Collegio che anche l’applicabilità della causa di non punibilità della provocazione, di cui all’art. 599 cp, la cui natura giuridica in sede di legittimità è stata individuata quale scusante e non come scriminante (Cass. pen. V n. 26477/2021), sia corretta.
18. Si è, infatti, in presenza di un fatto ingiusto (fuga di sostanze tossiche avvenuta in ambiente lavorativo, quale evento che non può trovare giustificazione in disposizioni normative o nelle regole del vivere della civile convivenza– Cass. pen. V n. 4943/2021), ritenuto a livello putativo di responsabilità della datrice di lavoro (sulla possibilità della putatività cfr. Cass. pen. V n. 37950/2017), con una reazione istantanea (da intendersi in senso relativo, Cass. pen. V n. 8097/2007, e opinata sussistente in quanto i fatti sono avvenuti nell’aprile del 2019 in un contesto di reale contiguità temporale), da parte di un soggetto (la P.) che era comunque coinvolto in quanto era rimasto infortunato nell’evento il marito e, quindi, in presenza di uno stato di ira.
19. Il secondo motivo non è parimenti meritevole di accoglimento.
20. Premessa la differenza fra l’omessa pronuncia di cui all’art. 112 cod. proc. civ. e l’omessa motivazione su un punto decisivo della controversia di cui all’art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ., applicabile “ratione temporis”, nel senso che, nella prima, l’omesso esame concerne direttamente una domanda od un’eccezione introdotta in causa (e, quindi, nel caso del motivo d’appello, uno dei fatti costitutivi della “domanda” di appello), mentre nella seconda ipotesi l’attività di esame del giudice, che si assume omessa, non concerne direttamente la domanda o l’eccezione, ma una circostanza di fatto che, ove valutata, avrebbe comportato una diversa decisione su uno dei fatti costitutivi della domanda o su un’eccezione e, quindi, su uno dei fatti principali della controversia (Cass. n. 25761/2014), nella fattispecie in esame, anche riqualificando la censura, alcuno dei due vizi è ravvisabile.
21. La Corte territoriale, invero, ha tenuto presente pure la circostanza della frase (“ai dipendenti gli hanno dato i flit come le mosche”), come si evince dallo storico della impugnata pronuncia e, dall’impianto decisionale della sentenza, emerge con chiarezza che ha escluso che le condotte addebitate alla lavoratrice valessero ad integrare “gli illeciti specificamente richiamati nella lettera di licenziamento (un’ipotesi di delitto, insubordinazione grave)” – cfr. pag. 10, 2° cpv.
22. Vi è stata una decisione, pertanto, ragionata e riguardante entrambi gli illeciti oggetto della contestazione disciplinare e non, invece, limitata solo alle frasi rivolte verso l’amministratore delegato, come sostiene parte ricorrente.
23. E’ opportuno, poi, precisare che l’art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ., riformulato dall’art. 54 del d.l. 22 giugno 2012, n. 83, conv. in legge 7 agosto 2012, n. 134, ha introdotto nell’ordinamento un vizio specifico denunciabile per cassazione, relativo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (vale a dire che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia) – cfr. Cass. n. 8053/2014: va sottolineato, inoltre, che dalla articolazione della censura tale decisività non emerge con chiarezza.
24. Il terzo motivo è infondato.
25. In tema di licenziamento disciplinare, la nozione di insubordinazione non può essere limitata al rifiuto di adempimento delle disposizioni dei superiori, ma ricomprende qualsiasi comportamento atto a pregiudicare l’esecuzione e il corretto svolgimento delle suddette disposizioni nel quadro dell’organizzazione aziendale (Cass. n. 7795/2017; Cass. n. 13411/2020).
26. Nel caso in esame, correttamente entrambi i giudici del merito hanno escluso che gli addebiti mossi rientrassero nell’ambito applicativo del concetto di insubordinazione, in quanto concretamente la vicenda non aveva riguardato aspetti che afferivano all’osservanza di disposizioni interne dettate dal datore di lavoro circa l’uso di beni aziendali con la messa in discussione dell’autorità dei preposti della datrice di lavoro, bensì concerneva l’uso di espressioni, obiettivamente offensive e diffamatorie, proferite in una situazione in cui il rischio di un evento, più volte denunciato, si era invece verificato.
27. Non è ravvisabile, quindi, sia un rifiuto di adempimento delle disposizioni dei superiori gerarchici, che incide sull’obbligo di diligenza della prestazione lavorativa, sia l’inosservanza delle disposizioni per l’esecuzione e per la disciplina del lavoro impartite dall’imprenditore o dai suoi collaboratori (art. 2104 cod. civ.).
28. Quanto, poi, alla obiezione che la Corte territoriale non aveva tenuto conto che il licenziamento era avvenuto per giustificato motivo soggettivo e non per giusta causa, deve precisarsi che i giudici di seconde cure hanno considerato in modo esatto tale circostanza, evidenziando che il licenziamento era stato intimato con preavviso solo in considerazione dell’assenza di precedenti disciplinari della P. e non per la mancanza di giusta causa, come effettivamente risulta dal provvedimento di recesso.
29. Il quarto motivo è infondato nella parte in cui si critica che la Corte territoriale aveva operato impropriamente un giudizio di graduazione della sanzione anche se il fatto contestato ed accertato non era espressamente contemplato da una previsione di fonte negoziale vincolante per il datore di lavoro.
30. L’operato dei giudici di seconde cure è, infatti, in linea con il recente orientamento della giurisprudenza di legittimità (Cass. n. 11165/2022; Cass. n. 20780/2022) secondo cui, in tema di licenziamento disciplinare, al fine di selezionare la tutela applicabile tra quelle previste dall’art. 18, commi 4 e 5, della l. n. 300 del 1970, come novellato dalla l. n. 92 del 2012, il giudice può sussumere la condotta addebitata al lavoratore, e in concreto accertata giudizialmente, nella previsione contrattuale che, con clausola generale ed elastica, punisca l’illecito con sanzione conservativa, né detta operazione di interpretazione e sussunzione trasmoda nel giudizio di proporzionalità della sanzione rispetto al fatto contestato, restando nei limiti dell’attuazione del principio di proporzionalità, come eseguito dalle parti sociali attraverso la previsione del contratto collettivo.
31. Infatti, la Corte di appello ha ritenuto la condotta accertata, con un corretto procedimento di sussunzione, rientrante nella ipotesi di chi “pone in essere comportamenti lesivi della dignità della persona, anche in ragione della condizione sessuale”, puniti con la sanzione conservativa della sospensione dal lavoro e dalla retribuzione perché il fatto accertato era stato sì considerato offensivo ma, come sopra detto, non punibile come delitto e, quindi, non sussumibile nelle fattispecie sanzionate con il licenziamento senza preavviso.
32. Tale accertamento determina, poi, l’assorbimento della trattazione della doglianza della seconda parte del motivo, ove si lamenta la mancata valutazione sul fatto che l’illecito addebitato comunque avrebbe potuto integrare un notevole inadempimento degli obblighi del prestatore di lavoro tale da essere passibile di licenziamento con preavviso, anche al di là della sussistenza della giusta causa ex art. 2119 cod. civ: ciò proprio perché, una volta ritenuta la condotta punibile, secondo il contratto collettivo, con sanzione conservativa, ogni problematica sulla consistenza dell’inadempimento della prestazione lavorativa resta ultronea.
33. Il quinto motivo è, infine, infondato.
34. Oltre al difetto di specificità della censura nella sua esatta e precisa articolazione, va osservato che la gravata sentenza è conforme ai precedenti di questa Corte (Cass. n. 3824/2022; Cass. n. 3823/2022) la quale ha precisato che, in base all’art. 18, comma 4, della l. n. 300 del 1970, come modificato dall’art. 1, comma 42, della l. n. 92 del 2012, la determinazione dell’indennità risarcitoria deve avvenire attraverso il calcolo dell’ultima retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento sino a quello dell’effettiva reintegrazione, dedotto quanto il lavoratore ha percepito, nel periodo di estromissione, a titolo di “aliunde perceptum” o “percipiendum”, e, comunque, entro la misura massima corrispondente a dodici mensilità della retribuzione globale di fatto, senza che possa attribuirsi rilievo alla collocazione temporale della o delle attività lavorative svolte dal dipendente licenziato nel corso del periodo di estromissione; se il risultato di questo calcolo è superiore o uguale all’importo corrispondente a dodici mensilità di retribuzione, l’indennità va riconosciuta in misura pari a tale tetto massimo.
35. Nella fattispecie, per una migliore comprensione dei fatti, va sottolineato che, a fronte del licenziamento intimato in data 31.5.2019 e della reintegra disposta con sentenza di secondo grado del 16.12.2021, la rioccupazione del lavoratore è stata dall’1.3.2021 al 28.2.2022, con contratto a termine con scadenza 28.2.2022.
36. Alla stregua di quanto esposto, il ricorso deve essere rigettato.
37. Al rigetto segue la condanna della ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità che si liquidano come da dispositivo.
38. Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, del DPR n. 115/02, nel testo risultante dalla legge 24.12.2012 n. 228, deve provvedersi, ricorrendone i presupposti processuali, sempre come da dispositivo.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso.
Condanna la ricorrente al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del presente giudizio che liquida in euro 5.500,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in euro 200,00 ed agli accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, del DPR n. 115/02 dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13, se dovuto.