Corte di Cassazione, sezione lavoro, ordinanza n. 27443 depositata il 23 ottobre 2024

sanzioni amministrative e principio di legalità ed il divieto di retroattività in malam partem

Rilevato che 

1. G.G., quale titolare dell’omonima ditta individuale, impugnava, chiedendone l’annullamento, l’atto di irrogazione di sanzioni n. 891LSA 30060 emesso dall’Agenzia delle Entrate di Caltanissetta in conseguenza dell’esito dell’attività ispettiva svolta da personale INPS il quale nel corso di un accesso presso l’esercizio di ristorazione nella titolarità della G.G. aveva individuato all’interno dell’esercizio due soggetti che prestavano attività di lavoro senza che il relativo nominativo fosse annotato nei libri contabili o negli altri libri obbligatori;

2. il giudice di primo grado, in parziale accoglimento dell’impugnazione, rideterminava la somma dovuta a titolo di sanzione amministrativa da € 27.282,00 a € 3.000,00 e dichiarava irripetibili le spese del giudizio;

3. la Corte di appello di Caltanissetta ha riformato la decisione confermando la originaria sanzione amministrativa di € 27.282,00 applicata.

3.1 la statuizione è stata fondata sulla considerazione che la G.G., sulla quale ricadeva il relativo onere, non aveva offerto la prova relativa al momento di avvio del rapporto di lavoro non regolarmente denunciato di talché, in assenza di tale prova, operava la presunzione ex lege che il contratto avesse avuto inizio il primo gennaio dell’anno dell’accertamento; risultava pertanto corretta la sanzione amministrativa nella misura originariamente determinata dall’Agenzia dell’entrate che teneva conto del principio del favor rei di cui all’art. 3 comma 3 d. lgs n.. 472/1997 alla stregua del quale doveva applicarsi al trasgressore la sanzione più favorevole; tale era quella applicata dall’Agenzia ove confrontata con quella ottenuta applicando i nuovi criteri di calcolo introdotti dall’art. 3 comma 3 d.l. n. 12/2002;

4. per la cassazione della decisione ha proposto ricorso G.G. sulla base di tre motivi; la parte intimata ha depositato controricorso;

Considerato che 

1. con il primo motivo di ricorso parte ricorrente deduce ex art. 360, comma 1 n. 4 c.p.c. violazione dell’art. 132, comma 2 n. 4 c.p.c. censurando la sentenza impugnata per difetto di comprensibilità del percorso logico giuridico alla base della decisione, in particolare sotto il profilo dell’accertamento del lavoro irregolare, valutazione che avrebbe logicamente dovuto precedere ogni altra; assume la nullità della sentenza stante il mero rinvio per relationem alla sentenza di primo grado;

2. con il secondo motivo deduce ex 360, comma 1 n. 3 c.p.c., violazione dell’art. 3 d.l. 12 /2002 conv. nella l. n. 73/2002, come modificato dall’art. 36 bis comma 7 lett. a ) d.l. n. 223/2006, censurando la sentenza impugnata per non avere applicato, in conformità della previsione dell’art. 3 d. lgs. n. 472/1997, la legge più favorevole al trasgressore, nello specifico rappresentata dall’art. 36 bis cit., il quale, secondo parte ricorrente, implicava, tra l’altro, che al fine della misura della sanzione dovesse tenersi conto dei giorni effettivi di sussistenza della violazione e non, come previsto dalla disciplina precedente, del periodo compreso tra l’inizio dell’anno e quello della contestazione;

3. con il terzo motivo deduce ex 360, comma 1 n. 3 c.p.c. , violazione dell’art. 3 d.l. n. 12/2002 e dell’art. 3 d. lgs. n. 472 del 1997, censurando in sintesi che la determinazione del costo del lavoro fosse stata parametrata al massimo orario lavorativo previsto dal contratto collettivo anziché tenere conto di concrete circostanze fattuali quali la esistenza di altri rapporto di lavoro in capo ai soggetti rinvenuti all’interno dell’esercizio e la diversa intensità di lavoro di una pizzeria nei vati giorni della settimana;

4. il primo motivo di ricorso è infondato;

4.1 la sentenza impugnata è infatti pienamente comprensibile nei suoi presupposti fattuali e giuridici che si sviluppano nell’ambito di quanto effettivamente devoluto con l’appello dell’Agenzia; invero, secondo lo storico di lite della sentenza impugnata, l’Agenzia delle Entrate aveva censurato la sentenza di prime cure in quanto pur avendo accertato la esistenza, al momento dell’accesso ispettivo del 7 giugno 2003, di un rapporto di lavoro subordinato con i due lavoratori rinvenuti all’interno dell’esercizio, aveva ritenuto come effettivamente svolta la attività irregolare per la sola giornata del 7 giugno 2003. Pertanto la Corte, dato atto dell’assenza di qualsivoglia allegazione probatoria dalla quale potesse farsi decorrere la data di inizio del rapporto di lavoro in coincidenza con il giorno dell’accertamento ispettivo, ha applicato, la presunzione di decorrenza del rapporto di lavoro dall’inizio dell’anno. L’ambito devoluto al giudice di secondo grado, secondo la ricostruzione della sentenza di appello, non concerneva, quindi, la esistenza di un rapporto di lavoro subordinato con i soggetti rinvenuti all’interno del locale – rapporto accertato dalla sentenza di primo grado- ma solo il criterio di applicazione delle sanzioni con specifico riferimento all’accertamento della decorrenza dei rapporti in contestazione;

4.2 tale ricostruzione non è validamente contrastata sul punto dal ricorso per cassazione della G.G.. Dalla sentenza impugnata non risulta, infatti, né nell’intestazione, né nello storico di lite, né nella parte motiva, la proposizione da parte della G.G. di appello incidentale rispetto al quale configurare a carico del giudice di appello un obbligo di motivazione in merito alla natura subordinata o meno dei rapporti in controversia; è pur vero che dalle conclusioni formulate dalla appellata G.G., quali trascritte nella sentenza impugnata, emerge che in secondo grado la suddetta aveva chiesto l’annullamento in toto dell’atto di irrogazione della sanzione, tuttavia in nessun modo emerge che tale richiesta sia stata veicolata, come necessario, dalla formale proposizione di appello incidentale notificato a controparte. Né a diversa conclusione è dato pervenire sulla scorta della ripetuta evocazione, nel ricorso per cassazione, di un asserito atto di appello incidentale della G.G., essendo rimasto indimostrato in termini coerenti con il principio di autosufficienza del ricorso per cassazione, sia la effettiva proposizione di un’impugnazione incidentale sia le stesse pretese ragioni di censura alla sentenza di primo grado, in tesi svolte con appello incidentale, rispetto alle quali avrebbe dovuto essere denunziata la omessa pronunzia e non la violazione dell’obbligo di motivazione; manca inoltre la stessa allegazione e prova che eventuali ragioni di doglianza alla sentenza di primo grado erano state veicolate della notificazione del preteso appello incidentale, come richiesto dall’art. 436 c.p.c.;

5. il secondo motivo di ricorso è infondato;

5.1 non vi è spazio, infatti, per l’applicazione del trattamento sanzionatorio invocato dall’odierna ricorrente in luogo di quello ritenuto corretto dalla Corte di merito, la cui motivazione tuttavia deve essere parzialmente modificata alla luce di quanto si dirà in seguito;

5.2 occorre premettere che in tema di sanzioni amministrative vige il principio di legalità (art. 1 l. 689 1981 primo comma) ma non il principio penalistico di retroattività delle disposizioni sanzionatorie più favorevoli (secondo comma); in particolare il comma 2 dell’art. 1 n. 689/1981 così recita << Le leggi che prevedono sanzioni amministrative si applicano soltanto nei casi e per i tempi in esse considerati>>;

5.3 in linea generale, il principio di legalità ed il divieto di retroattività in malam partem trovano applicazione anche con riferimento al diritto sanzionatorio amministrativo al quale, quando la sanzione ha natura sostanzialmente penale, si estende la fondamentale garanzia consacrata dall’art. 25, secondo comma, Cost., e dalla giurisprudenza della Corte EDU relativa all’art. 7 Dall’art. 25, secondo comma, Cost. discende il divieto di applicazione retroattiva di una legge che incrimini un fatto in precedenza penalmente irrilevante o che punisca più severamente un fatto già precedentemente incriminato. Tale divieto, data l’ampiezza della sua formulazione, si presta ad essere esteso alle sanzioni amministrative a carattere punitivo ( Corte cost. n. 169/2023);

5.4 analogamente, il principio del favor rei, che implica l’applicazione della disciplina sanzionatoria successiva più favorevole e costituisce principio di matrice penalistica, non ha ad oggetto il complessivo sistema delle sanzioni amministrative, bensì singole e specifiche discipline sanzionatorie che, pur qualificandosi come amministrative ai sensi dell’ordinamento interno, siano idonee ad acquisire caratteristiche punitive alla luce dell’ordinamento convenzionale; per altro verso, non può ritenersi che una sanzione, qualificata come amministrativa dal diritto interno, abbia sempre ed a tutti gli effetti natura sostanzialmente penale (Cass. n. 17209/2020, Cass. n. 23814/2019); il principio del favor rei non si estende, quindi, in assenza di una specifica disposizione normativa, alla materia delle sanzioni amministrative, che risponde invece al distinto principio del “tempus regit actum” ( Cass. n. 24375/2023);

5.5 nella fattispecie in esame, né la sentenza né le parti, fanno riferimento al carattere punitivo simil penale della sanzione e nel motivo di ricorso l’applicazione della sanzione più favorevole è correlata alle disposizioni che prevedono la retroattività delle sanzioni di natura tributaria, vale a dire a sanzioni riferite ad un ambito di applicazione estraneo a quello in oggetto, avendo questa Corte precisato come, in tema di sanzioni amministrative per l’impiego di lavoratori non regolarmente denunciati, la sanzione prevista dall’art. 3, comma 3, del d.l. 22 febbraio 2002, n. 12, conv. in legge 23 aprile 2002, n. 73 (nel testo anteriore alle modifiche introdotte dall’art. 36 bis del l. 4 luglio 2006, n. 223, conv. in legge 24 agosto 2006, n. 248), non ha natura tributaria o previdenziale in senso stretto poiché diretta ad inasprire la repressione del lavoro irregolare (Cass. n. 20357/2014);

5.6 in particolare, la giurisprudenza di questa Corte con specifico riferimento all’art. 3 d. lgs 472/1997 invocato dalla odierna ricorrente, ha chiarito che in materia di sanzioni amministrative pecuniarie  non  si  applica  il  principio  di retroattività della legge più favorevole, previsto dall’art. 3 del d.lgs. n. 472 del 1997 soltanto per le infrazioni valutarie e tributarie, e ciò tenuto conto della peculiarità sostanziale che caratterizza le rispettive materie ( Cass. n. 356/2010);

5.7. in coerente applicazione di tali arresti, seppure sulla base di diversa motivazione, che tiene conto della inapplicabilità alla fattispecie in esame del principio della legge mitior, la sentenza impugnata deve essere sul punto confermata;

6. il terzo motivo di ricorso è inammissibile sostanziandosi in una mera contrapposizione valutativa a quella adottata dal giudice di merito in ordine al parametro al quale è stata ancorata la entità della sanzione; le critiche sul punto, inoltre, non sono sorrette dall’adeguata esposizione del fatto processuale destinata a chiarire se ed in che termini le specifiche ragioni di doglianza relative al “costo del lavoro” erano state formulate nei gradi di merito e, soprattutto, in violazione dell’art. 366, comma 1 n. 6 c.p.c. , non indicano gi atti ed i documenti di causa dai quali risulta l’ acquisizione al giudizio di merito delle circostanze di fatto asseritamente trascurate dalla Corte di merito;

7. al rigetto del ricorso consegue la condanna della parte soccombente alla rifusione delle spese processuali ed pagamento, nella sussistenza dei relativi presupposti processuali, dell’ulteriore importo del contributo unificato ai sensi dell’art. 13, comma quater p.r. n. 115/2002;

P.Q.M. 

La Corte rigetta il ricorso. Condanna parte ricorrente alla rifusione delle spese di lite che liquida in € 4.000,00 per compensi professionali, oltre spese prenotate a debito

Ai sensi dell’art. 13, co. 1 quater, del d.P.R. n. 115 del 2002 dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma del comma 1 bis dello stesso art.13, se dovuto.