CORTE di CASSAZIONE, sezione lavoro, Ordinanza n. 27510 depositata il 23 ottobre 2024
Lavoro – Licenziamento disciplinare – Prassi aziendale – Rigetto
Rilevato che
1. la Corte di Appello di Catanzaro, con la sentenza impugnata, nell’ambito di un procedimento ex lege n. 92 del 2012, in riforma della pronuncia di primo grado, ha respinto l’impugnativa del licenziamento disciplinare proposta da A.G. nei confronti della D.B. S.P.A., azienda esercente il commercio all’ingrosso di farmaci e di prodotti parafarmaceutici;
2. la Corte, in estrema sintesi e per quanto qui ancora rileva, ha premesso che, con la contestazione disciplinare del 5 aprile 2018, veniva addebitato al G., addetto al magazzino, di aver prelevato senza autorizzazione, “insieme ad altri e con la complicità del vettore F.”, “prodotti farmaceutici non commissionati da clienti, per utilità personale”; circa la fondatezza degli addebiti, la Corte ha poi argomentato che, risultando “pacifico che il ricorrente non nega i fatti nella loro materialità, insistendo sulla esistenza di una prassi aziendale relativa proprio a tali condotte”, il datore di lavoro, sin dalla originaria costituzione in giudizio, aveva introdotto specifiche circostanze di fatto in base alle quali risultava: “
a) che l’azienda ha effettivamente preso conoscenza della dedotta prassi aziendale, ma che ciò è avvenuto solo nel settembre 2017;
b) che appreso di tale la prassi, l’azienda ha chiaramente comunicato ai lavoratori coinvolti, tra cui il G., che la prassi non era per nulla condivisa;
c) che tanto è avvenuto per il tramite del responsabile del magazzino B., il quale intimava la cessazione delle accertate condotte, minacciando reazioni disciplinari nel caso di loro persistenza;
d) che le condotte addebitate al G. sono 76 e sono state tenute tutte dopo il settembre 2017, ovvero dopo che l’azienda aveva scoperto, ma anche vietato per il futuro, la prassi aziendale”; tali circostanze fattuali – per la Corte – non erano state “in alcun modo contestate dal lavoratore per tutto il corso del giudizio”, per cui dovevano ritenersi provate per il principio di non contestazione; le suddette circostanze trovavano altresì conferma anche nel provvedimento di licenziamento, oltre che nella prova testimoniale acquisita in altro giudizio;
3. la Corte territoriale ha quindi giudicato le richieste istruttorie del lavoratore “del tutto superflue” e alcuni capitoli di prova “comunque inammissibili per la loro evidente genericità, nonché per la loro incompletezza”;
4. per la cassazione di tale sentenza ha proposto ricorso il soccombente con due motivi, cui ha resistito l’intimata società con controricorso; entrambe le parti hanno comunicato memorie; all’esito della camera di consiglio, il Collegio si è riservato il deposito dell’ordinanza nel termine di sessanta giorni;
Considerato che
1. i motivi del ricorso possono essere sintetizzati come segue;
1.1. il primo denuncia la violazione dell’art. 2697 c.c., sostenendo che, una volta ammessa dalla società “la prassi aziendale e la sua tolleranza al fine di attribuire valenza giuridica al comportamento contestato al ricorrente, la questione del richiamo e dell’avvertimento di non proseguire nella descritta prassi, oggetto di specifica richiesta di prova per testi, avrebbe dovuto essere oggetto di prova per circostanziare il fatto e non essere desunta dalla cd. circolarità della prova desunta dal contegno processuale delle parti”;
1.2. il secondo motivo lamenta che “la mancanza di prova circa la contestazione della prassi prima tollerata e circa l’avvertimento che dovesse cessare porta a ritenere insussistente il fatto contestato nella sua connotazione con conseguente tutela reale o obbligatoria”, avuto riguardo all’art. 18, comma 4, St. lav.;
2. il ricorso non può trovare accoglimento;
2.1. il primo motivo denuncia erroneamente la violazione dell’art. 2697 c.c., atteso che la norma è censurabile per cassazione ai sensi dell’art. 360, co. 1, n. 3 c.p.c., soltanto nell’ipotesi in cui il giudice abbia attribuito l’onere della prova ad una parte diversa da quella che ne fosse onerata secondo le regole di scomposizione delle fattispecie basate sulla differenza tra fatti costitutivi ed eccezioni e non laddove oggetto di censura – come nella specie – sia la valutazione che il giudice del merito abbia svolto delle prove proposte dalle parti (Cass. n. 15107 del 2013; Cass. n. 13395 del 2018), ovvero del contegno processuale delle medesime; infatti, spetta al giudice del merito apprezzare, nell’ambito del giudizio di fatto al medesimo riservato, l’esistenza ed il valore di una condotta di non contestazione dei fatti rilevanti, allegati dalla controparte (tra molte: Cass. n. 3680 del 2019; Cass. n. 3126 del 2019; in analoga vicenda v., recentemente, Cass. n. 20525 del 2024);
in particolare, poi, la parte ricorrente neanche censura adeguatamente gli altri elementi di prova posto dalla Corte territoriale a sostegno del proprio convincimento (la lettera di licenziamento e la prova testimoniale acquisita in altro giudizio); circa la prova per testi non ammessa, il ricorrente non solo non specifica le circostanze che formavano oggetto della prova, al fine di consentire al giudice di legittimità il controllo della decisività dei fatti da provare e, quindi, delle prove stesse che la Corte di cassazione dev’essere in grado di compiere solo sulla base delle deduzioni contenute nell’atto, alle cui lacune non è consentito sopperire con indagini integrative (in termini: Cass. SS.UU. n. 28336 del 2011, conf. a Cass. SS.UU. n. 1988 del 1998), ma neanche confuta la motivazione resa in proposito dalla Corte territoriale, che ha giudicato la prova richiesta irrilevante e genericamente articolata;
vale ribadire il risalente e condiviso insegnamento di questa Corte secondo cui la mancata ammissione della prova testimoniale o di altra prova può essere denunciata per cassazione solo nel caso in cui essa abbia determinato l’omissione di motivazione su un punto decisivo della controversia e, quindi, ove la prova non ammessa ovvero non esaminata in concreto sia idonea a dimostrare circostanze tali da invalidare, con un giudizio di certezza e non di mera probabilità, l’efficacia delle altre risultanze istruttorie che hanno determinato il convincimento del giudice di merito, di modo che la ratio decidendi venga a trovarsi priva di fondamento (Cass. n. 11457 del 2007; conformi: Cass. n. 4369 del 2009; Cass. n. 5377 del 2011; Cass. n. 16214 del 2019; da ultimo: Cass. n.18072 del 2024); inoltre spetta esclusivamente al giudice del merito valutare gli elementi di prova già acquisiti e la pertinenza di quelli richiesti – senza che possa neanche essere invocata la lesione dell’art. 6, primo comma, della Convenzione Europea dei diritti dell’uomo al fine di censurare l’ammissibilità di mezzi di prova concretamente decisa dal giudice nazionale (Cass. n. 13603 del 2011; Cass. n. 17004 del 2018) – con una valutazione che non è sindacabile nel giudizio di legittimità al di fuori dei rigorosi limiti imposti dalla novellata formulazione dell’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c., così come rigorosamente interpretato dalle Sezioni unite (cfr. Cass. SS.UU. nn. 8053 e 8054 del 2014); vizio, nella specie, neanche prospettato;
2.2. ne consegue l’inammissibilità del secondo motivo, il quale si fonda sul presupposto, rivelatosi errato anche al vaglio di legittimità, che il fatto addebitato fosse insussistente;
3. conclusivamente il ricorso deve essere respinto, con spese che seguono la soccombenza liquidate come da dispositivo; ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, della legge n. 228 del 2012, occorre dare atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello, ove dovuto, per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13 (cfr. Cass. SS.UU. n. 4315 del 2020);
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese liquidate in euro 5.000,00, oltre euro 200,00 per esborsi, accessori secondo legge e rimborso spese generali nella misura del 15%.
Ai sensi dell’art. 13, co. 1 quater, d.P.R. n. 115 del 2002 dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello per il ricorso a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13, se dovuto.