CORTE di CASSAZIONE, sezione lavoro, Ordinanza n. 29943 depositata il 20 novembre 2024
Lavoro – Licenziamento – Riorganizzazione societaria – Soppressione della posizione ricoperta dal dirigente – Rigetto
Rilevato che
1. la Corte di Appello di Milano, con la sentenza impugnata, in parziale riforma della pronuncia di primo grado, ha respinto “le domande relative all’illegittimità del licenziamento e le domande risarcitorie di cui al ricorso di primo grado” proposte dal dirigente G.V. nei confronti di M. Srl; ha confermato le altre statuizioni di merito di prime cure con cui era stata respinta la domanda del V. “relativa al pagamento e trasferimento delle azioni gratuite”; ha anche condannato il soccombente al pagamento delle spese del doppio grado e “alla restituzione di quanto eventualmente corrisposto da M. Srl in esecuzione della sentenza impugnata, oltre interessi e rivalutazione”;
2. la Corte territoriale, dopo aver espletato prova testimoniale, in estrema sintesi e per quanto qui rileva, ha ritenuto provata la riorganizzazione societaria che aveva coinvolto le divisioni Commercial e Consumer della Società e che aveva condotto alla soppressione della “posizione di O.L.I. della divisione Consumer and Devices Sales” ricoperta dal dirigente; il Collegio ha anche escluso che le “registrazioni di conversazioni tra presenti allegate nell’interesse del V.”, acquisite al giudizio, fossero “idonee a dimostrare, come invece ritenuto dal primo giudice, che la decisione del V. di usufruire del congedo parentale avesse rappresentato un evento non gradito dalla società e soprattutto avesse costituito un elemento decisivo nella attivazione della procedura di estromissione dello stesso dal consesso lavorativo, fino ad integrare la vera ragione del licenziamento.
Soprattutto – continua la Corte – non hanno smentito né la riorganizzazione né la conseguente soppressione della posizione ricoperta da V.”;
3. per la cassazione di tale sentenza, ha proposto ricorso il soccombente con nove motivi; ha resistito l’intimata società con controricorso; entrambe le parti hanno comunicato memorie; la società ha anche chiesto la liquidazione delle spese relative al subprocedimento ex art. 373 c.p.c. avviato dal V. per la sospensione dell’esecuzione della sentenza, conclusosi con provvedimento di rigetto; all’esito della camera di consiglio, il Collegio si è riservato il deposito dell’ordinanza nel termine di sessanta giorni;
Considerato che
1. i motivi di ricorso possono essere esposti secondo la sintesi offerta dalla stessa parte ricorrente:
1.1. il primo motivo deduce: “La sentenza impugnata ha violato gli artt. 2697 c.c. e 115 e 116 c.p.c. perché ha ritenuto che la posizione di V. fosse stata soppressa e che per conseguenza il licenziamento fosse legittimo fondando la propria decisione su un’informazione probatoria (il mutamento della scala gerarchica nella divisione) che è del tutto inesistente e che comunque è contraddetta inequivocabilmente dalle dichiarazioni rese della dott.ssa S. all’udienza del 15 giugno 2021.
Questo costituisce un evidente travisamento probatorio che fa crollare l’intero percorso argomentativo della Corte d’Appello.
Per conseguenza la sentenza impugnata deve essere cassata ex art. 360, co. 1, n. 3 e/o n. 5 c.p.c.”;
1.2. il secondo motivo deduce: “La sentenza impugnata ha violato gli artt. 2697 c.c. e 115 e 116 c.p.c. perché ha ritenuto che la posizione di V. fosse stata soppressa e che per conseguenza il licenziamento fosse legittimo travisando o addirittura omettendo completamente di considerare il contenuto delle registrazioni non validamente disconosciute di alcune conversazioni di V. con il dott. C., la dott.ssa D. e la dott.ssa B., da cui emergeva chiaramente che tutte le posizioni dirigenziali della divisione CDS Italy divenuta CDS Mediterranean erano rimaste anche a seguito della riorganizzazione.
Questo costituisce un evidente travisamento probatorio e comunque un omesso esame di un fatto decisivo che fa crollare l’intero percorso argomentativo della Corte d’Appello. Per conseguenza la sentenza impugnata deve essere cassata ex art. 360, co. 1, n. 3 e/o n. 5 c.p.c.”;
1.3. il terzo mezzo deduce: “La sentenza impugnata ha violato gli artt. 2697 c.c. e 115 e 116 c.p.c. perché ha ritenuto che la posizione di V. fosse stata soppressa e che per conseguenza il licenziamento fosse legittimo travisando o addirittura omettendo completamente di considerare il contenuto delle registrazioni di alcune conversazioni di V. con il dott. C. e la dott.ssa S., nonché le testimonianze del signor F. e della stessa dott.ssa S., da cui emergeva chiaramente che la dott.ssa B. ha mantenuto il ruolo che era stato di V. anche a seguito della riorganizzazione.
Questo costituisce un evidente travisamento probatorio e comunque un omesso esame di un fatto decisivo che fa crollare l’intero percorso argomentativo della Corte d’Appello.
Per conseguenza la sentenza impugnata deve essere cassata ex art. 360, co. 1, n. 3 e/o n. 5 c.p.c.”;
1.4. il quarto motivo deduce: “La sentenza impugnata ha violato gli artt. 2697, 2712 c.c., 115 e 116 c.p.c. perché la Corte d’Appello non ha dato prevalenza alle registrazioni aventi prova legale e le ha invece valutate alla stregua di tutte le altre prove.
Così facendo ha erroneamente ritenuto che la posizione di V. fosse stata soppressa e che per conseguenza il licenziamento fosse legittimo sulla base di una prova testimoniale quando al contrario dalle registrazioni aventi valore di prova legale emergeva chiaramente che nessuna posizione dirigenziale (e quindi neppure quella di V. all’epoca occupata dalla dott.ssa B.) era stata toccata dalla riorganizzazione.
Pertanto, la sentenza impugnata deve essere cassata ex art. 360, co. 1, n. 3 c.p.c.”;
1.5. il quinto motivo deduce: “La sentenza impugnata ha violato artt. 2697 c.c., 1 l. 604/1966 e 39 CCNL per i dirigenti di aziende del terziario della distribuzione e dei servizi perché ha ritenuto legittimo il licenziamento nonostante M. non abbia assolto al proprio onere probatorio di dimostrare la sussistenza dell’esigenza ‘economicamente apprezzabile in termini di risparmio’ della soppressione della figura dirigenziale.
Pertanto, la sentenza impugnata deve essere cassata ex art. 360 n. 3 c.p.c.”;
1.6. il sesto motivo deduce: “La sentenza impugnata ha violato l’art. 34 CCNL per i dirigenti di aziende del terziario della distribuzione e dei servizi nella misura in cui non ha riconosciuto l’illegittimità del licenziamento e non ha riformato la sentenza di primo grado riconoscendo l’indennità sostitutiva nella misura massima, ossia nella somma di € 228.701,20, a fronte dell’estrema gravità del comportamento tenuto da M. al rientro di V.
Pertanto, la sentenza impugnata deve essere cassata ex art. 360 n. 3 c.p.c.”;
1.7. il settimo motivo deduce: “La sentenza impugnata ha violato l’art. 2043 c.c. nella misura in cui non ha riconosciuto l’illegittimità del licenziamento e non ha riformato la sentenza di primo grado che si era illegittimamente discostata dalla valutazione fatta dal prof. C. nonostante il Giudice non avesse le competenze tecniche per farne una sua.
Inoltre, ha violato la norma nella misura in cui non ha riformato la sentenza riconoscendo la massima personalizzazione del danno biologico prevista dalle tabelle del Tribunale di Milano a fronte del gravissimo comportamento tenuto da M.
Pertanto, la sentenza impugnata deve essere cassata ex art. 360 n. 3 c.p.c.”;
1.8. l’ottavo motivo deduce: “La sentenza impugnata ha violato l’art. 92 c.p.c. nella misura in cui ha condannato V. al pagamento di entrambi i gradi di giudizio quando avrebbe dovuto riconoscere l’illegittimità del licenziamento intimato da M. e per conseguenza avrebbe dovuto liquidare a favore del ricorrente non solo le spese del secondo grado ma anche riformare la sentenza di primo grado che erroneamente aveva compensato per un terzo le spese di lite nonostante le pretese di V. fossero state sostanzialmente accolte integralmente.
Pertanto, la sentenza impugnata deve essere cassata ex art. 360 n. 3 c.p.c.”;
1.9. il nono motivo deduce: “La sentenza impugnata ha violato l’art. 2118 c.c. nella misura in cui ha condannato V. alla restituzione anche della differenza sull’indennità di mancato preavviso e alle conseguenti differenze contributive, oltre interessi e rivalutazione.
Infatti, queste somme spettano al ricorrente anche ammettendo (ma così non è) che il licenziamento sia legittimo perché M. ha operato un recesso con effetto immediato e dunque doveva corrispondere l’indennità di mancato preavviso ai sensi dell’art. 2118 c.c.
Pertanto, la sentenza impugnata deve essere cassata ex art. 360 n. 3 c.p.c.”;
2. il ricorso non può trovare accoglimento; è opportuno premettere che l’indagine in ordine alla effettiva soppressione della posizione dirigenziale ricoperta dal V. nella concretezza della vicenda storica, avuto riguardo alle risultanze istruttorie, rappresenta inevitabilmente una quaestio facti che può essere sindacata innanzi a questa Corte nei ristretti limiti in cui può esserlo ogni accertamento di fatto in sede di legittimità;
2.1. ciò posto, i primi quattro motivi di ricorso sono inammissibili, in quanto, al di là delle formali prospettazioni, sono tutti volti a sollecitare una diversa valutazione del materiale probatorio, attività di sicura pertinenza del giudice del merito, così travalicando i limiti del giudizio di cassazione; in ordine alla reiterata denuncia di “travisamento probatorio”, questa Corte, a Sezioni unite, ha oramai chiarito, sconfessando l’indirizzo cui viene fatto cenno nei motivi di ricorso in esame, che: «Il travisamento del contenuto oggettivo della prova, il quale ricorre in caso di svista concernente il fatto probatorio in sé, e non di verifica logica della riconducibilità dell’informazione probatoria al fatto probatorio, trova il suo istituzionale rimedio nell’impugnazione per revocazione per errore di fatto, in concorso dei presupposti richiesti dall’articolo 395, n. 4, c.p.c., mentre, ove il fatto probatorio abbia costituito un punto controverso sul quale la sentenza ebbe a pronunciare, e cioè se il travisamento rifletta la lettura del fatto probatorio prospettata da una delle parti, il vizio va fatto valere, in concorso dei presupposti di legge, ai sensi dell’articolo 360, nn. 4 e 5, c.p.c., a seconda si tratti di fatto processuale o sostanziale» (Cass. SS.UU. n. 5792 del 2024);
per quanto riguarda il vizio di cui al n. 4 dell’articolo 360 c.p.c. – nella specie neanche prospettato – esso ricorre esclusivamente, per il tramite delle norme che impongono al giudice l’obbligo di motivazione, nella quadruplice nota declinazione che le stesse Sezioni Unite più volte ne hanno dato: la «mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico» e la «motivazione apparente»; il «contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili» e la «motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile» (cfr., tra le altre, Cass. SS.UU. n. 22232 del 2016; v. pure Cass. SS.UU. n. 16599 del 2016);
mentre i presupposti di legge per evocare il vizio di cui al n. 5 dell’art. 360 c.p.c. sono stati definiti nei rigorosi ambiti posti da Cass. SS.UU. nn. 8053 e 8054 del 2014, le cui prescrizioni sono largamente disattese dalle censure in scrutinio, in particolare non evidenziando un fatto storico realmente decisivo, di cui sarebbe stato omesso l’esame dai giudici d’appello;
invero, Cass. SS.UU. n. 5792/2024 cit. ha pure evidenziato che, “se si ammettesse la ricorribilità per cassazione in caso di travisamento della prova, […], rendendo pervio l’articolo 115 c.p.c. ben oltre il significato che ad esso è riconosciuto (cfr. Cass. SS.UU. n. 20867 del 2020), il giudizio di cassazione obbiettivamente scivolerebbe verso un terzo grado destinato a svolgersi non sulla decisione impugnata, ma sull’intero compendio delle «carte» processuali, sicché la latitudine del giudizio di legittimità neppure ripristinerebbe l’assetto ante riforma del 2012, ma lo espanderebbe assai di più”, assegnando “alla Corte di cassazione il potere di rifare daccapo il giudizio di merito”; il che è proprio quanto sollecitato dai primi quattro motivi di ricorso che, pertanto, già per questo decisivo verso, risultano inammissibili;
parimenti inammissibile la denuncia di violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c. così come dell’art. 2697 c.c.; come ribadito dalle Sezioni unite di questa Corte (cfr. Cass. SS.UU. n. 20867 del 2020), per dedurre la violazione dell’art. 115 c.p.c. è necessario denunciare che il giudice non abbia posto a fondamento della decisione le prove dedotte dalle parti, cioè abbia giudicato in contraddizione con la prescrizione della norma, il che significa che per realizzare la violazione deve avere giudicato o contraddicendo espressamente la regola di cui alla norma, cioè dichiarando di non doverla osservare, o contraddicendola implicitamente, cioè giudicando sulla base di prove non introdotte dalle parti e disposte invece di sua iniziativa al di fuori dei casi in cui gli sia riconosciuto un potere officioso di disposizione del mezzo probatorio (mentre detta violazione non si può ravvisare nella mera circostanza che il giudice abbia valutato le prove proposte dalle parti attribuendo maggior forza di convincimento ad alcune piuttosto che ad altre);
parimenti la pronuncia rammenta che la violazione dell’art. 116 c.p.c. è riscontrabile solo ove si alleghi che il giudice, nel valutare una prova o, comunque, una risultanza probatoria, non abbia operato – in assenza di diversa indicazione normativa – secondo il suo «prudente apprezzamento», pretendendo di attribuirle un altro e diverso valore, oppure il valore che il legislatore attribuisce ad una differente risultanza probatoria (come, ad esempio, valore di prova legale), nonché, qualora la prova sia soggetta ad una specifica regola di valutazione, abbia invece dichiarato di valutare la stessa secondo il suo prudente apprezzamento, mentre, ove si deduca che il giudice ha solamente male esercitato il suo prudente apprezzamento della prova, la censura era consentita ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ., nel testo previgente ed ora solo in presenza dei gravissimi vizi motivazionali individuati da questa Corte fin dalle già citate Cass. SS.UU. nn. 8053 e 8054 del 2014;
circa la dedotta violazione dell’art. 2697 c.c. la disposizione è censurabile per cassazione ai sensi dell’art. 360, co. 1, n. 3 c.p.c., soltanto nell’ipotesi in cui il giudice abbia attribuito l’onere della prova ad una parte diversa da quella che ne fosse onerata secondo le regole di scomposizione delle fattispecie basate sulla differenza tra fatti costitutivi ed eccezioni e non invece laddove oggetto di censura – come nella specie -sia la valutazione che il giudice abbia svolto delle prove proposte dalle parti (Cass. n. 15107 del 2013; Cass. n. 13395 del 2018);
infondata, infine, la doglianza pure contenuta nel quarto motivo secondo cui la Corte territoriale avrebbe dovuto attribuire “prevalenza alle registrazioni aventi prova legale e le ha invece valutate alla stregua di tutte le altre prove”; non viene indicato il fondamento normativo di tale pretesa “prevalenza”, mentre, nel caso di registrazione fonografica, dal mancato disconoscimento deriva solo che il “fatto” rappresentato è la voce umana e la sua appartenenza ad un individuo piuttosto che ad un altro (cfr. Cass. n. 1250 del 2018); nella specie la Corte di merito ha dichiarato utilizzabili le registrazioni tra presenti, in quanto solo genericamente disconosciute dalla società, ma ben poteva valutare il contenuto delle dichiarazioni alla stregua di tutto il compendio probatorio acquisito;
2.2. anche il quinto motivo è inammissibile;
infatti, lungi dall’enucleare l’errore di diritto in cui sarebbe incorsa la Corte territoriale, nella sostanza si limita a contestare che sia stata raggiunta la prova della giustificatezza del licenziamento del dirigente, ancora una volta invocando impropriamente la violazione dell’art. 2697 c.c.;
2.3. confermata la legittimità del recesso dal rapporto di lavoro dirigenziale anche in seguito al vaglio di questa Corte, risultano inammissibili il sesto, il settimo e l’ottavo motivo di ricorso, in quanto fondati sui presupposti, rivelatisi errati, della illegittimità del licenziamento, della conseguente illiceità della condotta datoriale causativa di danno, del difetto di soccombenza ai fini della liquidazione delle spese di giudizio;
2.4. infine, non merita accoglimento l’ultimo motivo di ricorso, neanche coltivato in memoria da parte ricorrente, atteso che la condanna restitutoria pronunciata dalla Corte di Appello al pagamento di “quanto eventualmente corrisposto da M. Srl in esecuzione della sentenza impugnata” non può che riferirsi ai capi della pronuncia di primo grado che sono stati oggetto di gravame, non quindi alle differenze sull’indennità di mancato preavviso comunque dovute;
3. pertanto, il ricorso deve essere respinto nel suo complesso; le spese seguono la soccombenza liquidate come da dispositivo, tenuto altresì conto del procedimento ex art. 373 c.p.c. (cfr. Cass. n. 17975 del 2023);
ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, della legge n. 228 del 2012, occorre altresì dare atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello, ove dovuto, per il ricorso, a norma del comma 1- bis dello stesso art. 13 (cfr. Cass. SS.UU. n. 4315 del 2020);
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna parte ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità nonché del subprocedimento ex art. 373 c.p.c. innanzi alla Corte territoriale, liquidate in complessivi euro 7.000,00, oltre euro 200,00 per esborsi, accessori secondo legge e rimborso spese generali nella misura del 15%.
Ai sensi dell’art. 13, co. 1 quater, d.P.R. n. 115 del 2002 dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello per il ricorso a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13, se dovuto.