Corte di Cassazione, sezione lavoro, ordinanza n. 30080 depositata il 21 novembre 2024
licenziamento – rifiuto del dipendente
RILEVATO CHE
1. la Corte di Appello di Bologna, con la sentenza impugnata, nell’ambito di un procedimento ex lege n. 92 del 2012, ha confermato la pronuncia di primo grado nella parte in cui – per quanto qui ancora rileva – aveva accertato la legittimità del licenziamento intimato in data (Omissis) da -omissis- . per assenza ingiustificata dal 20 luglio 2020 al 25 agosto 2020; il Tribunale aveva dato atto che “al lavoratore, che aveva maturato il periodo massimo di comporto, era stata concessa aspettativa non retribuita ex art. 51 CCNL di settore e, allo scadere di questo ulteriore periodo, la società lo aveva invitato a riprendere servizio presso la sede di ultima assegnazione (G), ricevendo dapprima un argomentato diniego e, a fronte di due ulteriori inviti, nessun riscontro”;
2. la Corte territoriale, in sintesi, ha affermato che, anche laddove il lavoratore – malato oncologico riconosciuto dal luglio 2019 invalido al 100% e portatore di handicap in situazione di gravità – “potesse vantare un diritto all’assegnazione di una sede diversa rispetto a quella di sua originaria adibizione (e nella quale avrebbe dovuto riprendere servizio), ciò non esaurisce i presupposti dell’eccezione di inadempimento dallo stesso invocata a giustificazione del rifiuto della prestazione nel periodo (di circa un mese) successivo allo scadere della fruita aspettativa e dopo i reiterati solleciti datoriali”; ha rilevato che “al momento del recesso datoriale (…) il diritto del -omissis- non era stato accertato neppure in via sommaria”, in quanto “l’iniziativa giudiziale per ottenere l’invocato trasferimento a N o in città vicina è stata da lui promossa solo a dicembre 2019”; ha dato atto che il lavoratore sin dal luglio 2019, in ragione della sua disabilità in connotazione di gravità, aveva inoltrato al datore di lavoro numerose richieste di trasferimento a N, “anche dichiarandosi disponibile ad accettare un eventuale demansionamento” e che “nelle more della lunga malattia si era liberato un posto nella zona geografica richiesta dal lavoratore”; tuttavia ha ritenuto che non fossero emerse “ragioni determinanti l’impossibilità del -omissisi- di continuare, ritornando a G, la terapia oncologica allo stesso prescritta e di riprendere dunque il lavoro nella sede di provenienza”; a mente dell’art. 1460 c.c. – secondo la Corte -“la radicale omissione della prestazione è un fatto oltremodo rilevante nella valutazione dei rispettivi inadempimenti e sarebbe stato onere del lavoratore dimostrare non solo il proprio diritto ad altra sede di lavoro, ma anche l’impossibilità di prendere servizio a G”; ha sostenuto testualmente che, “a prescindere dalla valutazione di sussistenza o meno di una possibilità che la -omissis- adottasse ragionevoli accomodamenti funzionali al miglior impiego del -omissis- considerazione delle sue patologie e limitazioni, non è da quest’ultimo dimostrato – ed è solo genericamente allegato – che le condizioni di salute gli impedissero la ripresa del lavoro nella sede di sua occupazione prima dell’inizio della malattia”;
3. per la cassazione di tale sentenza, ha proposto ricorso il soccombente con sei motivi; ha resistito l’intimata società con controricorso, entrambe le parti hanno comunicato memorie;
all’esito della camera di consiglio, il Collegio si è riservato il deposito dell’ordinanza nel termine di sessanta giorni;
CONSIDERATO CHE
1. i motivi di ricorso possono essere esposti secondo le sintesi formulate dalla stessa parte ricorrente:
1.1 il primo motivo denuncia – ai sensi dell’art. 360, comma primo, nn. 3 c.p.c. – la violazione di quanto disposto dall’art 112 p.c.; si deduce che la sentenza gravata “non si pronuncia sulla domanda, puntualmente proposta dal lavoratore sin dal primo atto del giudizio ‘Fornero’ e puntualmente reiterata in fase di reclamo, relativa all’accertamento e declaratoria del diritto del sig. -omissis- . al trasferimento richiesto in data 11 luglio 2019 presso uno dei cantieri aperti dalla società opposta a N o, comunque, in Campania, o, comunque, ad una sede più vicina al proprio domicilio, domanda logicamente prodromica rispetto all’impugnativa di licenziamento e fondata sugli identici fatti costitutivi”;
1.2 il secondo motivo – ai sensi dell’art. 360, comma primo, 5 c.p.c. – censura “la mancata pronuncia sulla domanda relativa all’accertamento e declaratoria del diritto del sig. -omissis- al trasferimento (innanzi indicata) poiché tanto costituisce anche omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio, che pure è stato oggetto di discussione tra le parti”;
1.3 con il terzo motivo – ai sensi dell’art. 360, comma primo, 3 c.p.c. – viene chiesta la cassazione della sentenza “in ragione della violazione e della falsa applicazione, da parte della Corte territoriale, dell’art. 1460 c.c., poiché non ha proceduto alla verifica dei contrapposti inadempimenti e, soprattutto, ha ritenuto che il lavoratore non avrebbe potuto rifiutare la prestazione, pur non ritenendo un tale rifiuto contrario a buona fede”;
1.4 col quarto mezzo viene invece censurato – ai sensi dell’art. 360, comma primo, n. 5 c.p.c. – “l’omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio, pure portato all’attenzione della Corte di Appello (e del Tribunale di Bologna prima di essa). In particolare, alcun rilievo è stato dato in sentenza alla circostanza per la quale il lavoratore, sig. -omissis- giustificava la propria assenza dal cantiere di G, tra l’altro, con il picco della pandemia Covid verificatosi in quei Spostarsi da N a G, tenuto anche conto delle sue già più che precarie condizioni di salute, avrebbe costituito un pericolo gravissimo per la sua stessa incolumità. Rispetto a tanto, la Corte di Appello ha ritenuto non provato che le condizioni di salute del lavoratore ne impedissero gli spostamenti, nulla deducendo in merito alla pericolosità del virus, segnatamente per un soggetto immunodepresso quale il lavoratore”;
1.5 il quinto motivo critica diffusamente la sentenza impugnata “per aver violato e/o falsamente applicato le norme di cui all’art. 3, comma 3 bis, D.Lgs. 216/2003, alla Dir. CE 78/2000 ed alla Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità, oltre che dell’art. 33, L. 104/92, non riconoscendo al lavoratore disabile le invocate tutele che tale complesso normativo appresta in casi come quello di specie”;
1.6 il sesto motivo censura – ancora ai sensi dell’art. 360, comma primo, 5 c.p.c. – “l’omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio, costituito proprio dalla violazione operata dal datore di lavoro dei diritti garantiti al dipendente dalle surriportate norme di cui all’art. 3, comma 3 bis, D.Lgs. 216/2003, alla Dir. CE 78/2000 ed alla Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità, oltre che dell’art. 33, L. 104/92, pure oggetto di discussione tra le parti ma il cui vaglio è stato completamente pretermesso dalla Corte di Appello (e del Tribunale di Bologna prima di essa)”;
2. il ricorso merita accoglimento nei sensi espressi dalla motivazione che segue, in quanto risultano fondati il terzo e il quinto motivo, reciprocamente connessi;
2.1 infatti, pur essendo incontestabile che il lavoratore si trovasse in una condizione di disabilità rilevante secondo il diritto dell’Unione, la Corte territoriale ha esplicitamente dichiarato di voler “prescindere dalla valutazione di sussistenza o meno di una possibilità che la -omissis- adottasse ragionevoli accomodamenti funzionali al miglior impiego del -omissis- in considerazione delle sue patologie e limitazioni”, assumendo che, invece, era il lavoratore a dover dimostrare “l’impossibilità di riprendere servizio a G” in ragione delle sue condizioni di salute;
l’assunto non è conforme allo statuto di speciale protezione che l’ordinamento interno e comunitario stabilisce per le persone con disabilità;
il D.Lgs. n. 216 del 2003, nel dare “Attuazione della direttiva 2000/78/CE per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro”, ha stabilito, tra l’altro, che “Il principio di parità di trattamento senza distinzione … di handicap … si applica a tutte le persone sia nel settore pubblico che privato ed è suscettibile di tutela giurisdizionale” con specifico riferimento anche alla seguente area: “occupazione e condizioni di lavoro, compresi gli avanzamenti di carriera, la retribuzione e le condizioni del licenziamento” (art. 3, comma 1, lett. b); in seguito a condanna dell’Italia da parte della Corte di Giustizia dell’Unione Europea per inadempimento alla citata direttiva (sentenza 4 luglio 2013, C-312/2011, Commissione europea/Repubblica Italiana), il D.L. 28 giugno 2013, n. 76 (art. 9, comma 4-ter), conv. con modif. dalla L. 9 agosto 2013, n. 99, ha inserito nel testo dell’art. 3 del D.Lgs. n. 216 del 2003, un comma 3 bis del seguente tenore: “Al fine di garantire il rispetto del principio della parità di trattamento delle persone con disabilità, i datori di lavoro pubblici e privati sono tenuti ad adottare accomodamenti ragionevoli, come definiti dalla Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità, ratificata ai sensi della legge 3 marzo 2009, n. 18, nei luoghi di lavoro, per garantire alle persone con disabilità la piena eguaglianza con gli altri lavoratori. I datori di lavoro pubblici devono provvedere all’attuazione del presente comma senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica e con le risorse umane, finanziarie, e strumentali disponibili a legislazione vigente”;
la Convenzione ONU definisce (art. 2) per “discriminazione fondata sulla disabilità qualsivoglia distinzione, esclusione o restrizione sulla base della disabilità che abbia lo scopo o l’effetto di pregiudicare o annullare il riconoscimento, il godimento o l’esercizio, su base di uguaglianza con gli altri, di tutti i diritti umani e delle libertà fondamentali in campo politico, economico, sociale, culturale, civile o in qualsiasi altro campo. Essa include ogni forma di discriminazione, compreso il rifiuto di un accomodamento ragionevole”; per “accomodamento ragionevole” intende “le modifiche e gli adattamenti necessari ed appropriati che non impongano un onere sproporzionato o eccessivo adottati, ove ve ne sia necessità in casi particolari, per garantire alle persone con disabilità il godimento e l’esercizio, su base di uguaglianza con gli altri, di tutti i diritti umani e delle libertà fondamentali”. In ambito comunitario, la direttiva 2000/78/CE sulla parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro, dopo una serie di considerando, all’art. 1 sancisce che essa “… mira a stabilire un quadro generale per la lotta alle discriminazioni fondate (su) … gli handicap … per quanto concerne l’occupazione e le condizioni di lavoro al fine di rendere effettivo negli Stati membri il principio della parità di trattamento”. L’art. 5 poi, intitolato “Soluzioni ragionevoli per i disabili”, statuisce: “Per garantire il rispetto del principio della parità di trattamento dei disabili, sono previste soluzioni ragionevoli. Ciò significa che il datore di lavoro prende i provvedimenti appropriati, in funzione delle esigenze delle situazioni concrete, per consentire ai disabili di accedere ad un lavoro, di svolgerlo o di avere una promozione o perché possano ricevere una formazione, a meno che tali provvedimenti richiedano da parte del datore di lavoro un onere finanziario sproporzionato (…)”;
è pacifico che tale cornice normativa operi in ogni fase del rapporto di lavoro, non solo nel caso di licenziamento (cfr. Cass. n. 6497 del 2021);
2.2 orbene, la Corte territoriale, nell’applicare il disposto dell’art. 1460, comma 2, c.c., alla stregua del quale il lavoratore può rifiutarsi di eseguire la prestazione a proprio carico solo ove tale rifiuto, avuto riguardo alle circostanze del caso concreto, non risulti contrario a buona fede (cfr. per tutte Cass. n. 11408 del 2018), avrebbe dovuto tenere in adeguato conto “della entità dell’inadempimento datoriale in relazione al complessivo assetto di interessi regolato dal contratto” così come “della concreta incidenza del detto inadempimento datoriale su fondamentali esigenze di vita e familiari del lavoratore” (cfr., tra le altre, Cass. n. 4404 del 2022, pure richiamata dalla Corte territoriale, che ribadisce la già citata n. 11408/2018); pertanto, non avrebbe dovuto “prescindere” – come invece ha dichiarato di fare – dalla consistenza dell’obbligo di accomodamenti ragionevoli gravanti sul datore di lavoro nei confronti della persona con disabilità (cfr. Cass. n. 6497 del 2021, cui si rinvia, anche ai sensi dell’art. 118 disp. att. c.p.c. per ogni ulteriore aspetto qui non affrontato), dotata di peculiare protezione a salvaguardia di fondamentali esigenze di vita e di salute, tanto che il rifiuto di accomodamento ragionevole costituisce atto discriminatorio, come tale affetto da nullità, di cui certo il datore di lavoro non può trarre vantaggio in alcun modo; solo in tale contesto la Corte bolognese avrebbe dovuto valutare l’entità dell’inadempimento della società e verificare se il rifiuto opposto dal dipendente fosse o meno contrario a buona fede;
val la pena evidenziare che questa Corte, ad esempio, ha considerato legittimo “il rifiuto opposto dal lavoratore alla richiesta, avanzata dal datore, di svolgimento di compiti aggiuntivi, incompatibili con l’adibizione costante del prestatore ad un impegno lavorativo gravoso nonché ostativi al recupero delle energie psicofisiche ed alla cura degli interessi familiari del medesimo, (escludendosi) una condotta di insubordinazione (…) (Nella specie, la S.C. ha ritenuto legittimo il rifiuto di una guardia giurata – con turni quotidiani di lavoro, mantenuti nel tempo pur in assenza di comprovate esigenze aziendali, con orario dalle 23,55 alle 6.00 e dalle 16.00 alle 22.00 – di eseguire, al di fuori dell’orario di lavoro ordinario, il compito aggiuntivo di riscossione delle fatture, Cass. n. 12094 del 2018)”;
2.3 dall’accoglimento di tali censure, con cassazione della sentenza impugnata, deriva l’assorbimento di ogni altro motivo, in quanto la Corte del rinvio dovrà procedere ad una rinnovata valutazione del reclamo alla luce dei richiamati principi;
3. pertanto, il terzo e il quinto motivo di ricorso devono essere accolti, con assorbimento degli altri; la sentenza va cassata in relazione alle censure ritenute fondate, con rinvio al diverso giudice indicato in dispositivo, il quale procederà a nuovo esame della controversia, uniformandosi a quanto statuito e provvedendo pure alle spese del giudizio di legittimità;
va, disposta, da ultimo, per l’ipotesi di diffusione del presente provvedimento, l’omissione delle generalità e degli altri dati identificativi a norma dell’art. 52 del D.Lgs. n. 196/2003 della parte ricorrente;
P.Q.M.
La Corte accoglie il terzo e il quinto motivo del ricorso, dichiara assorbiti gli altri, cassa la sentenza impugnata in relazione alle censure accolte e rinvia alla Corte di Appello di Firenze, anche per le spese.
Ai sensi dell’art. 52 D.Lgs. n. 196 del 2003, in caso di diffusione omettere le generalità e gli altri dati identificativi di Va.Fe.