CORTE di CASSAZIONE, sezione lavoro, Ordinanza n. 30082 depositata il 21 novembre 2024
Lavoro – Legittimità licenziamento intimato senza preavviso – Svolgimento mansioni e attività a titolo gratuito od oneroso che siano in concorrenza e in contrasto con gli interessi della Società – Fatti o atti dolosi compiuti in connessione con il rapporto di lavoro – Rigetto
Rilevato che
1. la Corte di Appello di Venezia, con la sentenza impugnata, nell’ambito di un procedimento ex lege n. 92 del 2012, in riforma della pronuncia di primo grado, ha accertato la legittimità del licenziamento intimato senza preavviso da Poste Italiane Spa a L.B., addetta all’ufficio postale di Mogliano Veneto, all’esito della procedura disciplinare in cui veniva contestato alla lavoratrice: “di aver dato disponibilità per una irregolare collaborazione con uno o più agenti di un operatore telefonico concorrente per consentire agli stessi di perseguire e conseguire i propri obiettivi commerciali e di vendita, fornendo su loro richiesta ed in modo irregolare e scorretto S.P.M. intestate a terzi clienti degli stessi agenti concorrenti che le utilizzavano come ponte verso le loro offerte; di aver proceduto irregolarmente (senza la presenza del cliente, senza la identificazione dello stesso cliente e senza raccogliere le sue firme) a formare un contratto P.M., con il cliente ‘ignaro’ di questa operatività; di aver successivamente consegnato agli agenti ‘concorrenti’, anziché – come doveroso- ai clienti sottoscrittori del contratto, la SIM emessa a nome del terzo e il contratto; che la descritta operatività avrebbe risposto a logiche commerciali della concorrenza e sarebbe stata finalizzata a far figurare un volume di affari e vendite di S.P.M. attribuite alla Sua persona in qualità di Operatore Vendite P.M.” (pag. 9 sent. impugnata);
2. la Corte territoriale, in estrema sintesi, ha ritenuto comprovati gli addebiti e, in particolare, “il ruolo attivo assunto nell’operazione dalla B. e non meramente esecutivo degli ordini ricevuti dai superiori (circostanza di fatto allegata dalla B. ma rimasta priva di riscontro probatorio)”;
ha esaminato la condotta della lavoratrice in stato di gravidanza nelle sue componenti oggettive e soggettive qualificandola di gravità tale da integrare la deroga al divieto di licenziamento stabilito dall’art. 54, comma 3, lett. a), d. lgs. n. 151 del 2001;
la Corte territoriale ha anche escluso che “la complessità della condotta e la pluralità delle infrazioni commesse” dalla B. consentisse la riconducibilità a previsioni della contrattazione collettiva che stabilissero sanzioni meramente conservative, piuttosto argomentando: “si ritengono provati addebiti ascrivibili alla lettera g) dell’art. 54 comma VI del CCNL laddove indica come giusta causa di licenziamento lo svolgimento ‘anche fuori dell’orario di lavoro’ di mansioni ed attività a titolo gratuito od oneroso che siano in concorrenza e in contrasto con gli interessi della Società’, sia la lettera k), che individua la giusta causa ‘in genere per fatti o atti dolosi, anche nei confronti di terzi, compiuti in connessione con il rapporto di lavoro, di gravità tale da non consentire la prosecuzione del rapporto di lavoro’, sia infine l’art. 80, lett. e), laddove richiama la più amplia disposizione dell’art. 2119 cod. civ.”;
3. per la cassazione di tale sentenza, ha proposto ricorso la soccombente con sette motivi; ha resistito l’intimata società con controricorso,
entrambe le parti hanno comunicato memorie; all’esito della camera di consiglio, il Collegio si è riservato il deposito dell’ordinanza nel termine di sessanta giorni;
Considerato che
1. i motivi di ricorso possono essere esposti secondo le sintesi formulate dalla stessa parte ricorrente:
1.1. il primo motivo denuncia: “VIOLAZIONE E FALSA APPLICAZIONE DELL’ART. 54 DEL D.LGS. 151/2001 E DELL’ART. 12 DELLE PRELEGGI, IN RIFERIMENTO ALL’ART. 360, N. 3, DEL COD. PROC. CIV. in quanto la Corte di Appello ha giustificato il licenziamento della ricorrente con il semplice fatto che il rilascio da parte della ricorrente di 9 SIM. (delle 312 vendute in maniera irregolare), senza personale identificazione del Cliente, potrebbe essere sussunto in base alla disciplina collettiva nell’ambito di operatività della giusta causa Poste, mentre avrebbe dovuto accertare se il comportamento concretizzava quella particolare ‘colpa grave della lavoratrice, costituente giusta causa di licenziamento’ ai sensi del d.lgs. 151/2001”;
1.2. il secondo motivo denuncia: “VIOLAZIONE E FALSA APPLICAZIONE DELL’ART. 30 DELLA L. N. 183/2010, DEGLI ARTT. 1175, 1375, 2086, 2094, 2104 E 2119 C.C., NONCHÉ DELL’ART. 37 DELLA COST., IN RIFERIMENTO ALL’ART. 360, N. 3, DEL COD. PROC. CIV. perché la sentenza impugnata ha erroneamente ricondotto i fatti contestati tra le condotte punibili con il licenziamento in tronco e ritenuto sussistenti i presupposti della giusta causa, senza considerare che la ricorrente era inquadrata nel livello D, come operatrice junior, e ha sottoscritto, secondo il ‘Fraud Management Report’, solo 9 contratti senza diretta identificazione del Cliente e ha rivestito un ruolo del tutto marginale nella vicenda per cui è causa”;
1.3. il terzo mezzo deduce: “VIOLAZIONE ED ERRONEA APPLICAZIONE LETTERE G, K DEL COMMA VI DELL’ART. 54 E DELLA LETT. E DELL’ART. 80 DEL CCNL POSTE E DEGLI ARTT. 2119, 1175, 1375, 2105 E 1362 DEL CC., IN RIFERIMENTO ALL’ART. 360, N. 3, DEL COD. PROC. CIV. perché la sentenza impugnata ha falsamente applicato l’art. 54, comma VI, e l’art. 80 del C.C.N.L. per i dipendenti delle Poste del 30 novembre 2017, in quanto il comportamento posto in essere dalla ricorrente non era certo in concorrenza con la datrice o ancor meno doloso”;
1.4. il quarto motivo denuncia: “VIOLAZIONE DEI COMMI 2, 3, 4 E 5 DELL’ART. 54 DEL CCNL POSTE, DELL’ART. 12 DELLA L. N. 604 DEL 1966, DELL’ART. 30 DEL D.LGS. N. 183 DEL 2010 E DELL’ART. 1362 DEL CC., IN RIFERIMENTO ALL’ART. 360, N. 3, DEL COD. PROC. CIV. perché la condotta posta in essere dalla ricorrente era riconducibile alla previsione di cui ai commi 3 e 4 dell’art. 54 del C.C.N.L. per i dipendenti delle Poste del 30 novembre 2017, che commina la sanzione conservativa o, a tutto concedere, al licenziamento con preavviso, previsto dal comma 5 del medesimo articolo”;
1.5. il quinto motivo denuncia: “VIOLAZIONE E FALSA APPLICAZIONE DEGLI ARTT. 20 E 53 DEL CCNL – POSTE, NONCHÉ DEI PRINCIPI DI PROPORZIONALITÀ, GRADUALITÀ ED ADEGUATEZZA DELLA SANZIONE ALL’ILLECITO COMMESSO, DELL’ART. 7 DELLA LEGGE N. 300 DEL 1970, NONCHÉ DEGLI ARTT. 1455, 2104, 2105, 2106 E 2119 DEL C.C., IN RIFERIMENTO ALL’ART. 360, N. 3, DEL COD. PROC. CIV. perché la sentenza della Corte di Appello ha violato i principi di proporzionalità, gradualità ed adeguatezza dell’intimato licenziamento all’illecito sanzionato, consacrati nelle disposizioni normative in epigrafe e recepiti dall’art. 53 del CCNL delle Poste del 30.11.2017”;
1.6. il sesto motivo denuncia: “VIOLAZIONE DEGLI ART. 115, 116, 167, 416 E 437 DEL C.P.C. E DEL PRINCIPIO DI NON CONTESTAZIONE, IN RELAZIONE ALL’ART. 360, N. 3, DEL COD. PROC. CIV. perché dal ‘Fraud Management Report’ e dagli altri documenti in atti, nonché dalle ammissioni delle Poste emergono il diverso numero di operazioni effettuate dalla ricorrente rispetto alla direttrice e il Collega O. (delle 312 SIM vendute, 112 riportano infatti come utente il sig. S., 190 risultano gestite personalmente dalla direttrice O., una dalla sig. S.Z. e solo 9 recano la username della B.), il differente ruolo assunto dagli stessi (essendo stato ideato il modus operandi contestato dalle Poste dal sig. S., con l’avvallo della direttrice) e il diverso livello di inquadramento (quadro apicale la direttrice O., venditore esperto di categoria C il sig. S. e mera operatrice Junior di livello D la ricorrente), per cui la Corte di Appello avrebbe dovuto operare un distinguo tra la posizione dei tre dipendenti, sotto il profilo sanzionatorio”;
1.7. il settimo motivo denuncia: “VIOLAZIONE DEGLI ARTT. 115, 116, 421 E 437 DEL C.P.C. E 2697 DEL CC, IN RELAZIONE ALL’ART. 360, N. 3, DEL COD. PROC. CIV. perché la Corte di Appello ha erroneamente ritenute provate le circostanze dedotte dalla convenuta, nonostante Poste spa non avesse in alcun modo dimostrato il ruolo assunto dalla ricorrente, la formazione specifica e funzionale asseritamente impartita alla ricorrente rispetto alle attività di venditrice (assegnate alla ricorrente a partire dal 2017 nonostante il suo inquadramento come operatore junior di livello D) o la consegna dei manuali prodotti in giudizio, di cui la ricorrente aveva contestato la ricezione prima dell’invio della contestazione di addebiti, la (solo asserita) intenzionalità del comportamento, il numero di SIM effettivamente rimaste inattive o altro danno asseritamente subito da Poste e, più in generale, il comportamento complessivo della lavoratrice.
La Corte di Appello non ha inoltre considerato il contenuto del ‘FRAUD MANAGEMENT REPORT’ e ha posto a carico della ricorrente l’onere di fornire la prova dell’assenza di colpa grave, nonostante spettasse invece al datore di lavoro provare la sussistenza di una delle ipotesi previste dal comma VI dell’art. 54 del CCNL delle Poste e della colpa grave, con conseguente violazione della ripartizione dell’onere probatorio”;
2. il ricorso non può trovare accoglimento;
2.1. tutti i motivi di ricorso, per come sono prospettati in riferimento al vizio di cui al n. 3 dell’art. 360 c.p.c., presentano un pregiudiziale profilo di inammissibilità; infatti, pur denunciando formalmente la violazione di disposizioni di legge sostanziale o processuale, nella sostanza contestano l’accertamento operato dalla Corte territoriale in ordine alla sussistenza in fatto di una “colpa grave da parte della lavoratrice, costituente giusta causa per la risoluzione del rapporto di lavoro” di una madre nel primo anno di vita del bambino, a mente dell’art. 54, comma 3, lett. a), d. lgs. n. 151 del 2001 ovvero sono volti ad attenuare il ruolo avuto nella vicenda dalla B., al fine di collocare la sua condotta in previsioni della contrattazione collettiva che la puniscano con sanzione conservativa o, comunque, di escludere la sussistenza di una giusta causa di licenziamento;
ma, secondo la consolidata giurisprudenza di questa Corte, il vizio di violazione di norme di diritto consiste nella deduzione di un’erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie normativa astratta e, quindi, implica necessariamente un problema interpretativo della stessa; viceversa, l’allegazione di una errata ricostruzione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa è esterna all’esatta interpretazione della norma ed inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito; il discrimine tra l’una e l’altra ipotesi è segnato dalla contestata valutazione delle risultanze di causa (tra innumerevoli: Cass. n. 7394 del 2010; Cass. n. 14468 del 2015);
nella specie, con le censure la ricorrente esplicitamente non accetta la ricostruzione dei fatti di causa operata della Corte di Appello e si duole della loro errata valutazione, in modo difforme dalle attese patrocinate dalla parte, sicché si tratta di doglianze che, in radice, esulano dall’ambito del perimetro applicativo di cui all’art. 360, co. 1, n. 3 c.p.c. (in una analoga vicenda di un licenziamento di lavoratrice madre, v. Cass. n. 16215 del 2016);
2.2. in realtà, la Corte veneziana si mostra dichiaratamente consapevole della giurisprudenza di legittimità secondo cui la colpa grave della lavoratrice madre, ai fini del recesso, non può ritenersi integrata dalla sussistenza di un giustificato motivo soggettivo, ovvero di una situazione prevista dalla contrattazione collettiva quale giusta causa idonea a legittimare la sanzione espulsiva, essendo invece necessario – in conformità a quanto stabilito nella sentenza della Corte costituzionale n. 61 del 1991 – verificare se sussista quella colpa specificamente prevista dalla suddetta norma e diversa, per l’indicato connotato di gravità, da quella prevista dalla disciplina pattizia per i generici casi d’inadempimento del lavoratore sanzionati con la risoluzione del rapporto (Cass. n. 19912 del 2011 e n. 2004 del 2017 pure richiamate nella sentenza impugnata, cui adde, in precedenza, Cass. n. 12503 del 2000; Cass. n. 610 del 2000; Cass. n. 9405 del 2003);
così come la Corte territoriale non ignora che la verifica diretta a verificare l’applicabilità della normativa che rende inoperante il divieto di licenziamento della lavoratrice madre quando ricorra “colpa grave” deve essere eseguita tenendo conto del comportamento complessivo della lavoratrice, in relazione alle sue particolari condizioni psico-fisiche legate allo stato di gestazione e di maternità, le quali possono assumere rilievo ai fini dell’esclusione della gravità del comportamento sanzionato solo in quanto abbiano operato come fattori causali o concausali dello stesso (oltre le pronunce già citate v. pure Cass. n. 16746 del 2012 e Cass. n. 16060 del 2004);
alla stregua di tali princìpi i giudici d’appello hanno proceduto alla “analisi della fattispecie concreta”, innanzitutto escludendo che risultasse provato in giudizio che le condotte contestate “fossero state influenzate dallo stato di maternità, né che la lavoratrice fosse affetta da un malessere fisico che le avesse impedito di comprendere la gravità delle violazioni procedurali commesse e l’effetto delle proprie condotte”; hanno quindi valorizzato, ai fini di connotare la gravità della condotta ascritta, una serie di elementi, quali: il ruolo attivo, e non meramente esecutivo, della B. nel compimento delle operazioni; il danno economico per la società rappresentato dall’erogazione di un premio per la lavoratrice pari ad euro 1032,00; l’avere “favorito imprese terze che operavano in concorrenza con la società datrice di lavoro”; la violazione, nelle procedure di vendita ed emissione delle Sim, di disposizioni normative inderogabili “poste a tutela di interessi pubblici, ordine pubblico e pubblica sicurezza”; il rilascio di false attestazioni sulla identificazione del cliente; la non episodicità delle condotte, proseguite “nella collaborazione […] anche da casa durante il periodo di gravidanza a rischio”;
orbene, “l’accertamento e la valutazione in concreto della prospettata colpa grave si risolve in un giudizio di fatto riservato al giudice di merito” (in termini: Cass. n. 2004 del 2017; conf. Cass. n. 14905 del 2012), sicché può essere sindacato innanzi a questa Corte nei ristretti limiti in cui può esserlo ogni accertamento di fatto – mentre nella specie neanche è evocato il n. 5 dell’art. 360 c.p.c., né è prospettato un radicale difetto di motivazione rilevante ex art. 360, n. 4, c.p.c. – ma sicuramente non attraverso la prospettazione del vizio di violazione o falsa applicazione di norme di diritto ex art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c. (da ultimo Cass. nn. 26918 e 26896 del 2024);
più volte le Sezioni unite di questa Corte hanno ribadito l’inammissibilità di censure che “sotto l’apparente deduzione del vizio di violazione e falsa applicazione di legge, di mancanza assoluta di motivazione e di omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio, degradano in realtà verso l’inammissibile richiesta a questa Corte di una rivalutazione dei fatti storici da cui è originata l’azione”, così travalicando “dal modello legale di denuncia di un vizio riconducibile all’art. 360 cod. proc. civ., perché pone a suo presupposto una diversa ricostruzione del merito degli accadimenti” (cfr. Cass. SS.UU. n. 34476 del 2019; conf. Cass. SS.UU. n. 33373 del 2019; Cass. SS.UU. n. 25950 del 2020);
2.3. a quanto precede può aggiungersi:
2.3.1. l’infondatezza del primo motivo, perché la Corte territoriale non ha ritenuto la legittimità del licenziamento sulla sola base della contrattazione collettiva, ma – per quanto detto – specificamente apprezzando ulteriori elementi connotanti la gravità della condotta;
2.3.2. l’inammissibilità del secondo e terzo mezzo, i quali specificamente attengono a questioni di fatto, quali la pretesa marginalità del ruolo della B. nella vicenda di causa, l’aver operato per favorire una impresa concorrente, l’intenzionalità della sua condotta; fatti che evidentemente non sono suscettibili di riesame in questa sede di legittimità;
2.3.3. l’infondatezza del quarto motivo, atteso che, una volta accertata da parte della Corte territoriale la sussistenza di una giusta causa di licenziamento che non consentiva la prosecuzione del rapporto, per di più con i connotati di gravità richiesti per la lavoratrice madre, certamente la condotta non poteva essere riconducibile alle previsioni della contrattazione collettiva suscettibili di punibilità con sanzione conservativa;
2.3.4. in ordine al quinto motivo è poi sufficiente rammentare come, ancora di recente (Cass. n. 8642 e n. 20979 del 2024), sia stato ribadito che il giudizio di proporzionalità della sanzione è devoluto al giudice di merito (ex pluribus: Cass. n. 8293 del 2012; Cass. n. 7948 del 2011; Cass. n. 24349 del 2006; Cass. n. 3944 del 2005; Cass. n. 444 del 2003); la valutazione in ordine alla suddetta proporzionalità, implicante inevitabilmente un apprezzamento dei fatti storici che hanno dato origine alla controversia, è ora sindacabile in sede di legittimità soltanto quando la motivazione della sentenza impugnata sul punto manchi del tutto, ovvero sia affetta da vizi giuridici consistenti nell’essere stata essa articolata su espressioni od argomenti tra loro inconciliabili, oppure perplessi ovvero manifestamente ed obiettivamente incomprensibili (in termini v. Cass. n. 14811 del 2020); tale pronuncia ribadisce, poi, che in caso di contestazione circa la valutazione sulla proporzionalità della condotta addebitata – che è il frutto di selezione e di valutazione di una pluralità di elementi – la parte ricorrente, per ottenere la cassazione della sentenza impugnata, non solo non può limitarsi ad invocare una diversa combinazione di detti elementi o un diverso peso specifico di ciascuno di essi, ma con la nuova formulazione del n. 5 dell’art. 360, deve denunciare l’omesso esame di un fatto avente, ai fini del giudizio di proporzionalità, valore decisivo, nel senso che l’elemento trascurato avrebbe condotto ad un diverso esito della controversia con certezza e non con grado di mera probabilità (cfr. Cass. n. 18715 del 2016; Cass. n. 20817 del 2016);
2.3.5. infine, gli ultimi due motivi sono inammissibili anche perché invocano impropriamente le violazioni degli artt. 115 e 116 c.p.c., oltre che dell’art. 2697 c.c.; come ribadito dalle Sezioni unite di questa Corte (cfr. Cass. SS.UU. n. 20867 del 2020), per dedurre la violazione dell’art. 115 c.p.c. è necessario denunciare che il giudice non abbia posto a fondamento della decisione le prove dedotte dalle parti, cioè abbia giudicato in contraddizione con la prescrizione della norma, il che significa che per realizzare la violazione deve avere giudicato o contraddicendo espressamente la regola di cui alla norma, cioè dichiarando di non doverla osservare, o contraddicendola implicitamente, cioè giudicando sulla base di prove non introdotte dalle parti e disposte invece di sua iniziativa al di fuori dei casi in cui gli sia riconosciuto un potere officioso di disposizione del mezzo probatorio (mentre detta violazione non si può ravvisare nella mera circostanza che il giudice abbia valutato le prove proposte dalle parti attribuendo maggior forza di convincimento ad alcune piuttosto che ad altre);
parimenti la pronuncia rammenta che la violazione dell’art. 116 c.p.c. è riscontrabile solo ove si alleghi che il giudice, nel valutare una prova o, comunque, una risultanza probatoria, non abbia operato – in assenza di diversa indicazione normativa – secondo il suo «prudente apprezzamento», pretendendo di attribuirle un altro e diverso valore, oppure il valore che il legislatore attribuisce ad una differente risultanza probatoria (come, ad esempio, valore di prova legale), nonché, qualora la prova sia soggetta ad una specifica regola di valutazione, abbia invece dichiarato di valutare la stessa secondo il suo prudente apprezzamento, mentre, ove si deduca che il giudice ha solamente male esercitato il suo prudente apprezzamento della prova, la censura era consentita ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ., nel testo previgente ed ora solo in presenza dei gravissimi vizi motivazionali individuati da questa Corte fin da Cass. SS.UU. nn. 8053 e 8054 del 2014;
circa la dedotta violazione dell’art. 2697 c.c. la disposizione è censurabile per cassazione ai sensi dell’art. 360, co. 1, n. 3 c.p.c., soltanto nell’ipotesi in cui il giudice abbia attribuito l’onere della prova ad una parte diversa da quella che ne fosse onerata secondo le regole di scomposizione delle fattispecie basate sulla differenza tra fatti costitutivi ed eccezioni e non invece laddove oggetto di censura – come nella specie -sia la valutazione che il giudice abbia svolto delle prove proposte dalle parti (Cass. n. 15107 del 2013; Cass. n. 13395 del 2018);
in ogni caso spetta al giudice del merito apprezzare, nell’ambito del giudizio di fatto al medesimo riservato, l’esistenza ed il valore di una condotta di non contestazione dei fatti rilevanti, allegati dalla controparte (Cass. n. 3680 del 2019; Cass. n. 3126 del 2019);
3. pertanto, il ricorso nel suo complesso deve essere respinto, con spese che seguono la soccombenza liquidate come da dispositivo;
ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, della legge n. 228 del 2012, occorre altresì dare atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato,
pari a quello, ove dovuto, per il ricorso, a norma del comma 1- bis dello stesso art. 13 (cfr. Cass. SS.UU. n. 4315 del 2020);
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna parte ricorrente al pagamento delle spese liquidate in euro 4.500,00, oltre euro 200,00 per esborsi, accessori secondo legge e rimborso spese generali al 15%.
Ai sensi dell’art. 13, co. 1 quater, d.P.R. n. 115 del 2002 dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello per il ricorso a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13, se dovuto.