Corte di Cassazione, sezione lavoro, ordinanza n. 4626 depositata il 21 febbraio 2024
liquidazioni delle spese – contratti a termine
Rilevato che:
1. Con sentenza n. 176 del 18.9.2018, la Corte d’appello di Brescia, pronunciando in sede di rinvio dalla Corte di cassazione (sentenza n. 18292/2017), in riforma della sentenza di primo grado, ha dichiarato la nullità del termine apposto al contratto concluso tra V.M. e Poste Italiane spa per il periodo dal 1° luglio 2004 al 31 ottobre 2004, costituito tra le parti un rapporto di lavoro a tempo indeterminato a far data dal 1° luglio 2004 ed ha condannato Poste al pagamento di una indennità, ai sensi dell’art. 32, comma 5, della legge 183 del 2010, liquidata in misura pari a tre mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto.
2. La Corte territoriale, per quanto ancora rileva, ha ritenuto che il lavoratore, assunto per ragioni di carattere sostitutivo, fosse stato in realtà assegnato, per almeno 46 giorni sui 100 giorni di durata del rapporto, ad un posto vacante. Ha giudicato assorbite le censure mosse dal medesimo ai contratti di somministrazione a termine successivamente stipulati.
3. Avverso tale sentenza V.M. ha proposto ricorso per cassazione affidato a tre motivi. Poste Italiane spa ha resistito con controricorso. Entrambe le parti hanno depositato memoria.
4. Il Collegio si è riservato di depositare l’ordinanza nei successivi sessanta giorni, ai sensi dell’art. 380 bis.1 c.p.c., come modificato dal d.lgs. n. 149 del 2022.
Considerato che:
5. Con il primo motivo di ricorso il lavoratore deduce, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 3 c.p.c., violazione e falsa applicazione dell’art. 32, comma 5, della legge n. 183 del 2010 per avere la Corte d’appello quantificato l’indennità risarcitoria sulla base del solo parametro della durata del rapporto di lavoro e senza tener conto degli altri criteri dettati dall’art. 8, legge 604 del 1966.
6. Con il secondo motivo il ricorrente censura la sentenza, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 4 e n. 5 c.p.c., per violazione e falsa applicazione dell’art. 132 c.p.c. nonché per motivazione assente, illogica e contraddittoria su fatti decisivi in relazione ai parametri di cui all’art. 8, legge 604 del 1966. Definisce la motivazione incomprensibile e apparente poiché non illustra il processo logico giuridico seguito nel comparare il parametro della durata del rapporto di lavoro con le altre circostanze allegate dal ricorrente, concernenti le notevoli dimensioni e l’elevato numero dei dipendenti della società, il comportamento della stessa contrario a correttezza e buona fede, la durata del giudizio di primo e secondo grado. Assume che la motivazione è perplessa ed incomprensibile anche riguardo al parametro della durata del rapporto di lavoro poiché non specifica se il riferimento è fatto al contratto a termine dichiarato nullo (durata quattro mesi), al periodo lavorativo che va dalla sentenza cassata alla estromissione del ricorrente (durata 8 anni e 1,5 mesi) oppure alla durata complessiva dei quattro contratti a termine stipulati dalla società con il ricorrente (durata quattordici mesi).
7. Con il terzo motivo si denuncia, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 3 e n. 5 c.p.c., violazione e falsa applicazione dell’art. 91 c.p.c. in relazione all’art. 24, legge 794/42, degli artt. 1, 4, 5 e 6 del D.M. 127/04, degli artt. 2, 4 e 5 del D.M. 55/14, dell’art. 2333 comma 2, c.c. nonché vizio di motivazione apparente. Si censura la sentenza per aver liquidato gli importi in modo unitario, senza distinguere tra diritti e onorari e tra le diverse fasi del giudizio; per non avere riconosciuto alcuna somma a titolo di rimborso delle spese vive e di trasferta; per non aver specificato il valore attribuito alla causa, il sistema di liquidazione adottato e i criteri utilizzati per la determinazione degli importi; per avere liquidato le spese al di sotto dei minimi tariffari.
8. I primi due motivi di ricorso, da trattare congiuntamente perché entrambi relativi, sia pure da diversi punti di vista, ai criteri di liquidazione dell’indennità risarcitoria, non sono fondati.
9. L’art. 32, comma 5, della legge 183 del 2010 prevede: “Nei casi di conversione del contratto a tempo determinato, il giudice condanna il datore di lavoro al risarcimento del lavoratore stabilendo un’indennità onnicomprensiva nella misura compresa tra un minimo di 2,5 ed un massimo di 12 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, avuto riguardo ai criteri indicati nell’articolo 8 della legge 15 luglio 1966, n. 604”. In base al disposto dell’art. 1, comma 13, della legge 92 del 2012, “La disposizione di cui al comma 5 dell’articolo 32 della legge 4 novembre 2010, n. 183, si interpreta nel senso che l’indennità ivi prevista ristora per intero il pregiudizio subito dal lavoratore, comprese le conseguenze retributive e contributive relative al periodo compreso fra la scadenza del termine e la pronuncia del provvedimento con il quale il giudice abbia ordinato la ricostituzione del rapporto di lavoro” (vedi ora art. 28, comma 2, d.lgs. 81 del 2015, il cui art. 55 ha abroga l’art. 1, comma 13, della legge 92/12).
10. L’art. 8, della legge 604 del 1966, richiamato dal citato art. 32, quinto comma, stabilisce che, al fine di determinare l’indennità risarcitoria, occorre avere riguardo “al numero dei dipendenti occupati, alle dimensioni dell’impresa, all’anzianità di servizio del prestatore di lavoro, al comportamento e alle condizioni delle parti”.
11. E’ stato costantemente affermato da questa S.C. che, in tema di risarcimento del danno per i casi di conversione del contratto di lavoro a tempo determinato, l’art. 32, commi 5, 6 e 7, della legge n. 183 del 2010 configura, alla luce dell’interpretazione adeguatrice offerta dalla Corte costituzionale con sentenza n. 303 del 2011, una sorta di penale “ex lege” a carico del datore di lavoro che ha apposto il termine nullo; pertanto, l’importo dell’indennità è liquidato dal giudice, nei limiti e con i criteri fissati dalla novella, a prescindere dall’intervenuta costituzione in mora del datore di lavoro e dalla prova di un danno effettivamente subito dal lavoratore (senza riguardo, quindi, per l’eventuale “aliunde perceptum”), trattandosi di indennità “forfetizzata” e “onnicomprensiva” per i danni causati dalla nullità del termine nel periodo cosiddetto “intermedio” che va dalla scadenza del termine alla sentenza di conversione (v. Cass. n. 3056 del 2012; n. 151 del 2015; n. 19295 del 2014).
12. Si è sottolineato come i criteri di cui all’art. 8, L. n. 604 del 1966 consentano di calibrare l’importo dell’indennità forfettaria in relazione alle peculiarità delle singole vicende, come la durata dei contratti a tempo determinato (evocata dal criterio dell’anzianità lavorativa), la gravità della violazione e la tempestività della reazione del lavoratore (sussumibili sotto l’indicatore del comportamento delle parti), lo sfruttamento di occasioni di lavoro (e di guadagno) altrimenti inattingibili in caso di prosecuzione del rapporto (riconducibile al parametro delle condizioni delle parti), nonché le stesse dimensioni dell’impresa (immediatamente misurabili attraverso il numero dei dipendenti). Così interpretata, la nuova normativa ha superato il giudizio di costituzionalità sotto i vari profili sollevati, con riferimento agli artt. 3, 4, 11, 24, 101, 102 e 111 Cost. e art. 117 Cost., comma 1 (cfr. Corte Cost. n. 303 del 2011).
13. Si è inoltre precisato che “In tema di contratto a termine, la determinazione, tra il minimo e il massimo, della misura dell’indennità prevista dall’art. 32, comma 5, della legge 4 novembre 2010, n. 183 – che richiama i criteri indicati dall’art. 8 della legge 15 luglio 1966, n. 604 – spetta al giudice di merito ed è censurabile in sede di legittimità solo per motivazione assente, illogica o contraddittoria” (Cass. n. 6122 del 2014; n. 1320 del 2014; v. anche Cass. n. 15161 del 2019 in motivazione, § 14-16).
14. Ai principi finora richiamati si è attenuta la sentenza impugnata che ha avuto riguardo, sia pure implicitamente, ai criteri dettati dall’art. 8 cit., come si ricava dall’utilizzo del termine “peraltro” (v. sentenza pag. 6, terzultimo cpv), pur avendo dato prevalenza, attraverso l’esplicito riferimento, al criterio della durata del rapporto, e quindi all’anzianità di servizio maturata nell’esecuzione del contratto il cui termine è stato dichiarato nullo, di soli quattro mesi. A fronte di tale valutazione compiuta dalla Corte di merito nella quantificazione della indennità tra il minimo e il massimo e sulla base dei criteri normativi applicabili, le censure di parte ricorrente sollecitano in sostanza la revisione del ragionamento decisorio sul punto e sono, come tali, precluse in questa sede di legittimità.
15. Non ricorre quindi la dedotta violazione dell’art. 32, quinto comma, cit. e neppure è configurabile il vizio di omessa o apparente motivazione non rinvenendosi nella decisione impugnata le anomalie motivazionali descritte dalle S.U. di questa Corte nelle sentenze n. 8053 e n. 8054 del 2014.
16. Il terzo motivo di ricorso è, invece, fondato atteso che la sentenza d’appello ha provveduto alla liquidazione delle spese senza in alcun modo indicare i criteri di liquidazione adottati per determinare gli importi e, specificamente, i parametri tariffari applicati, in tal modo impedendo di comprendere il percorso logico e giuridico seguito per giungere alla liquidazione in concreto effettuata e di verificare anche il rispetto dei minimi tariffari.
17. Riguardo alla liquidazione unitaria, occorre considerare che, con riferimento al regime anteriore al D.M. n. 55 del 2014, questa Corte ha ripetutamente statuito che “La liquidazione delle spese giudiziali non può essere compiuta globalmente per spese, competenze e onorari, perché ciò non consentirebbe alla parte di controllare il rispetto dei minimi tariffari e di denunciare le eventuali violazioni, anche alla luce dell’onere, gravante sulla parte che intenda impugnare per Cassazione, dell’analitica specificazione delle voci e degli importi considerati, necessaria per consentire il controllo di legittimità“, (così Cass. n. 1707 del 1995; n. 5607 del 1997; n. 9907 del 2001); si è ulteriormente precisato che “Il giudice nella liquidazione delle spese processuali deve sempre mettere le parti in condizione di verificare l’osservanza dei minimi tariffari; può, tuttavia, liquidare le spese con unica cifra, comprensiva degli esborsi, delle competenze di procuratore e degli onorari di avvocato, purché, accanto all’importo complessivo, determini il distinto ammontare di questi ultimi, consentendo così alla parte interessata di effettuare, per esclusione, un controllo adeguato sul “quantum” delle voci residue”, (così Cass. n. 7527 del 2002; n. 11006 del 2002; v. più recentemente Cass. n. 15161 del 2019 in motivazione).
18. Quanto alla censura di mancato rimborso delle spese vive e di trasferta, deve richiamarsi la statuizione (v. Cass., S.U. n. 31030 del 2019) secondo cui “All’avvocato sono dovute, oltre al rimborso delle spese documentate e di quelle forfettarie generali (non strettamente inerenti alla singola pratica ma necessarie per la conduzione dello studio), altre spese che sfuggono ad una precisa elencazione ma che di fatto sono sostenute dal professionista nello svolgimento del singolo incarico (tra le quali, gli esborsi per gli spostamenti necessari per raggiungere l’Ufficio giudiziario in occasione delle udienze o degli adempimenti di cancelleria, diversi da quelli per viaggio e trasferta di cui all’art. 27 del d.m. n. 55 del 2014, i costi per fotocopie, per l’invio di email o per comunicazioni telefoniche inerenti l’incarico e sostenuti fuori dallo studio); tali spese sono liquidabili in via equitativa per l’impossibilità o la rilevante difficoltà di provare il loro preciso ammontare nonché in considerazione della loro effettiva ricorrenza secondo l’id quod plerumque accidit“.
19. In accoglimento del terzo motivo di ricorso, la sentenza impugnata deve pertanto essere cassata, con rinvio alla medesima Corte d’appello, in diversa composizione, che, uniformandosi ai richiamati principi di diritto, procederà alla liquidazione delle spese dell’intero giudizio e del presente giudizio di legittimità.
P.Q.M.
La Corte accoglie il terzo motivo di ricorso, rigetta gli altri motivi, cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia alla Corte d’appello di Brescia, in diversa composizione, anche per le spese del giudizio di legittimità.
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