CORTE di CASSAZIONE, sezione lavoro, ordinanza n. 6431 depositata l’ 8 marzo 2024
Lavoro – Sanzione disciplinare della sospensione dal servizio e dalla retribuzione – Falsificazione materiale di buono postale fruttifero – Valore di una condotta di non contestazione dei fatti rilevanti allegati dalla controparte – Inammissibilità
Rilevato che
1. la Corte di Appello di Napoli, con la sentenza impugnata, in riforma della pronuncia di primo grado, ha dichiarato la legittimità della sanzione disciplinare della sospensione dal servizio e dalla retribuzione per quattro giorni, irrogata da P.I. Spa a P.E.;
2. la Corte, in sintesi, ha ritenuto pacifici i fatti contestati, “nel senso che non è oggetto di contestazione che la E., in qualità di operatrice di sportello presso l’Ufficio postale di Lucignano, effettuò in data 5/11/2015 il rimborso di un buono postale fruttifero, […], dell’importo di euro 5.406,69, che, come indicato nel report ispettivo e nella contestazione disciplinare, riportava evidenti elementi di falsificazione materiale”;
in difformità da quanto ritenuto dal primo giudice, la Corte ha ritenuto che, “al fine di valutare la condotta della E. e la legittimità della irrogata sanzione, non era affatto necessaria l’esibizione del titolo, da parte delle Poste, dal momento che la contraffazione del buono e le sue palesi alterazioni non avevano minimamente formato oggetto di contestazione da parte della odierna appellata, che aveva avuto modo di visionarlo in sede ispettiva; parimenti non è stata negata la evidente discordanza esistente tra il cognome riportato sulla scheda BS e quella sul titolo contraffatto, tanto che la stessa dipendente in sede ispettiva ebbe a dichiarare, a fronte della evidente divergenza delle due trascrizioni, che non riusciva a capire come aveva fatto a non accorgersi della differenza, ammettendo in tal modo la propria disattenzione”;
3. per la cassazione di tale sentenza ha proposto ricorso la soccombente con due motivi; ha resistito con controricorso la società;
all’esito della camera di consiglio, il Collegio si è riservato il deposito dell’ordinanza nel termine di sessanta giorni;
Considerato che
1. col primo motivo di ricorso si denuncia la nullità della sentenza o del procedimento, ai sensi del n. 4 dell’art. 360 c.p.c., per violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c. nonché degli artt. 2697, 2730 e 2735 c.c., lamentando una “valutazione del materiale probatorio priva di logica e ragionevolezza”; si critica la sentenza impugnata perché in contrasto col principio che “il verbale ispettivo interno non ha valenza probatoria, essendo unicamente utilizzabile dal datore per ricostruire le vicende storiche fattuali”; si contesta che la ricorrente avesse mai ammesso i fatti contestati, atteso che il buono postale non era mai stato prodotto in giudizio; si eccepisce che il giudice del gravame avrebbe deciso la controversia sulla base di un documento privo di valenza probatoria e altresì violando gli artt. 2730 e 2735 c.c. per aver considerato provata “la condotta sulla base della dichiarazione resa in sede stragiudiziale dalla Sig.ra E. in sede ispettiva”;
il motivo è inammissibile in ogni sua prospettazione;
come ribadito dalle Sezioni unite di questa Corte (Cass. SS.UU. n. 20867 del 2020) la violazione dell’art. 116 c.p.c. è riscontrabile solo ove si alleghi che il giudice, nel valutare una prova o, comunque, una risultanza probatoria, non abbia operato – in assenza di diversa indicazione normativa – secondo il suo «prudente apprezzamento», pretendendo di attribuirle un altro e diverso valore, oppure il valore che il legislatore attribuisce ad una differente risultanza probatoria (come, ad esempio, valore di prova legale), nonché, qualora la prova sia soggetta ad una specifica regola di valutazione, abbia invece dichiarato di valutare la stessa secondo il suo prudente apprezzamento, mentre, ove si deduca – come nella specie – che il giudice ha solamente male esercitato il suo prudente apprezzamento della prova, la censura era consentita ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ., nel testo previgente ed ora solo in presenza dei gravissimi vizi motivazionali individuati da questa Corte fin da Cass. SS.UU. nn. 8053 e 8054 del 2014;
inoltre, nel vigore del novellato art. 115 c.p.c., a mente del quale la mancata contestazione specifica di circostanze di fatto produce l’effetto della relevatio ad onere probandi, spetta al giudice del merito apprezzare, nell’ambito del giudizio di fatto al medesimo riservato, l’esistenza ed il valore di una condotta di non contestazione dei fatti rilevanti, allegati dalla controparte (Cass. n. 3680 del 2019; Cass. n. 3126 del 2019); peraltro, il principio di non contestazione ha per oggetto i fatti storici sottesi a domande ed eccezioni, ma non le conclusioni ermeneutiche da trarre, in ordine al valore probatorio ed all’interpretazione di documenti (cfr. Cass. n. 6172 del 2020; Cass. n. 30744 del 2017; Cass. n. 12748 del 2016);
l’art. 2697 c.c., poi, è censurabile per cassazione ai sensi dell’art. 360, co. 1, n. 3 c.p.c., soltanto nell’ipotesi in cui il giudice abbia attribuito l’onere della prova ad una parte diversa da quella che ne fosse onerata secondo le regole di scomposizione delle fattispecie basate sulla differenza tra fatti costitutivi ed eccezioni e non invece laddove oggetto di censura sia la valutazione che il giudice abbia svolto delle prove proposte dalle parti (Cass. n. 15107 del 2013; Cass. n. 13395 del 2018), mentre nella specie parte ricorrente critica l’apprezzamento operato dai giudici del merito circa la prova dei fatti oggetto di contestazione dell’addebito, opponendo una diversa valutazione;
infine, la doglianza non si misura adeguatamente con la ratio fondante il decisum che non si basa su “di un documento privo di valenza probatoria”, bensì sulla complessiva valutazione della condotta della parte convenuta nell’originario giudizio intentato dalle Poste per accertare la legittimità della sanzione conservativa;
2. il secondo motivo denuncia, ancora ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 4, c.p.c., la nullità della sentenza o del procedimento per violazione degli artt. 342 e 434 c.p.c., “nella parte in cui la sentenza quivi impugnata riteneva (implicitamente) ammissibile l’avverso ricorso in appello ovvero nella parte in cui la sentenza medesima ometteva di pronunciarsi sulla preliminare eccezione di inammissibilità del ricorso in appello stesso”;
la censura non può trovare accoglimento;
il mancato esame, da parte del giudice di merito, di una questione puramente processuale non può dar luogo ad omissione di pronuncia, configurandosi quest’ultima nella sola ipotesi di mancato esame di domande o eccezioni di merito (per tutte v. Cass. n. 22592 del 2015 con la giurisprudenza ivi richiamata; v. poi Cass. ord. n. 321 del 2016; Cass. n. 25154 del 2018), per cui la sentenza che si assuma avere erroneamente rigettato l’eccezione di inammissibilità dell’appello non è censurabile in sede di legittimità per violazione dell’art. 112 c.p.c. (Cass. n. 1701 del 2009);
inoltre, le Sezioni unite civili (Cass. SS.UU. n. 27199 del 2017) hanno considerato, in relazione agli artt. 342 e 434 c.p.c., nel testo formulato dal d.l. n. 83 del 2012, conv. con modif. dalla l. n. 134 del 2012, come, per superare il vaglio di ammissibilità dell’appello, non “occorra l’utilizzo di particolari forme sacramentali o la redazione di un progetto alternativo di decisione da contrapporre a quella di primo grado”, risultando sufficiente che l’impugnazione contenga “una chiara individuazione delle questioni e dei punti contestati della sentenza impugnata e, con essi, delle relative doglianze”; si è, in particolare, ribadito che “la riforma del 2012 non ha trasformato, come alcuni hanno ipotizzato, l’appello in un mezzo di impugnazione a critica vincolata […] l’appello è rimasto una revisio prioris instantiae; e i giudici di secondo grado sono chiamati in tale sede ad esercitare tutti i poteri tipici di un giudizio di merito, se del caso svolgendo la necessaria attività istruttoria, senza trasformare l’appello in una sorta di anticipato ricorso per cassazione”; secondo il Supremo Collegio “la diversità tra il giudizio di appello e quello di legittimità va fermamente ribadita proprio alla luce della portata complessiva della riforma legislativa del 2012 la quale, mentre ha introdotto un particolare filtro che può condurre all’inammissibilità dell’appello a determinate condizioni (artt. 348-bis e 348-ter cod. proc. civ.), ha nel contempo ristretto le maglie dell’accesso al ricorso per cassazione per vizio di motivazione; il che impone di seguire un’interpretazione che abbia come obiettivo non quello di costruire un’ulteriore ipotesi di decisione preliminare di inammissibilità, bensì quello di spingere verso la decisione nel merito delle questioni poste”; tanto in coerenza con la “regola generale” secondo cui “le norme processuali devono essere interpretate in modo da favorire, per quanto possibile, che si pervenga ad una decisione di merito, mentre gli esiti abortivi del processo costituiscono un’ipotesi residuale” (tra le successive conf. v. Cass. n. 13535 del 2018; Cass. n. 7675 del 2019);
in coerenza con tale prospettiva interpretativa la Corte territoriale ha esaminato nel merito il gravame, implicitamente ritenendo che il quantum appellatum fosse specificato in modo esauriente, ponendo il giudice superiore in condizione di comprendere con chiarezza quale fosse il contenuto delle censure proposte, potendo le stesse anche consistere, con i dovuti adattamenti, in una ripresa delle linee difensive del primo grado;
3. pertanto, il ricorso deve essere complessivamente dichiarato inammissibile, con condanna alle spese secondo il regime della soccombenza;
ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, della legge n. 228 del 2012, occorre dare atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello, ove dovuto, per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13 (cfr. Cass. SS.UU. n. 4315 del 2020);
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna la parte ricorrente al pagamento delle spese liquidate in euro 3.500,00, oltre euro 200,00 per esborsi, accessori secondo legge e rimborso spese generali al 15%.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, della legge 24 dicembre 2012, n. 228, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello, ove dovuto, per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13.
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