CORTE di CASSAZIONE, sezione lavoro, ordinanza n. 9547 depositata il 9 aprile 2024
Lavoro – TFR pubblicistico – Periodo di lavoro svolto a tempo determinato – Rigetto
Svolgimento del processo
I.R. ha chiesto al Tribunale di Bologna la condanna dell’INPS a liquidare il suo TFR, maturato al termine del periodo di lavoro svolto, a tempo determinato, alle dipendenze del Comune di Bologna dal mese di settembre 2014 al mese di maggio 2015, periodo al quale era seguito un nuovo rapporto a tempo indeterminato ancora in essere presso il medesimo ente.
Il Tribunale di Bologna, con sentenza n. 200/2018, ha accolto la domanda.
L’INPS ha proposto appello che la Corte d’appello di Bologna, con sentenza n. 404/2019, ha rigettato.
L’INPS ha proposto ricorso per cassazione sulla base di due motivi.
I.R. si è difesa con controricorso e ha depositato memoria.
Motivi della decisione
1) Con il primo motivo parte ricorrente lamenta la violazione e falsa applicazione dell’art. 2 della legge n. 335 del 1995, dell’Accordo quadro ARAN Confederazioni sindacali del 29 luglio 1999 e del successivo d.P.C.M. del 20 dicembre 1999 e dell’art. 26, comma 19, della legge n. 448 del 1998 in quanto la corte territoriale avrebbe errato nel considerare il TFR pubblicistico del tutto disciplinato dall’art. 2120 c.c. come il TFR privatistico.
Infatti, il TFR pubblicistico sarebbe stato caratterizzato dal fatto di non essere erogato dal datore di lavoro, ma tramite un fondo gestito dall’INPS e finanziato con dei contributi previdenziali obbligatori, con la conseguenza che detto TFR sarebbe stato contabilizzato solo figurativamente
Inoltre, sarebbero stati diversi il meccanismo di computo della prestazione, quello relativo all’anticipazione del TFR e quello concernente la possibilità di ricevere siffatto trattamento mensilmente in busta paga.
Sarebbe stato in vigore, poi, un particolare meccanismo di c.d. invarianza. La legge avrebbe previsto, quindi, una rateizzazione del pagamento del TFR pubblicistico e l’inapplicabilità della normativa sul fondo di garanzia per il TFR.
Da queste considerazioni sarebbe derivato che sarebbe stato necessario valorizzare la natura previdenziale del TFR pubblicistico rispetto a quello privatistico che, invece, avrebbe avuto solo carattere di retribuzione differita.
Con il secondo motivo parte ricorrente lamenta la violazione e falsa applicazione dell’art. 5 del d.lgs. n. 368 del 2001 e della sentenza della CGUE n. 22 del 2014.
Le doglianze, che possono essere trattate congiuntamente, stante la stretta connessione, sono infondate.
Infatti, a prescindere dai profili di inammissibilità del ricorso, che contesta solo genericamente le conclusioni della Corte d’appello di Bologna, la più recente giurisprudenza ha affermato che, in caso di estinzione del rapporto di lavoro a termine alle dipendenze di una pubblica amministrazione, seguita dall’assunzione in ruolo e dalla costituzione, presso la stessa, di un nuovo rapporto di lavoro – per il quale matura il trattamento ex art. 2120 c.c. – il dipendente ha diritto a percepire un autonomo trattamento di fine rapporto sin dal momento della cessazione del primo rapporto di lavoro (Cass., Sez. L, n. 5895 del 3 marzo 2020; per un analogo ragionamento, Cass., Sez. L, n. 2828 del 5 febbraio 2021, non massimata).
In particolare, si osserva che le Sezioni Unite di questa S.C., con la decisione n. 24280 del 14 novembre 2014, hanno già respinto la tesi dell’INPS di infrazionabilità del trattamento di fine servizio in una fattispecie in cui era avvenuto il passaggio, senza soluzione temporale di continuità, dall’impiego alle dipendenze del Comune (nella scuola comunale) in regime di «indennità premio di servizio» ad un nuovo rapporto di impiego alle dipendenze del MIUR (nella scuola statale) in regime di TFR.
Nella richiamata pronuncia le Sezioni Unite, dopo avere evidenziato che la disciplina dell’art. 3 d.P.R. n. 1032 del 1973 è tutta interna al lavoro statale ed alla indennità di buonuscita e non si applica nel caso di cessazione del rapporto di lavoro alle dipendenze di un ente locale ed instaurazione di un nuovo rapporto alle dipendenze dello Stato, hanno svolto considerazioni più generali, in ordine alla successione di due diversi rapporti di lavoro alle dipendenze della amministrazione statale, entrambi in regime di TFR.
Hanno sottolineato che la tesi della infrazionabilità del trattamento di fine servizio dei dipendenti pubblici – anche in presenza di un nuovo rapporto di lavoro – trovava fondamento nell’affermazione che il diritto a percepire il trattamento di fine servizio non era collegato all’estinzione del rapporto di lavoro, ma all’estinzione del rapporto previdenziale, rapporto che poteva persistere in presenza di cessazioni e nuove costituzioni del rapporto di lavoro, con il medesimo o con un diverso ente pubblico. In sostanza, il presupposto di tale tesi era costituito dalla natura previdenziale e non anche retribuiva dell’indennità di fine servizio e dal conseguente collegamento del diritto alla sua liquidazione con il rapporto previdenziale e non con quello di lavoro.
Osservando come questa tesi fosse comunque fragile, perché discutibile e discussa era l’affermazione della natura previdenziale del trattamento di fine servizio, che ne costituiva il presupposto, le Sezioni Unite hanno affermato (punti da 37 a 40 della pronuncia citata):
«L’argomentazione, in ogni caso, oggi non è più spendibile, essendo cambiato il quadro normativo perché il legislatore, con la riforma delle pensioni (L. n. 335 del 1995, prima richiamata), ha “armonizzato” i molteplici trattamenti di fine servizio dei dipendenti pubblici contrattualizzati, assoggettandoli tutti alla disciplina privatistica dettata dall’art. 2120 c.c., (come riformato dalla L. n. 297 del 1982).
Alla stregua di questa normativa, il TFR spetta “in ogni caso di cessazione del rapporto di lavoro subordinato” (art. 2120 c.c., comma 1), quindi il collegamento, per espressa previsione normativa, è con la cessazione del rapporto di lavoro subordinato. All’interprete non è consentito modificare il contenuto della norma operando il collegamento con l’estinzione del rapporto previdenziale, qualora le estinzioni dei due rapporti non coincidano.
Inoltre, il TFR viene costituito mediante l’accantonamento anno per anno di quella che l’art. 2120 c.c., definisce una quota della retribuzione determinata dividendo per 13,50 la retribuzione annua corrisposta, a titolo non occasionale, in dipendenza del rapporto di lavoro. È pertanto chiaro il carattere pure “retributivo e sinallagmatico” del TFR, come la Sezione lavoro di questa Corte ha già messo in evidenza (da ultime, Cass. 14 maggio 2013, n. 11479 e 22 settembre 2011, n. 19291, ma cfr. anche le convergenti conclusioni della Sezione tributaria in Cass. 26 maggio 2005, n. 11175).
Il TFR, quindi, è costituito da retribuzioni accantonate, da percepire a fine rapporto o anche prima qualora sussistano i requisiti per l’anticipazione prevista dalla parte finale dell’art. 2120 c.c. Di conseguenza, viene meno il ponte concettuale che permetteva di sostenere la tesi della infrazionabilità del trattamento di fine servizio pur in presenza di un’estinzione del rapporto di lavoro, quando ciò non implicasse anche l’estinzione del rapporto previdenziale».
Non vi sono ragioni per discostarsi da tale principio in questa sede.
D’altronde, come evidenziato dalla giurisprudenza (Cass., Sez. L, n. 5895 del 3 marzo 2020), a tenore dell’art. 1, comma 6, d.P.C.M. 20 dicembre 1999, il trattamento di fine rapporto è liquidato dall’INPS (ex INPDAP) «alla cessazione dal servizio del lavoratore secondo quanto disposto dalla legge 29 maggio 1982 nr. 297».
Analogamente, il successivo art. 2 prevede che, nei confronti del personale assunto successivamente alla data del 31 dicembre 2000, si applicano le regole «concessive» di cui alla legge n. 297 del 1982.
Pertanto, l’esigibilità del TFR è stata ancorata ai medesimi presupposti previsti per il lavoro privato e, dunque, alla cessazione giuridica del rapporto di lavoro e non alla cessazione della iscrizione al fondo per il trattamento di fine rapporto, gestito dall’INPS. Resta irrilevante, al pari di quanto previsto per il lavoro privato, la eventuale continuità temporale, in fatto, di più rapporti di lavoro, in forza della quale permanga la iscrizione al fondo; assume, invece, esclusivo rilievo, ai fini della esigibilità del TFR, la «cessazione dal servizio» ovvero la cesura sotto il profilo giuridico tra due rapporti di lavoro, seppure in successione temporale tra loro ed alle dipendenze della medesima amministrazione.
La natura retributiva, oltre che previdenziale, del TFR ha trovato conferma nella sentenza della Corte costituzionale n. 159 del 2019 (sul punto, si veda anche la sentenza n. 130 del 23 giugno 2023 della Corte costituzionale).
La suddetta sentenza ha affermato, tra l’altro, che l’evoluzione normativa, stimolata dalla giurisprudenza costituzionale, ha ricondotto le indennità di fine rapporto erogate nel settore pubblico al paradigma comune della retribuzione differita con concorrente funzione previdenziale, nell’ambito di un percorso di tendenziale assimilazione alle regole dettate nel settore privato dall’art. 2120 c.c. (decreto del Presidente del Consiglio dei ministri 20 dicembre 1999).
Tale processo di armonizzazione, contraddistinto anche da un ruolo rilevante dell’autonomia collettiva (sentenza Corte cost. n. 213 del 2018), rispecchia la finalità unitaria dei trattamenti di fine rapporto, che si prefiggono di accompagnare il lavoratore nella delicata fase dell’uscita dalla vita lavorativa attiva.
Pertanto, le particolarità che ancora caratterizzano il TFR pubblico non hanno alcuna incidenza sulle considerazioni sinora svolte.
Privo di pregio è il richiamo della giurisprudenza della CGUE (sentenza n. 22 del 2014) da parte dell’INPS, in quanto essa non fa venire meno la distinzione fra il rapporto di lavoro svolto a tempo determinato quello, successivo, a tempo indeterminato.
Inconferente è, infine, la menzione della sentenza di questa sezione della S.C. n. 4604 del 6 marzo 2015, la quale si è occupata della determinazione dell’indennità premio di fine servizio, tenendo a precisare che “È soltanto con la L. 8 agosto 1995, n. 335, art. 2, comma 5, che, per i lavoratori assunti dal 1° gennaio 1996, i trattamenti di fine servizio, comunque denominati, sono regolati in base a quanto previsto in materia di trattamento di fine rapporto dal codice civile, così definitivamente superando la struttura previdenziale di trattamenti di quiescenza come quello in esame”.
2) Il ricorso è rigettato.
Le spese di lite seguono la soccombenza ex art. 91 c.p.c. e sono liquidate come in dispositivo.
Si attesta che sussistono i presupposti processuali per il versamento, da parte della P.A. ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso (d.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater), se dovuto.
P.Q.M.
– rigetta il ricorso;
– condanna parte ricorrente a rifondere le spese di lite, che liquida in complessivi € 3.000,00, per compenso, oltre € 200,00 per esborsi, accessori di legge e spese generali nella misura del 15%, da distrarsi in favore del difensore dichiaratosi antistatario;
– dichiara che sussistono i presupposti processuali per il versamento, da parte della P.A. ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso (d.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater), se dovuto.
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