CORTE di CASSAZIONE, sezione lavoro, Sentenza n. 26963 depositata il 17 ottobre 2024

Lavoro – Decreto monitorio – Diritto al compenso aggiuntivo – Prestazioni aggiuntive – Rigetto

Fatti di causa

1. T.O., responsabile dei servizi bibliotecari dell’Università degli Studi di Macerata con inquadramento nella categoria elevate professionalità (in seguito EP), chiedeva ed otteneva dal Tribunale di Macerata decreto monitorio contro l’Ateneo per complessivi € 53.974,90 in relazione all’attività svolta (dal 2005 al 2011) in favore di soggetti esterni all’organizzazione universitaria in forza di convenzione stipulata in data 15.11.2002 e successivamente rinnovata dall’Università.

2. Proposta opposizione dall’Università, il Tribunale l’accoglieva parzialmente: il giudice del lavoro riconosceva, infatti, l’esistenza del credito ma nella sua determinazione faceva proprie le conclusioni della CTU, rideterminandone il quantum in € 31.396,95.

 3. La Corte d’appello di Ancona, adita da ambo le parti, rigettava il gravame incidentale della lavoratrice e accoglieva quello principale dell’Ateneo; osservava che il diritto al compenso aggiuntivo vantato dalla dipendente, ai sensi dell’art. 66 d.P.R. n. 382 del 1980 e della convenzione sottoscritta dall’Università con la Provincia di Macerata, era insussistente in ragione del principio di onnicomprensività della retribuzione, quest’ultimo sancito, per la categoria EP, dall’art. 33 e 38 del c.c.n.l. 27.1.2005 e poi dell’art. 71 e 76 del c.c.n.l. del 16.10.2008 (Personale Comparto Università); rilevava che non era in contestazione la circostanza, riscontrata anche dall’istruttoria, che la dipendente, quale responsabile del servizio bibliotecario dell’Università, avesse svolto mansioni pienamente rientranti nel suo profilo di appartenenza; aggiungeva, infine, che non poteva trovare applicazione l’art. 4 del d.lgs. n. 370 del 1999, norma applicabile ai professori e ai ricercatori universitari, categorie alle quali non apparteneva l’O.

4. Contro tale sentenza ha proposto ricorso per cassazione la lavoratrice con tre motivi assistiti da memoria, mentre l’Università di Macerata ha depositato memoria tardiva al fine di partecipare all’udienza pubblica, nella quale non è intervenuta; la Procura generale ha rassegnato conclusioni scritte, chiedendo l’accoglimento dei primi due motivi con assorbimento del terzo.

Ragioni della decisione

1. Con il primo motivo si denuncia, ex art. 360, comma 1, n. 3, cod. proc. civ., violazione e falsa applicazione degli artt. 75 e 76 del c.c.n.l. del 16.10.2008 e degli artt. 37 e 38 del c.c.n.l. del 27.01.2005 relativo al personale del Comparto Università, in relazione al c.d. principio di onnicomprensività della retribuzione; l’O. non aveva percepito alcunché per le “prestazioni aggiuntive” che, contrariamente a quanto ritenuto dal giudice d’appello, era provato fossero state espletate fuori dall’orario di servizio e rese nell’ambito della previsione dell’art. 66 del d.P.R. n. 382/1980; in caso di incarichi aggiuntivi conferiti a personale della categoria EP, l’art. 75 comma 7-8 c.c.n.l. 2008 stabiliva che i relativi compensi confluissero ‒ come “quota aggiuntiva” e ulteriore, qui non corrisposta ‒ nella retribuzione di risultato, mentre la seconda parte dell’art. 76 comma 1 del c.c.n.l., cit., prevedeva che dal principio di onnicomprensività restavano esclusi i compensi che “specifiche disposizioni di legge” finalizzano all’incentivazione di prestazioni o risultati del personale.

2. Con il secondo mezzo si deduce violazione e falsa applicazione, ex art. 360, comma 1, n. 4, dell’art. 115 cod. proc. civ., per errore decisivo commesso dal giudice d’appello sui contenuti informativi che risultavano dal materiale probatorio, nonché per l’omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che era oggetto di discussione tra le parti, rilevante ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 5, cod. proc. civ., in relazione agli artt. 36 e 111 Cost.; si censura la sentenza di secondo grado nella parte in cui afferma che la dipendente, categoria EP, avendo continuato a svolgere «mansioni perfettamente rientranti nel profilo professionale di appartenenza» non aveva diritto a un compenso aggiuntivo ancorché previsto dal c.c.n.l. di comparto per l’incarico conferitole ad hoc nell’ambito di convenzione stipulata con la Provincia; si contestano i presupposti di fatto della decisione impugnata e si ripercorre diffusamente la motivazione della sentenza di primo grado che, sulla scorta delle deposizioni dei testimoni, riteneva l’attività svolta in base alle convenzioni con terzi estranea ai compiti ed ai doveri d’ufficio, circostanza negata dalla Corte di merito che, travisando i contenuti informativi emergenti dalla prova espletata, assumeva come incontestate circostanze oggetto di vivace dialettica processuale.

3. I primi due motivi sono da esaminare congiuntamente per ragioni di stretta connessione logico-giuridica; essi, non esenti da profili inammissibilità, sono comunque infondati.

3.1 Va premesso che il c.c.n.l. del Comparto Università del 27.1.2005, dopo aver chiarito, all’art. 38 (comma 1), che «Il trattamento economico del personale della categoria EP è composto dall’indennità di ateneo, dalla retribuzione di posizione, articolata al massimo su tre fasce, e dalla retribuzione di risultato», aggiunge che «La retribuzione di posizione e di risultato assorbono tutte le competenze accessorie e le indennità, compreso il compenso per il lavoro straordinario e con l’esclusione dell’indennità di ateneo, dell’indennità di rischio da radiazioni, e dei compensi che specifiche disposizioni di legge finalizzano all’incentivazione di prestazioni o risultati del personale». 

Analoga previsione si rinviene, invero, nell’art. 76 comma 1 del c.c.n.l. del 16.10.2008, mentre il precedente art. 75, al comma 7, dello stesso c.c.n.l. 2008, reca la disciplina degli “incarichi aggiuntivi” per il personale della categoria EP, prevedendo, al comma 9, che «Allo scopo di remunerare i maggiori oneri e responsabilità del personale della categoria EP che svolge incarichi aggiuntivi, viene corrisposta, in aggiunta alla retribuzione di posizione e di risultato, una quota ai fini del trattamento accessorio in ragione dell’impegno richiesto», quota che verrà poi definita «nella contrattazione integrativa in una misura ricompresa tra il 50% e 66% dell’importo disponibile una volta detratti gli oneri a carico dell’Amministrazione».

La Corte territoriale, sulla scorta dell’esegesi della disciplina contrattuale sopra richiamata, ha ritenuto che per la categoria EP sussistesse “l’onnicomprensività della retribuzione”, nella sua componente fondamentale e accessoria (retribuzione di posizione e risultato), escludendo che potesse venire in considerazione la deroga (v. artt. 38 c.c.n.l. 2005 e 76 c.c.n.l. 2008) legata ai «compensi che specifiche disposizioni di legge finalizzano all’incentivazione di prestazioni o risultati del personale».

A tale approdo la Corte di merito è essenzialmente pervenuta perché la dipendente, quale responsabile del servizio bibliotecario dell’Università, aveva in realtà continuato a svolgere, nel periodo 2005/2011, mansioni «perfettamente rientranti nel profilo professionale di appartenenza».

3.2 A fronte di ciò obietta la ricorrente, nei primi due motivi di ricorso, che le “prestazioni aggiuntive” in questione: i) erano state espletate fuori dall’orario di servizio e non come affermato dal giudice d’appello “all’interno dell’ordinario ordinario di lavoro”; ii) erano state rese nell’ambito della previsione dell’art. 66 d.P.R. n. 382/1980 e dovevano essere oggetto di remunerazione ex art. 76 comma 1 del c.c.n.l. del 16.10.2008; iii) dovevano essere comunque compensate, ex art. 75 comma 7-8 c.c.n.l. del 2008, almeno con una “quota aggiuntiva” e ulteriore della retribuzione di risultato; iv) erano comunque dovute alla stregua delle argomentazioni adottate in sentenza dal Tribunale, da ritenersi maggiormente persuasive rispetto a quelle della Corte distrettuale.

3.3 Si tratta di rilievi che non possono essere condivisi.

E’ utile rammentare, quanto al rilievo sub i), che il vizio di violazione di norme di diritto consiste nella deduzione di un’erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie normativa astratta e, quindi, implica necessariamente un problema interpretativo della stessa; viceversa, l’allegazione di una errata ricostruzione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa è esterna all’esatta interpretazione della norma ed inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, la cui censura è possibile, in sede di legittimità, sotto l’aspetto del vizio di motivazione, ma nei limiti fissati dalla disciplina applicabile ratione temporis.

Il discrimine tra l’una e l’altra ipotesi è segnato dal fatto che solo quest’ultima censura, e non anche la prima, è mediata dalla contestata valutazione delle risultanze di causa (fra le più recenti, tra le tante, Cass. 12.9.2016 n. 17921; Cass. 11.1.2016 n. 195; Cass. 30.12.2015 n. 26110).

Nel caso di specie, la ricorrente torna a prospettare, alla stregua di una personale lettura della prova testimoniale svolta in primo grado, la tesi difensiva, ritenuta non fondata dal giudice d’appello, secondo la quale le prestazioni sarebbero state svolte “al di fuori dell’ordinario orario di servizio” (p. 15 ricorso per cassazione), il che si risolve però in un’inammissibile sollecitazione di un diverso giudizio di merito, non consentito al giudice di legittimità.

È del pari inammissibile la deduzione (sub iii) in ordine alla spettanza di una “quota aggiuntiva” della retribuzione di risultato, aspetto che non risulta oggetto di alcuna disamina nella sentenza impugnata che interpreta la domanda, con accertamento in fatto non sindacabile in sede di legittimità, come volta al pagamento di “prestazioni aggiuntive” rispetto al trattamento economico fondamentale e accessorio ‒ retribuzione di posizione e risultato ‒ contrattualmente già erogato.

Ora, secondo la giurisprudenza di questa Corte, dalla quale non v’è ragione di discostarsi, nel giudizio di cassazione è preclusa alle parti la prospettazione di nuove questioni di diritto o di nuovi temi di contestazione che postulino indagini ed accertamenti di fatto non compiuti dal giudice di merito (Cass., Sez. 1, n. 19164 del 13/09/2007).

I motivi del ricorso per cassazione, infatti, devono investire, a pena d’inammissibilità, questioni che siano già comprese nel tema del decidere del giudizio di appello, non essendo deducibili per la prima volta in sede di legittimità questioni nuove o nuovi temi di contestazione non trattati nella fase di merito né rilevabili d’ufficio (Cass., Sez. 1, n. 7981 del 30/03/2007; Cass., Sez. 6 – 1, n. 17041 del 09/07/2013).

Qualora perciò con il ricorso per cassazione siano prospettate questioni di cui non vi sia cenno nella sentenza impugnata (ovvero questioni implicanti un accertamento di fatto o un profilo non trattato nella sentenza impugnata), il ricorrente, in osservanza del principio di specificità dei motivi ed a pena di inammissibilità, ha l’onere non solo di allegare l’avvenuta loro deduzione dinanzi al giudice di merito, ma anche di riportare dettagliatamente in ricorso gli esatti termini in cui la questione sia stata posta da lui in primo e secondo grado e di indicare in quali atti del giudizio precedente lo abbia fatto (Cass., SU, n. 19874 del 26/07/2018; Cass., Sez. 3, n. 9765 del 10/05/2005; Cass., Sez. 1, n. 23675 del 18/10/2013). 

Non avendo la ricorrente indicato se e in quali termini abbia dedotto la questione nel giudizio di merito, il motivo si rivela inammissibile anche per novità.

Il ricorso è carente, infatti, nella sua ricostruzione in fatto, non riportando neanche le conclusioni rassegnate nell’ambito del giudizio di primo grado, sicché non v’è modo di verificare se l’originaria domanda fosse volta, oltre che al pagamento di emolumenti aggiuntivi a sensi dell’art. 76 comma 1 del c.c.n.l. del 16.10.2008, anche alla integrazione della retribuzione di posizione e/o di risultato ex art. 75 comma 7-8 c.c.n.l. del 2008.

Infondato è l’ulteriore richiamo (sub ii) al d.P.R. n. 382/1980; trattasi (invero) di norma regolamentare che, nel disporre «Le Università […] possono eseguire attività di ricerca e consulenza stabilite mediante contratti e convenzioni con enti pubblici e privati» e nell’aggiungere, poi, che «il personale docente e non docente che collabora a tali prestazioni può essere ricompensato fino a una somma annua totale non superiore al 30 per cento della retribuzione complessiva», va necessariamente armonizzata con il successivo d.lgs. n. 165/2001 (t.u.p.i.), il quale rimette all’art. 45 la determinazione del trattamento economico alla contrattazione collettiva.

Quest’ultima esclude, come si è visto, dall’onnicomprensività della retribuzione, considerata nelle sue componenti del trattamento fondamentale e accessorio (cfr. artt. 38 c.c.n.l. 2005 e 76 c.c.n.l. 2008 secondo cui “La retribuzione di posizione e di risultato assorbono tutte le competenze accessorie e le indennità, compreso il compenso per il lavoro straordinario…”), solo i compensi che “specifiche disposizioni di legge” finalizzano all’incentivazione di prestazioni o risultati del personale, sicché non sarebbe giustificato estendere la portata della norma sino a ricomprendervi le prestazioni frutto di convenzioni stipulate con terzi a sensi del citato regolamento (d.P.R. n. 382/1980 cit.).

Non vale, infine, ripercorrere alcuni dei passaggi salienti della pronuncia di primo grado (rilievo sub iv), assumendone una maggiore persuasività e «aderenza ai contenuti informativi che risultano dal materiale probatorio» rispetto alla statuizione dei giudici di secondo grado (cfr. secondo motivo a pag. 20 del ricorso per cassazione: «Gli elementi in base ai quali il giudice di primo grado giunge ad accertare che l’attività svolta dall’O. esulasse dai compiti e doveri di ufficio sono davvero tanti e sono i seguenti che si riportano fedelmente»).

Come noto, la sentenza di appello, sia essa confermativa o di riforma, si sostituisce integralmente a quella di primo grado (cfr. fra le più recenti: Cass. 30326/2021; Cass. n. 352/2017 e Cass. n. 1323/2018), talché nel giudizio di cassazione, nel quale rileva solo la correttezza o meno della soluzione adottata dal giudice d’appello, il ricorrente non ha alcun interesse ad operare il raffronto tra quest’ultima e la decisione del Tribunale, perché ciò che conta è accertare se siano conformi a diritto le conclusioni alle quali il giudice dell’impugnazione è pervenuto rispetto alla questione controversa (Cass. 27.10.2021, n. 30326; Cass. 10.10.2022, n. 30817).

Donde, anche per tale guisa, la complessiva infondatezza delle prime due censure articolate dall’O.

4. Col terzo (ed ultimo) motivo si lamenta «violazione e falsa applicazione, ex art. 360, comma 1, n. 3), cod. proc. civ., dell’art. 91 cod. proc. civ., in relazione alla disposta condanna alle spese di entrambi i gradi di merito»; la ricorrente si duole di essere stata condannata alle spese di un giudizio che l’aveva vista in primo grado vittoriosa e che aveva ad oggetto l’opposizione ad un’azione monitoria promossa allorché l’Università, dopo anni di riconoscimento dei compensi de quibus, aveva sospeso inopinatamente i pagamenti per i quali aveva (nondimeno) ipotizzato una disponibilità transattiva.

La censura, pur se dal tenore non del tutto perspicuo, lascia comunque intendere che la ricorrente si duole dell’erronea applicazione della regola della soccombenza, non essendosi la Corte territoriale avveduta che l’O. era stata vittoriosa nel primo grado, nonché del mancato esercizio del potere discrezionale di compensazione delle spese di lite.

4.1 Così intesa, essa è destituita d’ogni fondamento.

4.2 Sotto il primo profilo (i.e. applicazione della regola della soccombenza), è agevole replicare che nel liquidare le spese di lite il giudice non può frazionare la decisione con riferimento all’esito dei singoli gradi, dovendo viceversa attenersi all’esito complessivo e globale della vertenza (Cass., 18837/2010; 17523/2011; 6259/2014; 11423/2016; 9064/2018; 1135/2024).

4.2 Nel resto, va ribadito il principio, più volte affermato da questa Corte, che, in tema di responsabilità delle parti per le spese di giudizio (Capo IV del Titolo III del Libro Primo del codice di rito), la denuncia di violazione della norma di cui all’art. 91, comma 1, cod. proc. civ., trova ingresso in questa sede di legittimità solo quando le spese siano poste a carico della parte integralmente vittoriosa (ex multis: Cass. n. 18128 del 2020 e Cass. n. 26912 del 2020) e che la compensazione delle spese processuali, di cui all’art. 92 cod. proc. civ., costituisce esercizio di un potere discrezionale del giudice di merito (v., per tutte, Cass. SS. UU. n. 20598 del 2008), il quale non è tenuto a dare ragione, con espressa motivazione, del mancato uso di tale sua facoltà (Cass. n. 36668 del 2022; Cass. n. 34427 del 2021; cfr. altresì Cass., Sez. U., 15 luglio 2005, n. 14989).

5. Tanto basta per la reiezione anche del terzo motivo.

6. Nel suo complesso, il ricorso va rigettato.

Nulla sulle spese di legittimità, essendo l’Università rimasta intimata.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso; nulla per le spese di legittimità.

Ai sensi del d.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto, per il ricorso, a norma del cit. art. 13, comma 1-bis, se dovuto.