CORTE DI CASSAZIONE, sezione penale, ordinanza n. 14789 depositata il 8 marzo 2019
Imposte indirette – IVA – Dichiarazione annuale – Acconto – Mancato pagamento – Scadenza del termine
Ritenuto in fatto e considerato in diritto
1. Il sig. A. P. ricorre per l’annullamento della sentenza in epigrafe indicata che, in parziale riforma della sentenza dell’11/03/2015 del Tribunale di Bergamo, da lui appellata, ha ridotto la pena irrogata in primo grado confermando, per quanto qui rileva, la sua condanna per il reato di cui all’art. 10-ter, d.lgs. n. 74 del 2000, commesso in Treviolo il 27/12/2009.
1.1. Con il primo motivo allega, in fatto, la crisi di impresa affrontata nel biennio 2008-2009 e culminata psl.-deposito della domanda di ammissione al concordato preventivo nel mese di aprile dell’anno successivo, il rifinanziamento della società per un importo di € 630.000,00 per gran parte con il contributo di una partecipante posseduta da lui e dalla sorella dando in garanzia immobili di proprietà, la diminuzione del fatturato di circa il 20% rispetto agli anni precedenti, deduce, in diritto, la mancanza del dolo del reato e la conseguente inosservanza ed erronea applicazione degli artt. 10-ter, d.lgs. n. 74 del 2000 e 43 cod. pen., nonché vizio di motivazione mancante, contraddittoria e manifestamente illogica relativamente al rilievo difensivo della violazione della “par condicio creditorum” e in ordine alla sussistenza del dolo.
1.2. Con il secondo motivo, richiamando gli argomenti sviluppati con il primo ed allegando l’improvvisa crisi di liquidità provocata da fattori esterni alla propria sfera di controllo (tra i quali l’improvviso fallimento di una delle maggiori clienti), deduce l’inosservanza e l’erronea applicazione degli artt. 10-ter, d.lgs. n, 74 del 2000 e 45 cod. pen.
2. il ricorso è inammissibile perché manifestamente infondato.
3.Secondo l’insegnamento di Sez. U., n. 37424 del 28/03/2103, Romano, Rv. 255757:
3.1. il reato di omesso versamento dell’imposta sul valore aggiunto (art. 10- ter d.lgs n. 74 del 2000) si consuma con il mancato pagamento dell’imposta dovuta in base alla dichiarazione annuale entro la scadenza del termine per il pagamento dell’acconto relativo al periodo di imposta dell’anno successivo;
3.2. il reato è punibile a titolo di dolo generico e consiste nella coscienza e volontà di non versare all’Erario le ritenute effettuate nel periodo considerato, non essendo richiesto che il comportamento illecito sia dettato dallo scopo specifico di evadere le imposte;
3.3. la prova del dolo è insita in genere nella presentazione della dichiarazione annuale, dalla quale emerge quanto è dovuto a titolo di imposta, e che deve, quindi, essere saldato o almeno contenuto non oltre la soglia, entro il termine lungo previsto;
3.4. il debito verso il fisco relativo ai versamenti IVA è normalmente collegato al compimento delle operazioni imponibili. Ogni qualvolta il soggetto d’imposta effettua tali operazioni riscuote già (dall’acquirente del bene o del servizio) l’IVA dovuta e deve, quindi, tenerla accantonata per l’Erario, organizzando le risorse disponibili in modo da poter adempiere all’obbligazione tributaria. L’introduzione della norma penale, stabilendo nuove condizioni e un nuovo termine per la propria applicazione, estende evidentemente la detta esigenza di organizzazione su scala annuale. Non può, quindi, essere invocata, per escludere la colpevolezza, la crisi di liquidità del soggetto attivo al momento della scadenza del termine lungo, ove non si dimostri che la stessa non dipenda dalla scelta di non far debitamente fronte alla esigenza predetta.
3.5. Ne consegue che per la sussistenza del reato in questione non è richiesto il fine di evasione tantomeno l’intima adesione del soggetto alla volontà di violare il precetto. Il dolo del reato in questione è integrato dalla condotta omissiva posta in essere nella consapevolezza della sua illiceità, non richiedendo la norma, quale ulteriore requisito, un atteggiamento antidoveroso di volontario contrasto con il precetto violato.
3.6. Il reato di cui all’art. 10-ter, d.lgs. n. 74 del 2000 è un isussistente, di natura omissiva e istantanea. Ne consegue che, ai fini della sua perfezione, sono necessarie e sufficienti la coscienza e la volontà dell’azione che devono sussistere nel momento esatto in cui matura il tempo (lungo) dell’obbligazione tributaria, non un attimo prima, non un attimo dopo (Sez. 3, n. 8352 del 24/06/2014, Schirosi, Rv. 263126).
3.7. Nel caso di specie, la consapevolezza di ledere o comunque pregiudicare gli interessi dell’Erario non è nemmeno posta in discussione. In ogni caso, si tratta di aspetto ben diverso, come detto, dalla specifica intenzione di evadere l’imposta, requisito esplicitamente richiesto ai fini della integrazione dei reati di cui agli artt. 2, 3, 4, 8, 10 e 11, d.lgs. n. 74 del 2000. Sicché, pretendere che la volontà dell’azione cosciente consista nell’intenzione di violare il precetto equivale ad attribuire al dolo generico una funzione selettiva della condotta (appunto, specifica) non necessaria e non richiesta ai fini dell’integrazione del reato, per la cui consumazione, come detto, è necessario e sufficiente che il debitore di imposta ometta volontariamente il versamento dell’imposta dovuta nella consapevolezza della sussistenza dell’obbligo e della inutile scadenza del termine previsto per il pagamento; la coscienza e la volontà dell’omissione devono sussistere, come detto, al momento della scadenza del termine per l’adempimento.
3.8. Tali argomentazioni si saldano a quelli che riguardano la “ratio” della tutela penale dell’interesse tributario.
3.9. L’incriminazione, ad opera dell’art. 35, comma 7, d.l. 4 luglio 2006, convertito, con modificazioni, dalla legge 4 agosto 2006, n. 248, della condotta di omesso versamento dell’imposta sul valore aggiunto dichiarata dal contribuente costituì una novità assoluta, inserita dal legislatore per impedire l’ingente evasione della relativa imposta, non adeguatamente né tempestivamente contrastata dai normali rimedi esecutivi né dalla criminalizzazione delle condotte prodromiche all’evasione (sulla legittimità del cumulo dei procedimenti e delle sanzioni, amministrative e penali, quando i primi non sono in grado, da soli, di tutelare gli interessi finanziari dell’Unione Europea, la giurisprudenza della CGUE è unanime; cfr., da ultimo, ancorché in tema di frodi gravi, CGUE, Sezione Grande, n. C-42/17, secondo cui è compito degli Stati membri garantire una riscossione effettiva delle risorse proprie dell’Unione – v., in tal senso, sentenza del 7 aprile 2016, Degano Trasporti, C-546/14, EU:C: 2016:206, punto 21. A questo proposito, gli Stati membri sono tenuti a procedere al recupero delle somme corrispondenti alle risorse proprie che sono state sottratte al bilancio dell’Unione in conseguenza di frodi. Al fine di assicurare la riscossione integrale delle entrate provenienti dall’IVA e tutelare in tal modo gli interessi finanziari dell’Unione, gli Stati membri dispongono di una libertà di scelta delle sanzioni applicabili, che possono assumere la forma di sanzioni amministrative, di sanzioni penali o di una combinazione delle due – v., in tal senso, sentenze del 26 febbraio 2013, Àkerberg Fransson, C-617/10, EU:C: 2013:105, punto 34, nonché Taricco, punto 39. A tale riguardo, occorre tuttavia rilevare, in primo luogo, che possono essere indispensabili sanzioni penali per combattere in modo effettivo e dissuasivo determinate ipotesi di gravi frodi in materia di IVA – v., in tal senso, sentenza Taricco, punto 39. Gli Stati membri, pena la violazione degli obblighi loro imposti dall’articolo 325, paragrafo 1, TFUE, devono quindi assicurarsi che, nei casi di frode grave che ledono gli interessi finanziari dell’Unione in materia di IVA, siano adottate sanzioni penali dotate di carattere effettivo e dissuasivo – v., in tal senso, sentenza Taricco, punti 42 e 43. Deve pertanto ritenersi che gli Stati membri violino gli obblighi loro imposti dall’articolo 325, paragrafo 1, TFUE qualora le sanzioni penali adottate per reprimere le frodi gravi in materia di IVA non consentano di garantire efficacemente la riscossione integrale di detta imposta).
3.10. La focalizzazione della condotta sul momento omissivo e la natura generica del dolo, richiesta dalla fattispecie penale di nuova fattura, costituivano (e costituiscono) affidabili indici rivelatori della volontà di punire l’inadempimento dell’obbligo tributario nella mera consapevolezza della sussistenza di tale obbligo, a prescindere dagli scopi perseguiti dal contribuente. Il progressivo aumento della cd. soglia di punibilità ha ridotto, nel tempo, l’ambito applicativo del precetto penalmente sanzionato, ma non la sua natura e la sua struttura. Si può anzi affermare che il legislatore più recente, conscio della generale crisi economica che attanaglia da un decennio il nostro Paese e dei suoi possibili riflessi sulle ragioni dell’omissione penalmente sanzionata, ha, da un lato, elevato a duecentocinquantamila euro per anno di imposta l’importo al di sotto del quale l’omesso versamento dell’IVA è penalmente irrilevante (art. 8, d.lgs. n. 158 del 2015), dall’altro, ai fini della non punibilità del reato, ha consentito il pagamento del debito (ancorché gravato da interessi e sanzioni) fino alla apertura del dibattimento, con possibilità di prorogare il termine di ulteriori sei mesi (art. 13, commi 1 e 3, d.lgs. n. 74 del 2000, come modificato dall’art. 11, d.lgs. n. 158 del 2015), di fatto dando maggior “respiro” ai contribuenti inadempienti ai sensi dell’art. 10-ter, d.lgs. n. 74 del 2000. E’ agevole evidenziare che, pure in tale contesto, la struttura della fattispecie penale è rimasta immutata, non avendo il legislatore inteso dare rilevanza agli eventuali scopi dell’inadempimento, pur a fronte di un panorama giurisprudenziale che ormai andava cristallizzandosi sull’irrilevanza del movente.
3.11. Gli argomenti utilizzati dal ricorrente a sostegno della pretesa applicabilità, al caso concreto, della <<forza maggiore>>, appaiono, alla luce della considerazioni che precedono, manifestamente infondati e frutto di un’operazione dogmaticamente errata perché tendono ad attrarre nell’orbita del dolo generico requisiti che, per definizione, non gli appartengono e che si collocano piuttosto nell’ambito dei motivi a delinquere o che ne misurano l’intensità (art. 133 cod. pen.).
3.12. La scelta di non pagare prova il dolo; i motivi della scelta non lo escludono.
3.13. La forza maggiore, come noto, esclude la “suitas” della condotta. Secondo l’impostazione tradizionale, è la <<vis cui resisti non potest>>, a causa della quale l’uomo <<non agit sed agitur>> (Sez. 1, n. 900 del 26/10/1965, Sacca, Rv. 100042; Sez. 2, n. 3205 del 20/1271972, Pilla, Rv. 123904; Sez. 4, n. 8826 del 21/0471980, Ruggieri, Rv. 145855). Per questa ragione, secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, la forza maggiore rileva come causa esclusiva dell’evento, mai quale causa concorrente di esso (Sez. 4, n. 1492 del 23/11/1982, Chessa, Rv. 157495; Sez. 4, n. 1966 del 06/12/1966, Incerti, Rv. 104018; Sez. 4 n. 2138 del 05/12/1980, Biagini, Rv. 148018); essa sussiste solo e in tutti quei casi in cui la realizzazione dell’evento stesso o la consumazione della condotta antigiuridica è dovuta all’assoluta ed incolpevole impossibilità dell’agente di uniformarsi al comando, mai quando egli si trovi già in condizioni di illegittimità (Sez 4, n. 8089 del 13/0571982, Galasso, Rv. 155131; Sez. 5, n. 5313 del 26/03/1979, Geiser, Rv. 142213; Sez. 4, n. 1621 del 19/01/1981, Sodano, Rv. 147858; Sez. 4 n. 284 del 18/02/1964, Acchiardi, Rv. 099191). Poiché la forza maggiore postula la individuazione di un fatto imponderabile, imprevisto ed imprevedibile, che esula del tutto dalla condotta dell’agente, sì da rendere ineluttabile il verificarsi dell’evento, non potendo ricollegarsi in alcun modo ad un’azione od omissione cosciente e volontaria dell’agente, questa Suprema Corte ha sempre escluso, quando la specifica questione è stata posta, che le difficoltà economiche in cui versa il soggetto agente possano integrare la forza maggiore penalmente rilevante. (Sez. 3, n. 4529 del 04/12/2007, Cairone, Rv. 238986; Sez. 1, n. 18402 del 05/04/2013, Giro, Rv. 255880; Sez 3, n. 24410 del 05/04/2011, Bolognini, Rv. 250805; Sez. 3, n. 9041 del 18/09/1997, Chiappa, Rv. 209232; Sez. 3, n. 643 del 22/10/1984, Bottura, Rv. 167495; Sez. 3, n. 7779 del 07/05/1984, Anderi, Rv. 165822).
3.14. Costituisce corollario di queste affermazioni il fatto che nei reati omissivi propri integra la causa di forza maggiore l’assoluta impossibilità, non la semplice difficoltà di porre in essere il comportamento omesso (Sez. 6, n. 10116 del 23/03/1990, Iannone, Rv. 184856), assoluta impossibilità che deve essere collegata a eventi che sfuggono al dominio finalistico dell’agente.
3.15. Ne consegue che: a) il margine di scelta esclude sempre la forza maggiore perché non esclude la “suitas” della condotta; b) la mancanza di provvista necessaria all’adempimento dell’obbligazione tributaria penalmente rilevante non può pertanto essere addotta a sostegno della forza maggiore quando sia comunque il frutto di una scelta/politica imprenditoriale volta a fronteggiare una crisi di liquidità; c) l’inadempimento tributario penalmente rilevante può essere attribuito a forza maggiore solo quando derivi da fatti non imputabili all’imprenditore che non ha potuto tempestivamente porvi rimedio per cause indipendenti dalla sua volontà e che sfuggono al suo dominio finalistico.
3.16. Lo stesso ricorrente ammette che la crisi di impresa perdurava da due anni prima della condotta incriminata e che, anzi, la crisi aziendale si era aggravata nell’autunno dell’anno 2008, sicché si deve escludere in radice che la mancanza di liquidità necessaria al pagamento dell’imposta nel termine lungo del 27/12/2009 costituisse un evento improvviso ed imprevedibile, del tutto estraneo al fisiologico rischio d’impresa cui non si può far fronte sacrificando scientemente le ragioni dell’Erario, e ciò a prescindere dalle cause del dissesto.
3.17. Né, in assenza di un’istanza di fallimento, rileva il dedotto timore di violare il principio della “par conditio creditorum”, posto che, quantomeno a livello soggettivo, giammai l’adempimento di un obbligo penalmente sanzionato potrebbe integrare il dolo specifico dell’intenzione di favorire un creditore a danno di altri, tipico del reato di bancarotta preferenziale (cfr., sul punto, Sez. 3, n. 5921 del 29/10/2014, dep. 2015, Rv. 262411).
3.18. In nessun modo l’imputato ha dedotto di aver posto In essere azioni sfavorevoli al proprio patrimonio non essendo sufficiente l’impegno del patrimonio di enti soggettivamente diversi, ancorché partecipati.
4. Alla declaratoria di inammissibilità del ricorso (che osta alla rilevazione d’ufficio della prescrizione maturata dopo la sentenza impugnata) consegue, ex art. 616 cod. proc. pen., non potendosi escludere che essa sia ascrivibile a colpa del ricorrente (C. Cost. sent. 7-13 giugno 2000, n. 186), l’onere delle spese del procedimento nonché del versamento di una somma in favore della Cassa delle ammende, che si fissa equitativamente, in ragione dei motivi dedotti, nella misura di € 3.000,00.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di € 3.000,00 in favore della Cassa delle Ammende.
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