CORTE DI CASSAZIONE, sezione penale, Ordinanza n. 9642 depositata il 11 marzo 2021
Rapporto di lavoro – Omesso versamento all’Inps delle ritenute previdenziali e assistenziali – Prova della corresponsione delle retribuzioni ai dipendenti
Ritenuto in fatto
Con la sentenza indicata in epigrafe la Corte d’appello di Brescia ha confermato, così respingendo l’impugnazione proposta dall’imputato, la sentenza del 20/5/2015 del Tribunale di Brescia, con la quale, a seguito di giudizio abbreviato, E.M. era stato condannato alla pena di sei mesi di reclusione e 400 euro di multa, in relazione al reato di cui all’art. 2, comma 1 bis, I. n. 638 del 1983 (ascrittogli per avere, quale titolare dell’impresa individuale omonima, omesso di versare all’Inps le ritenute previdenziali e assistenziali relativi ai periodi da giugno a dicembre 2009 e da gennaio a novembre 2010, per un importo complessivo di euro 31.443,00).
Avverso tale sentenza l’imputato ha proposto ricorso per cassazione, lamentando, con un primo motivo, la violazione del divieto di cui all’art. 649 cod. proc. pen., in relazione alla affermazione della propria responsabilità per l’omesso versamento delle ritenute previdenziali relative ai mesi di agosto, settembre, ottobre e novembre 2010, in riferimento alle quali era già stato dichiarato responsabile e condannato con decreto penale del 29/12/2012 del Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Brescia, divenuto esecutivo il 16/12/2014.
Con un secondo motivo ha lamentato la celebrazione dell’udienza camerale del 26/4/2017 in assenza del difensore di fiducia dell’imputato, nonostante la notificazione del decreto di citazione per tale udienza fosse stata eseguita solamente il 6 aprile 2017, ossia senza il termine del termine di 20 giorni liberi anteriori a tale udienza previsto dall’art. 601, comma 3, cod. proc. pen.
Infine, con un terzo motivo, ha lamentato l’insufficienza della motivazione nella parte relativa alla affermazione della propria responsabilità, desunta dalla sola esistenza dei modelli denominati DM 10, di per sé soli insufficienti a consentire di ritenere provata la corresponsione delle retribuzioni ai dipendenti e, con essa, la realizzazione della omissione contestata.
Considerato in diritto
Il ricorso è inammissibile.
Il primo motivo di ricorso è inammissibile, sia perché ne è precluso l’esame, non essendo stata eccepita con l’atto d’appello la violazione del divieto di un secondo giudizio per i medesimi fatti e non potendo, di conseguenza, essere ora lamentato, in sede di legittimità, un difetto di motivazione della sentenza di secondo grado su tale punto, ostandovi la previsione dell’art. 606, comma 3, cod. proc. pen.; sia a causa della sua genericità, avendo il ricorrente omesso di allegare al ricorso copia del decreto penale di condanna emesso nei suoi confronti, che riguarderebbe parte delle condotte giudicate con la sentenza impugnata, così precludendo la eventuale verifica della fondatezza della eccezione di giudicato, non utilmente esaminabile solamente in base al certificato del casellario giudiziale allegato al ricorso, dal quale non è possibile ricavare le mensilità in relazione alle quali venne affermata la responsabilità del ricorrente mediante detto decreto penale di condanna e, con essa, la eventuale sovrapposizione con parte delle condotte oggetto della sentenza impugnata. Tale indagine potrà, comunque, essere svolta in sede esecutiva, che è la sede funzionalmente deputata all’esame delle eccezioni di giudicato.
Il secondo motivo, relativo al mancato rispetto del termine di 20 giorni di cui all’art. 601, comma 5, cod. proc. pen., per essere la notificazione al difensore del decreto di citazione per il giudizio d’appello stata eseguita solamente 19 giorni prima (il 6/4/2017) della prima udienza fissata per il giudizio di appello (il 26/4/2017), è manifestamente infondato, in quanto l’inosservanza del termine di venti giorni, stabilito dall’art. 601, comma 5, cod. proc. pen., per la notifica dell’avviso al difensore della data fissata per il giudizio di appello, integra una nullità relativa, deducibile nel termine di cui all’art. 491 cod. proc. pen., con la conseguenza che la relativa eccezione non può essere proposta per la prima volta in sede di legittimità (Sez. 3, n. 13109 del 01/02/2017, A., Rv. 269337; Sez. 6, n. 24253 del 10/03/2009, Biagioni, Rv. 244174).
Infine, il terzo motivo, relativo alla insufficienza della motivazione nella parte relativa alla affermazione di responsabilità, in quanto fondata esclusivamente sulle risultanze dei modelli (cosiddetti DM10) inviati dallo stesso imputato all’Inps, è, oltre che riproduttivo dell’analogo motivo d’appello adeguatamente considerato e motivatamente disatteso dalla Corte d’appello, manifestamente infondato.
Benché le Sezioni Unite di questa Corte (Sez. U. n. 27641 del 28.5.2003, Silvestri, Rv. 224309; conf. Sez. 3, n. 35948 del 30.5.2003, Paletti, Rv. 225552; Sez. 3, n. 42378 del 19.9.2003, Soraci, Rv. 226551) abbiano affermato che il reato di cui alla l. 11 novembre 1983, n. 638, art. 2 non è configurabile in assenza del materiale esborso delle relative somme dovute al dipendente a titolo di retribuzione, è stato, tuttavia, anche precisato che la prova dell’effettiva corresponsione delle retribuzioni può essere tratta dai modelli attestanti le retribuzioni corrisposte ai dipendenti e gli obblighi contributivi verso l’istituto previdenziale (cosiddetti modelli DM10), sempre che non risultino elementi contrari (cfr., ex plurimis, questa Sez. 3, n. 46451 del 7.10.2009, Carella, Rv. 245610; Sez. 3, n. 14839 del 4.3.2010, Nardiello, Rv. 246966 secondo cui l‘effettiva corresponsione delle retribuzioni ai lavoratori dipendenti, a fronte di un’imputazione di omesso versamento delle relative ritenute previdenziali ed assistenziali, può essere provata sia mediante il ricorso a prove documentali, come i cosiddetti modelli DM10 trasmessi dal datore di lavoro all’INPS, e testimoniali, sia mediante il ricorso alla prova indiziaria; v. anche Sez. 3, n. 37330 del 15/07/2014, Valenza, Rv. 259909; Sez. 3, n. 21619 del 14/04/2015, Moro, Rv. 263665; Sez. 3, n. 43602 del 09/09/2015, Ballone, Rv. 265272; Sez. 3, n. 42715 del 28/06/2016, Franzoni, Rv. 267781, secondo cui i modelli DM10, formati secondo il sistema informatico UNIEMENS, possono essere valutati come piena prova della effettiva corresponsione delle retribuzioni, trattandosi di dichiarazioni che, seppure generate dal sistema informatico dell’INPS, sono formate esclusivamente sulla base dei dati risultanti dalle denunce individuali e dalla denuncia aziendale fornite dallo stesso contribuente).
Univoco è sempre stato l’orientamento di questa Sezione sul punto.
Ciò in quanto si è sempre ritenuto che gli appositi modelli attestanti le retribuzioni corrisposte ai dipendenti e gli obblighi contributivi verso l’istituto previdenziale (cosiddetti modelli DM10), hanno natura ricognitiva della situazione debitoria del datore di lavoro e la loro presentazione equivalga all’attestazione di aver corrisposto le retribuzioni in relazione alle quali è stato omesso il versamento dei contributi (Sez. 3, 37145 del 10.4.2013, Deiana, Rv. 256957; Sez. 3, n. 7772 del 05/12/2013, Di Gianvito, Rv. 258851; Sez. 3, n. 19454 del 27/03/2014, Onofrio, Rv. 260376; Sez. 3, n. 37330 del 15/07/2014, Valenza, Rv. 259909; Sez. 3, n. 6934 del 23/11/2017, dep. 13/02/2018, Locatelli, Rv. 272120).
Nel caso in esame la Corte territoriale ha ribadito la responsabilità dell’imputato in ordine al reato contestatogli sulla base della presentazione da parte dell’imputato, quale datore di lavoro, dei modelli DM10 (con l’indicazione delle retribuzioni corrisposte ai dipendenti e delle ritenute contributive sulle stesse operate), deducendone, in modo logico, sia l’effettiva corresponsione delle retribuzioni ai lavoratori, sia l’inadempimento alla obbligazione di versamento delle ritenute previdenziali operate su tali retribuzioni.
Ne consegue l’evidente infondatezza dei rilievi sollevati con il terzo motivo di ricorso in ordine alla corretta valutazione degli elementi a carico e alla logicità e coerenza della motivazione su tale punto, essendo stata ricavata la prova della condotta contestata dalle dichiarazioni presentate dallo stesso imputato, che non ha allegato elementi di segno contrario, limitandosi a ribadire l’insufficienza di quanto emergente da dette dichiarazioni, omettendo di considerare quanto esposto nella sentenza impugnata, in conformità al consolidato orientamento interpretativo di questa Corte appena ricordato.
Il ricorso deve, pertanto, essere dichiarato inammissibile, stante la genericità e la manifesta infondatezza di tutte le censure cui è stato affidato.
L’inammissibilità originaria del ricorso esclude il rilievo della eventuale prescrizione verificatasi successivamente alla sentenza di secondo grado, giacché detta inammissibilità impedisce la costituzione di un valido rapporto processuale di impugnazione innanzi al giudice di legittimità, e preclude l’apprezzamento di una eventuale causa di estinzione del reato intervenuta successivamente alla decisione impugnata (Sez. un., 22 novembre 2000, n. 32, De Luca, Rv. 217266; conformi, Sez. un., 2/3/2005, n. 23428, Bracale, Rv. 231164, e Sez. un., 28/2/2008, n. 19601, Niccoli, Rv 239400 in ultimo Sez 2 n 28848 del 8.5.2013, Rv. 256463; Sez. 2, n. 53663 del 20/11/2014, Rasizzi Scalora, Rv. 261616; nonché Sez. U, n. 6903 del 27/05/2016, dep. 14/02/2017, Aiello, Rv. 268966).
Alla declaratoria dell’inammissibilità consegue, a norma dell’art. 616 cod. proc. pen., l’onere delle spese del procedimento nonché quello del versamento della somma, in favore della Cassa delle ammende, equitativamente fissata in tremila euro.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle ammende.
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