CORTE DI CASSAZIONE, sezione penale, sentenza n. 10763 depositata il 19 marzo 2021
Reati tributari – Sottrazione fraudolenta al pagamento di imposte – Vendita simulata di immobile alla convivente
Ritenuto in fatto
1. Con sentenza emessa in data 16 gennaio 2020, la Corte di appello di Trieste ha confermato la sentenza pronunciata dal Tribunale di Udine all’esito di giudizio abbreviato, che aveva dichiarato la penale responsabilità di J.P.P. per il reato di cui all’art. 11 d.lgs. n. 74 del 2000, gli aveva irrogato la pena di quattro mesi di reclusione, previa concessione delle circostanze attenuanti generiche, ed aveva disposto la confisca della somma di euro 187.500,00, in denaro liquido, ovvero, in mancanza, anche parziale, di beni di valore equivalente.
Secondo i giudici di merito, l’imputato, al fine di sottrarsi al pagamento di imposte sui redditi, interessi e sanzioni amministrative per un ammontare superiore a 50.000,00 euro, dopo la redazione di un “verbale in contraddittorio” relativo agli anni di imposta dal 2007 in poi, avrebbe alienato simulatamente o comunque in modo fraudolento, in data 3 maggio 2013, un immobile alla sua convivente, per un prezzo di 92.500 euro, notevolmente inferiore sia a quello corrisposto per l’acquisto effettuato il 5 settembre 2007, pari a 315.000 euro, sia a quello di successiva rivendita del 15 dicembre 2014, pari a 280.000 euro.
2. Ha presentato ricorso per cassazione avverso la sentenza della Corte di appello indicata in epigrafe J.P.P., con atto a firma dell’avvocato G.D., articolato in tre motivi.
2.1. Con il primo motivo, si denuncia violazione di legge, in riferimento agli artt. 143 e 178, comma 1, lett. c), cod. proc. pen., nonché vizio di motivazione, a norma dell’art. 606, comma 1, lett. c), cod. proc. pen., avendo riguardo alla mancata traduzione degli atti processuali.
Si deduce che illegittimamente è stato negato il diritto alla traduzione degli atti sul presupposto della conoscenza della lingua italiana da parte dell’imputato.
Si rappresenta che il ricorrente è cittadino francese, da sempre vissuto in Francia, salvo il periodo dal 2007 al 2013, allorché ha abitato in Italia in ragione di un rapporto di convivenza, e che la presunzione di conoscenza della lingua italiana è giustificata in ragione delle risposte fornite dal medesimo in lingua italiana alla Guardia di Finanza nell’ambito di accertamenti estranei al presente procedimento.
Si osserva che la piena e consapevole partecipazione ad un processo implica un significativo livello di conoscenza della lingua del processo, non una elementare comprensione della lingua parlata. Si conclude che, di conseguenza, sono nulli tutti gli atti del procedimento, a partire dal verbale di elezione di domicilio e dell’avviso di conclusione delle indagini preliminari.
2.2. Con il secondo motivo, si denuncia vizio di motivazione, a norma dell’art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen., avendo riguardo alla ritenuta sussistenza del fatto.
Si deduce che la sentenza impugnata ha ritenuto la fittizietà della vendita avendo riguardo esclusivamente ai prezzi risultanti dagli atti notarili del 2007, del 2013 e del 2014, senza considerare diverse ulteriori circostanze, quali: a) la cancellazione dell’imputato dai registri anagrafici italiani per trasferimento all’estero il 6 maggio 2013; b) l’insussistenza del credito dell’Agenzia delle Entrate alla data del rogito notarile del 3 maggio 2013, avente ad oggetto l’asserita simulata alienazione; c) la cessazione dei rapporti, dopo quella data, tra il ricorrente e la convivente; d) l’indicazione, sin dalla dichiarazione dei redditi del 2008, e poi anche alla Guardia di Finanza, di proprietà immobiliari in Francia per un valore di almeno 4.000.000 di euro, non gravate da vincoli; e) il riconoscimento della ex-convivente della vendita a basso prezzo quale negozio per evitare la donazione, esclusa per i rischi di stabilità concernenti le successive alienazioni.
Si osserva, poi, che non sono indicati elementi da cui desumere che l’immobile era rimasto nella disponibilità dell’imputato, che questi, nell’agosto 2013, ha cercato di regolarizzare la propria posizione fiscale in Italia, e che ciò gli è stato consentito solo per gli anni 2011 e 2012, ma non anche per gli anni dal 2007 al 2010. Si aggiunge, ancora, che non vi sono ostacoli ad una riscossione delle imposte in ambito europeo, che, nella specie, il Fisco italiano ha chiesto collaborazione a quello francese, e che il 26 gennaio 2016 il ricorrente ha ricevuto notifica della messa in mora e del precetto di pagamento.
2.3. Con il terzo motivo, si denuncia violazione di legge, in riferimento all’art. 12-bis d.lgs. n. 74 del 2000, a norma dell’art. 606, comma 1, lett. b), cod. proc. pen., avendo riguardo alla disposta confisca.
Si deduce che illegittimamente la sentenza impugnata ha confermato la confisca dei beni dell’imputato sino a concorrenza della somma di 187.500,00 euro, ritenendo che non vi fosse appello in proposito. Si segnala che il ricorrente aveva proposto appello integrale avverso la sentenza impugnata, e, in udienza, aveva provveduto a depositare la documentazione relativa all’accesso e all’adesione alla c.d. definizione agevolata ex art. 6 d.l. n. 193 del 2016, convertito dalla legge n. 225 del 2016, dimostrando la completa estinzione del debito tributario. Si evidenzia, quindi, che tale vicenda estintiva determina la non operatività della confisca ex art. 12-bis d.lgs. n. 74 del 2000.
Considerato in diritto
1. Il ricorso è inammissibile per le ragioni di seguito precisate.
2. Prive di specificità sono le censure esposte nel primo motivo, che contestano la violazione del diritto alla traduzione degli atti, spettante in ragione dell’inadeguata conoscenza della lingua italiana da parte dell’imputato. Secondo l’orientamento della giurisprudenza di legittimità, in tema di traduzione degli atti, ex art. 143 cod. proc. pen., come modificato dal d.lgs. n. 32 del 2014, il diritto all’assistenza all’interprete non discende automaticamente dallo status di straniero o apolide, ma richiede l’ulteriore presupposto indefettibile dell’accertata incapacità di comprensione della lingua italiana (cfr. Sez. 2, n. 30379 del 19/06/2018, Khadraoui, Rv. 273246-01, e Sez. 2, n. 8094 del 04/02/2016, T. Rv. 266238-01).
La sentenza impugnata ha escluso che l’odierno ricorrente avesse una inadeguata incapacità di comprensione della lingua italiana in occasione del compimento degli atti processuali in sua presenza o a lui indirizzati, evidenziando che lo stesso: a) già in data 25 ottobre 2007, in un verbale di sommarie informazioni rese alla Guardia di Finanza, ha fornito chiarimenti su spostamenti di somme di denaro dal proprio corrente estero in Italia, in lingua italiana, dichiarando di comprendere la stessa e rinunciando all’interprete; b) ha stipulato in lingua italiana gli atti notarili tanto di acquisto, quanto di vendita dell’immobile che si assume alienato simulatamente o comunque in modo fraudolento; c) ha avuto uno scambio di corrispondenza con l’Agenzia delle Entrate, sottoscrivendo personalmente la raccomandata del 7 giugno 2013, sempre utilizzando la lingua italiana “direttamente”, senza intermediari e senza il ricorso a traduzioni.
A fonte di queste conclusioni, fondate su puntuali, plurimi e congrui elementi indicativi della capacità dell’imputato di comprendere la lingua italiana, anche in relazione ad atti di rilevante significato tecnico giuridico, le doglianze esposte nel ricorso sono prive di specificità. Dette censure, infatti, da un lato, si limitano, in modo del tutto assertivo, ad affermare che la piena e consapevole partecipazione ad un processo implica un significativo livello di conoscenza della lingua del processo, non una elementare comprensione della lingua parlata, e, dall’altro, non si confrontano nemmeno con tutti gli elementi addotti dalla Corte d’appello.
3. Manifestamente infondate sono le censure formulate nel secondo motivo, che contestano la ritenuta configurabilità del reato di cui all’art. 11 d.lgs. n. 74 del 2000, deducendo sia l’insussistenza del credito dell’Erario alla data dell’atto di alienazione dell’immobile, sia, comunque, l’omessa considerazione di plurimi elementi dai quali desumere che tale operazione fosse simulata o fraudolenta.
3.1. Le questioni implicate nel ricorso richiedono di precisare: quali siano i rapporti tra Erario e contribuente che possono costituire presupposto per la configurabilità del reato di cui all’art. 11 d.lgs. n. 74 del 2000; quale sia la nozione dei sintagmi «aliena simulatamente» e «compie altri atti fraudolenti sui propri o su altrui beni idonei a rendere in tutto o in parte inefficace la procedura di riscossione coattiva»; se l’atto simulato o fraudolento possa essere compiuto, oltre che con il dolo specifico di sottrarsi al pagamento delle imposte, anche con altre finalità.
3.1.1. Per quanto riguarda il profilo dei rapporti tra Erario e contribuente costituenti necessario presupposto per la configurabilità del reato di sottrazione fraudolenta al pagamento di imposte, può innanzitutto rilevarsi che, secondo il costante insegnamento della giurisprudenza di legittimità, non rileva l’avvenuta emissione, in tutto o in parte, di cartelle esattoriali, essendo sufficiente soltanto, a fini costitutivi, l’esistenza di un credito erariale relativo, per capitale e/o interessi o sanzioni, ad imposte sui redditi o sul valore aggiunto suscettibile di essere azionato coattivamente (cfr., tra le tante, Sez. 3, n. 37178 del 30/09/2020, P., in corso di massimazione, nonché Sez. 3, n. 13233 del 24/02/2016, Pass, Rv. 266771-01).
Va anzi evidenziato che l’art. 11 d.lgs. n. 74 del 2000 richiede esclusivamente, in termini molto generali, che la condotta fraudolenta sia realizzata «al fine di sottrarsi al pagamento di imposte sui redditi o sul valore aggiunto ovvero di interessi o di sanzioni amministrative relativi a dette imposte di ammontare complessivo superiore ad euro cinquantamila». Di conseguenza, in considerazione della latitudine delle espressioni impiegate dal legislatore, può ritenersi che il dettato normativo appena citato non esige nemmeno che vi siano stati accertamenti formali in ordine al credito dell’Erario verso il contribuente. E, del resto, la plausibilità di questa soluzione trova conferma anche nell’espressa previsione, da parte dell’ordinamento giuridico, di rimedi per il caso di atti compiuti in pregiudizio dei creditori addirittura anteriormente al sorgere del credito, come nell’ipotesi dell’azione revocatoria ex art. 2901 cod. civ.
Deve perciò ritenersi sufficiente, quale presupposto del reato, l’esistenza, al momento della condotta illecita, di un debito verso l’Amministrazione finanziaria, sebbene non ancora precisamente determinato, ed eventualmente nemmeno oggetto di procedure di accertamento, purché per un ammontare complessivo stimabile in una somma superiore a cinquantamila euro.
Ovviamente, però, l’autore della condotta, siccome deve porre in essere la stessa al fine di sottrarsi al pagamento di imposte sui redditi o sul valore aggiunto ovvero di interessi o di sanzioni amministrative relativi a dette imposte di ammontare complessivo superiore ad euro cinquantamila, deve agire (anche) nella consapevolezza dell’esistenza di tale debito. In altri termini, l’agente, nel momento in cui realizza la condotta, deve essere cosciente del suo debito nei confronti dell’Erario, sebbene tale situazione non costituisca ancora oggetto di accertamenti da parte dell’Amministrazione finanziaria, per una somma di ammontare superiore ai cinquantamila euro, o, quanto meno, deve accettare compiutamente il rischio di tale eventualità, vale a dire, secondo il paradigma indicato dalle Sezioni Unite (il riferimento è a Sez. U., n. 38343 del 24/04/2014, Espenhahn, Rv. 261104-01), deve chiaramente rappresentarsi la significativa possibilità di verificazione dell’evento concreto e ciò nonostante, dopo aver considerato il fine perseguito e l’eventuale prezzo da pagare, determinarsi ad agire comunque, anche a costo di causare l’evento lesivo, aderendo ad esso, per il caso in cui si verifichi.
3.1.2. In riferimento alla nozione dei sintagmi «aliena simulatamente» e «compie altri atti fraudolenti sui propri o su altrui beni idonei a rendere in tutto o in parte inefficace la procedura di riscossione coattiva», è doveroso fare riferimento all’ormai ampiamente consolidata elaborazione giurisprudenziale in proposito.
In particolare, si è osservato che, ai fini della integrazione del reato di sottrazione fraudolenta al pagamento delle imposte, l’alienazione è “simulata”, ossia finalizzata a creare una situazione giuridica apparente diversa da quella reale, quando il programma contrattuale non corrisponde deliberatamente in tutto (simulazione assoluta) o in parte (simulazione relativa) alla effettiva volontà dei contraenti, e che, qualora invece il trasferimento del bene sia effettivo, la relativa condotta può essere valutata quale possibile “atto fraudolento”, idoneo a rappresentare una realtà non corrispondente al vero e a mettere a repentaglio o comunque ostacolare l’azione di recupero del bene da parte dell’Erario (cfr. Sez. 3, n. 3011 del 05/07/2016, dep. 2017, Di Tullio, Rv. 268798-01).
È inoltre ripetuta l’affermazione secondo cui, in tema di sottrazione fraudolenta al pagamento delle imposte, gli atti dispositivi compiuti dall’obbligato, oggettivamente idonei ad eludere l’esecuzione esattoriale, hanno natura fraudolenta, ai sensi dell’art. 11, d.lgs. n. 74 del 2000, allorquando, pur determinando un trasferimento effettivo del bene, siano connotati da elementi di inganno o di artificio, cioè da uno stratagemma tendente a sottrarre le garanzie patrimoniali all’esecuzione (così, per tutte, Sez. 3, n. 35983 del 17/09/2020, Colanzi, in corso di massinnazione, e Sez. 3, n. 29636 del 02/03/2018, Auci, Rv. 273493-01).
Appare utile precisare, ancora, che gli atti simulati o fraudolenti, siccome debbono essere «idonei a rendere in tutto o in parte inefficace la procedura di riscossione coattiva, in tanto rilevano ai fini della integrazione della fattispecie incriminatrice, in quanto sono tali da rendere (almeno) più difficoltosa l’azione di recupero del credito (cfr. Sez. 3, n. 32504 del 04/12/2017, dep. 2018, Peluso, Rv. 273496-01, e Sez. 3, n. 10161 del 16/05/2017, dep. 2018, Cemin, Rv. 272547-01).
3.1.3. Relativamente all’ultimo profilo, poi, sembra ragionevole affermate che il reato di cui all’art. 11 d.lgs. n. 74 del 2000 sia configurabile anche se l’atto simulato o fraudolento sia compiuto, oltre che con il dolo specifico di sottrarsi al pagamento delle imposte, anche con altre finalità.
In effetti, la disposizione incriminatrice non richiede che la finalità di sottrarsi al pagamento dei debiti tributari da essa indicati sia esclusiva.
E a conclusioni analoghe è pervenuta la giurisprudenza, anche delle Sezioni Unite, con riferimento al fine di evasione caratterizzante il dolo specifico del reato di dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altre operazioni inesistenti, previsto dall’art. 2 d.lgs, n. 74 del 2000 con analoga tecnica normativa, allorché ha osservato che lo stesso può concorrere con altre finalità senza che ciò escluda la configurabilità, eventualmente in concorso formale con altre fattispecie di illecito penale, del delitto tributario appena indicato (cfr., specificamente, Sez. U, n. 27 del 25/10/2000, Di Mauro, Rv. 217032-01, e Sez. 3, n. 27112 del 19/02/2015, Forlani, Rv. 264390-01).
3.2. La sentenza impugnata ha ricostruito analiticamente i rapporti tra l’imputato e l’Amministrazione finanziaria, e le operazioni concernenti l’immobile che si assume essere oggetto di alienazione simulata o comunque di altro atto fraudolento in pregiudizio della procedura di riscossione coattiva.
Per quanto concerne i rapporti tra il ricorrente e l’Amministrazione finanziaria prima del compimento dell’atto di alienazione indicato in contestazione, la Corte d’appello rappresenta che il primo: a) era stato convocato dall’Agenzia delle Entrate per il 18 marzo 2013, con raccomandata notificatagli il 15 febbraio 2013, per chiarimenti in ordine a contestate percezioni di capitali provenienti dalla Francia negli anni 2007, 2008 e 2010; b) già nel 2007 era stato convocato dalla Guardia di Finanza per chiarimenti circa un bonifico bancario ricevuto dall’estero per un importo di 250.000,00 euro; c) ha ricevuto nel novembre 2013 un avviso di accertamento per imposte, sanzioni, interessi, spese ed aggi avente ad oggetto la somma di quasi 250.000,00 euro.
Con riguardo all’atto simulato o fraudolento, il Giudice di secondo grado rileva innanzitutto che: a) il ricorrente acquistò un immobile il 5 settembre 2007 per euro 315.000,00, utilizzando anche 200.000,00 euro pervenutigli dalla Francia; b) il medesimo ricorrente alienò il medesimo immobile alla convivente in data 3 maggio 2013 per il prezzo di 92.500,00 euro; c) la convivente procedette a vendere a terzi il precisato immobile in data 15 dicembre 2014 per il prezzo di 280.000,00. Osserva, poi, che, come ammesso espressamente dalla difesa, la vendita dal ricorrente alla convivente del 3 maggio 2013 era parzialmente simulata, in quanto in parte “donazione”, e che, anzi, il pagamento è documentato in modo anomalo, in quanto agli atti risulta allegato un assegno recante l’importo di 96.000,00 euro anteriore di due mesi rispetto alla data dell’atto, nonostante quest’ultimo prevedesse il pagamento entro il successivo 31 dicembre 2013.
Segnala, ancora, che gli elementi acquisiti non sono idonei a dimostrare l’interruzione della convivenza tra l’imputato e la compagna al momento della stipula dell’atto di alienazione del 3 maggio 2013.
Relativamente al pregiudizio per le ragioni dell’Erario, la Corte distrettuale osserva che l’imputato: a) in Italia, era proprietario solo dell’immobile oggetto dei precisati atti negoziali e di un conto corrente con un attivo di poche migliaia di euro; b) non ha fornito alcuna apprezzabile documentazione in ordine a patrimonio e reddito esistenti in Francia, limitandosi a produrre semplicemente la fotocopia di un elenco di beni con annotazione del loro valore, privo di qualunque indicazione di autenticità, ed inidoneo anche a conoscere se detti cespiti siano gravati da ipoteche o vincoli. Aggiunge, poi, che, in ogni caso, l’alienazione dell’unico bene di significativo valore in Italia, quand’anche si volesse ritenere operazione negoziale effettiva e non simulata, ha determinato maggiori incertezze e difficoltà per le attività di riscossione.
La sentenza, ancora, per una compiuta ricostruzione della situazione, evidenzia pure che: a) non vi sono elementi a sostegno delle affermazioni dell’imputato, secondo cui egli, nell’agosto 2013, voleva regolarizzare i suoi rapporti con l’Erario, e che, però, l’Agenzia delle Entrate aveva accettato di definire le pendenze solo per gli anni 2011 e 2012, anche perché non sono stati rinvenuti neppure i modelli di pagamento richiamati dalla difesa; b) la prospettata natura “compensativa” verso la convivente dell’alienazione del 3 maggio 2013 non è incompatibile con la finalità di evitare o rendere più difficoltosa la procedura di riscossione coattiva, anche perché l’atto negoziale in questione è stato compiuto mentre erano in corso le attività di accertamento dell’Amministrazione Finanziaria.
3.3. In considerazione dei principi giuridici richiamati e degli elementi esposti nella sentenza impugnata, le conclusioni della Corte d’appello sono immuni da vizi.
Invero, il debito del ricorrente verso l’Erario era ampiamente superiore alla soglia di 50.000,00 euro, come conferma anche l’adesione del medesimo alla c.d. definizione agevolata ex art. 6 dl. n. 193 del 2016, convertito dalla legge n. 225 del 2016, con quantificazione del debito residuo, secondo quanto indicato nel ricorso, in 136.690,75 euro.
Non può certo dirsi manifestamente illogica l’affermazione secondo cui il ricorrente era consapevole, al momento dell’atto ritenuto simulato o fraudolento, ossia il 3 maggio 2013, dell’esistenza di un debito a suo carico, e a vantaggio dell’Amministrazione finanziaria, per un importo superiore ai 50.000,00 euro.
Invero, è altamente significativo il dato della convocazione ad opera dell’Amministrazione finanziaria nel febbraio/marzo 2013, ossia nemmeno due mesi prima dell’atto di alienazione; non irrilevanti, poi, sono le ulteriori circostanze della vendita dell’immobile in misura ampiamente “sottocosto” e in favore della convivente o ex-convivente.
Correttamente motivata, ancora, è la conclusione che l’atto di alienazione del 3 maggio 2013 sia stato simulato o comunque compiuto fraudolentemente al fine di rendere in tutto o in parte inefficace la procedura di riscossione coattiva. Ed infatti, la vendita del 3 maggio 2013 non solo avvenne ad un prezzo enormemente più basso rispetto a quello del precedente acquisto e della successiva rivendita, inoltre corrisposto con modalità del tutto anomale, ma ebbe il risultato di privare l’Amministrazione finanziaria di qualunque garanzia, almeno in Italia, a tutela delle ragioni dei crediti tributari spettanti, immediatamente prima che, nel novembre 2013, venisse emesso un avviso di accertamento per imposte, sanzioni, interessi, spese ed aggi avente ad oggetto la somma di quasi 250.000,00 euro.
Infine, immune da vizi è il rilievo concernente l’esistenza del dolo specifico di sottrarsi al pagamento di imposte sui redditi o sul valore aggiunto ovvero di interessi o di sanzioni amministrative relativi a dette imposte di ammontare complessivo superiore ad euro cinquantamila. In effetti, risulta corretto inferire l’esistenza di tale finalità – che, come si è detto in precedenza al § 3.1.3., non deve essere esclusiva – dall’esame coordinato di tutte le circostanze di fatto precedentemente evidenziate.
4. Diverse da quelle consentite, infine, sono le censure dedotte nel terzo motivo, che contestano la legittimità della confisca.
Invero, a norma dell’art. 606, comma 3, cod. proc. pen., il ricorso per cassazione è inammissibile se proposto per violazioni di legge non dedotte con i motivi di appello.
Ora nella specie, dall’esame dell’atto di appello non risulta la formulazione di alcuna questione in ordine alla legittimità della confisca. E, d’altro canto, la verifica dell’avvenuta estinzione dei debiti tributari nelle more del procedimento, così come prospettato nel ricorso, presuppone accertamenti di fatto, come tali non consentiti in questa sede.
5. Alla dichiarazione di inammissibilità del ricorso segue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali, nonché – ravvisandosi profili di colpa nella determinazione della causa di inammissibilità – al versamento a favore della cassa delle ammende della somma di Euro tremila, così equitativamente fissata in ragione dei motivi dedotti.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della cassa delle ammende.
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