CORTE DI CASSAZIONE, sezione penale, sentenza n. 11308 depositata il 3 aprile 2020
Fallimento ed altre procedure concorsuali – Società per azioni – Membri del collegio sindacale – Concorso nel reato di bancarotta impropria da reato societario – Omesso il controllo sulla tenuta delle scritture contabili e sulla redazione dei bilanci – Determinazione della durata delle pene accessorie
Ritenuto in fatto
1. Con la decisione in epigrafe, la Corte d’Appello di Torino, in parziale riforma della sentenza emessa il 18.5.2016 dal Tribunale di Torino, ha dichiarato non doversi procedere per intervenuta prescrizione nei confronti di M.P. e A.C.A. in relazione al capo B della contestazione, avente ad oggetto il reato di concorso in bancarotta semplice per omesso controllo sulla tenuta delle scritture contabili e sulla redazione dei bilanci e per omesso invito agli amministratori a richiedere tempestivamente la dichiarazione di fallimento, con aggravamento del dissesto della società E.A.T. s.p.a., dichiarata fallita con sentenza del 17/3/2009, società della quale erano state – rispettivamente – la prima, sindaco dal 10.1.2006 al 25.2.2008, e la seconda presidente del collegio sindacale dal 20.11.2000 sino al 25.2.2008.
La sentenza della Corte d’Appello ha confermato, invece, quella di primo grado quanto al capo A dell’imputazione ed al concorso delle imputate nel reato di bancarotta impropria da reato societario commesso per aver contribuito alla causazione per aggravamento del dissesto, attraverso condotte di falso in bilancio attribuite ai sindaci secondo lo schema legale previsto dall’art. 40 cpv. cod. pen.; precisamente le imputate avrebbero omesso il controllo sulla tenuta delle scritture contabili e sulla redazione dei bilanci al 31.12.2004, 31.12.2005 e 31.12.2006, formulando parere favorevole all’approvazione degli stessi, nonostante in essi fossero esposti fatti materiali non rispondenti al vero sulla situazione economica, patrimoniale e finanziaria della società, dei quali erano a conoscenza come sindaci.
Il reato è stato ritenuto aggravato ai sensi dell’art. 219, comma 2, n. 1, I. fall. dall’aver commesso più fatti di bancarotta e le imputate sono state condannate alla pena di due anni di reclusione, riconosciute le attenuanti generiche prevalenti sulla citata aggravante; sono state inflitte ad entrambe, altresì, le pene accessorie previste dall’ultimo comma dell’art. 216 I. fall. nella misura obbligata decennale antecedente alla dichiarazione di incostituzionalità pronunciata dalla Corte costituzionale con sentenza n. 222 del 2018.
2. Avverso la sentenza predetta propongono ricorso per cassazione entrambe le imputate.
2. M.P. ha proposto impugnazione in sede di legittimità tramite i difensori avvocati M.R. ed E.R., deducendo sei motivi.
2.1. Il primo argomento difensivo censura violazione di norme processuali stabilite a pena di inutilizzabilità con riferimento all’art. 238-bis cod. proc. pen. ed all’acquisizione ed utilizzazione della relazione peritale predisposta dal dott. C. in altro procedimento, svoltosi, con rito abbreviato e senza la partecipazione delle attuali imputate, a carico degli amministratori della fallita per il reato di bancarotta fraudolenta per distrazione e definito con sentenza di condanna di P., E. e L.G., passata in giudicato in seguito alla decisione di inammissibilità del ricorso emessa dalla Quinta Sezione Penale della Corte di cassazione con sentenza n. 47540 del 2/7/2015.
Il perito del processo già definito è stato nominato consulente del pubblico ministero e sentito quale teste, con acquisizione del suo elaborato solo successiva all’assunzione della sua testimonianza in contraddittorio, ma ciò non basta, secondo la difesa ed a dispetto di quanto argomenta la Corte d’Appello, a far ritenere rispettate le condizioni di tenuta del principio del contraddittorio – e di conseguente utilizzabilità dei dati di fatto derivati dalla sentenza passata in giudicato – ai sensi dell’art. 111, comma 4, Cost. e dell’art. 238-bis del codice di rito: non si è in presenza, infatti, di prove assunte in incidente probatorio o nel dibattimento, bensì di una perizia acquisita al rito abbreviato, ed il difensore dell’imputato non ha partecipato all’assunzione di tale prova.
La violazione del principio costituzionale emerge ancor più evidente se si tiene mente alla circostanza che il GIP ha respinto la richiesta di archiviazione formulata nei confronti dei sindaci ed ha disposto l’imputazione coatta di costoro proprio in base all’acquisizione della relazione contabile peritale del dott. C..
2.2. La seconda censura attiene alla nullità della sentenza impugnata per violazione degli artt. 238-bis e 187- 192, comma 3, del codice di rito nonché per mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione in ordine ai criteri di valutazione della prova.
Sotto un primo profilo, i fatti storici dei quali la sentenza della Corte di cassazione citata costituirebbe prova non attengono all’imputazione a carico delle ricorrenti, ma alla responsabilità degli amministratori della fallita per una diversa loro condotta (la bancarotta fraudolenta patrimoniale per distrazione dell’intero compendio corrispondente al deficit fallimentare e non i reati di falsi in bilancio), sicchè l’acquisizione e l’utilizzazione del suo contenuto si collocano al di fuori dell’alveo dell’art. 187 cod. proc. pen. secondo cui oggetto di prova sono solo i fatti che si riferiscono all’imputazione.
È impossibile utilizzare a carico dei sindaci, ai quali si contesta – in sintesi – di non aver impedito alcuni falsi in bilancio, valutazioni emesse nella sentenza resa nei confronti degli amministratori ai quali tali fatti di falso in bilancio non sono stati contestati. Lo stesso aggravamento del dissesto causato dal mancato impedimento dei delitti di falso in bilancio, che costituisce il cuore dell’imputazione mossa alla ricorrente, non è stato oggetto del giudizio a carico degli amministratori.
Sotto un secondo profilo, in ogni caso, la valutazione condotta dalla Corte d’Appello viola il criterio indicato dall’art. 192, comma 3, cod. proc. pen.
Il fatto accertato del quale può far prova la sentenza passata in giudicato ed acquisita, infatti, al più è quello di cui al dispositivo ma non può corrispondere alle circostanze ritenute accertate nella motivazione.
Inoltre, nonostante la Corte d’Appello vi faccia cenno, mancano i riscontri ai fatti accertati dei quali si ritiene l’utilizzabilità ai sensi dell’art. 238-bis cod. proc. pen., poiché tale natura non può riconoscersi alla testimonianza del consulente tecnico, già perito, ascoltato nel processo.
2.3. Il terzo motivo di ricorso deduce erronea applicazione dell’art. 40 cpv. cod. pen. In relazione agli artt. 2621 cod. civ. e 223 I. fall. e mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione quanto alla asserita difformità del comportamento dei sindaci rispetto agli obblighi previsti dalla legge in relazione al loro incarico, nonché alla concreta possibilità per i sindaci di impedire i reati asseritamente commessi dagli amministratori e, conseguentemente, di evitare il ritenuto aggravamento del dissesto.
La ricorrente, inoltre e più specificamente, nominata sindaco in data 10.1.2006 e cessata nell’incarico il 26.10.2007, non può essere chiamata a rispondere di non aver impedito l’eventuale falsità del bilancio al 31.12.2004, approvato in data 29.6.2005, quindi precedentemente alla sua nomina.
La breve permanenza nell’incarico della ricorrente impedisce, altresì, di ritenere che ella avesse i poteri impeditivi necessari ad evitare gli asseriti comportamenti di falso in bilancio degli amministratori e, conseguentemente, ad evitare l’aggravamento del dissesto.
Il contributo causale consapevole da parte della ricorrente all’aggravamento del dissesto è stato ritenuto solo apoditticamente dalla Corte d’Appello, confondendo mere negligenze sindacali con la responsabilità dolosa omissiva per il reato di bancarotta societaria contestato.
Non sussiste la prova, inoltre, del nesso causale tra la condotta omissiva del sindaco e la causazione dell’evento, poiché nel caso di specie il dissesto origina da fattori diversi rispetto all’operazione falsificatoria principale ascritta alla ricorrente (il falso valutativo relativo alla partecipazione nella società C.M.) e si radica nella gestione tipica ed ordinaria della società fallita sulla quale i sindaci non hanno alcun potere di vigilanza, confondendosi altrimenti tali poteri con quelli gestori propri degli amministratori.
La motivazione della Corte d’Appello su tale punto riferito al nesso causale è del tutto assente.
La motivazione del provvedimento impugnato, invece, si presenta carente ed illogica con riferimento al tema dell’espletamento degli obblighi gravanti sui sindaci, dilatati abnormemente, là dove non si è tenuto conto che il Collegio sindacale ha svolto con puntualità le verifiche trimestrali in ordine alla regolarità della gestione contabile ed ha partecipato alle riunioni del Consiglio di Amministrazione ed alle Assemblee ordinarie di soci.
Si evidenziano, poi, in chiave difensiva, i rilievi diretti agli amministratori, contenuti nel verbale del Collegio sindacale del 4.10.2006 in ordine ad alcune criticità gestionali (ritardi negli incassi da clienti e ritardi nei pagamenti dei fornitori) ed alla necessità di operare un monitoraggio costante dei crediti.
Tale monito ebbe una conseguenza rassicurante per i sindaci nell’aumento del capitale sociale per quasi 500.000 euro mediante “versamenti soci in conto capitale” e nella nomina ad amministratori delegati dei due figli di L.G., P. ed E..
Anche in data 5.9.2007 il Collegio sindacale ha effettuato rilievi critici circa l’aumento dei debiti verso i fornitori e delle esposizioni bancarie, nonché in relazione al mancato versamento dell’IVA per i mesi di febbraio e maggio 2007 ed all’utilizzo in compensazione di un credito IVA non ancora spettante per il mese di luglio.
Tuttavia, avvedendosi del perseverare dell’amministrazione in tali irregolarità, il Collegio sindacale si è dimesso in data 26.10.2007 (dimissioni ratificate solo quattro mesi dopo dall’assemblea dei soci, in seguito alle quali il nuovo collegio sindacale nominato avviò la dovuta segnalazione ex art. 2409 cod.civ.).
Tali circostanze dimostrano la correttezza dell’operato dei sindaci e della ricorrente, mentre non corrisponde al vero quanto ritenuto accertato dalla sentenza impugnata circa l’atteggiamento totalmente rinunciatario ed abdicativo delle proprie competenze dimostrato dai sindaci: semplicemente, sino a quando furono in carica la ricorrente ed i suoi colleghi del collegio sindacale poi dimissionario, non vi erano le condizioni legali per dar luogo al procedimento ex art. 2409 cod. civ., tanto che solo nell’agosto 2008 esso fu avviato.
2.4. Il quarto motivo di ricorso deduce nullità della sentenza per erronea applicazione degli artt. 40 cpv. cod. pen., 2621 cod. civ. e 223 I.fall. nonché mancanza e manifesta illogicità della motivazione in relazione alla ritenuta falsità dei bilanci al 31.12.2004, al 31.12.2005 ed al 31.12.2006 ed alla ritenuta possibilità per i sindaci di rilevare tali falsità, sull’accertamento delle quali non vi è giudicato nei confronti degli amministratori ai quali non sono state contestate.
Si pongono in evidenza nel ricorso le argomentazioni che proverebbero:
– il mancato accertamento della falsità del credito verso la società Q. s.a.s. apposto in bilancio;
– l’inesistenza di una sopravalutazione della partecipazione della fallita nella C.M. s.r.l. tramite rinuncia ai crediti, trattandosi peraltro di iscrizione che configura in ogni caso non già un falso valutativo bensì al più un’erronea valutazione, dettata dalla necessità di operare un aumento di capitale della partecipata per ripianarne le perdite e attuarne un piano di sostegno a lungo termine, decisione magari non appropriata nel merito ma giammai rivelatrice di una falsità di bilancio di tipo valutativo;
– l’inesistenza di un falso qualitativo nella rivalutazione della partecipazione societaria della fallita nella C.M. s.r.I., vertendosi piuttosto in uno di quei casi eccezionali in relazione ai quali l’art. 2423, comma 4, cod. civ. impone di discostarsi dai criteri valutativi fissati nei successivi articoli se ciò sia di ostacolo all’esposizione veritiera e corretta dell’assetto societario, giustificati dai due requisiti individuati dalla giurisprudenza e costituiti dalla peculiarità della situazione contingente e dalla congrua motivazione della deroga ai criteri generali da annotare nella nota integrativa al bilancio. Ebbene, nel caso di specie, la peculiarità di fatto era integrata dal mutamento della destinazione dell’immobile in fase di ristrutturazione, da residenza per anziani a struttura alberghiera di pregio (giusta l’autorizzazione del comune di Montaldo dell’aprile del 2007), mentre la nota integrativa al bilancio al 31.12.2006 dava conto del cambio di destinazione e dei criteri adottati per la rivalutazione dell’immobile, con motivazione ragionevole e non temeraria della rivalutazione operata, anche alla luce dell’imprevedibilità della crisi economica degli anni 2008-2009 che portò alla svalutazione immobiliare.
Tali elementi, del resto, sono stati valutati tanto rilevanti da evitare agli amministratori una contestazione di falso in bilancio, contestazione che è irragionevole voler addossare ai sindaci per omesso controllo delle condotte degli autori materiali, esclusi invece dall’imputazione.
In ogni caso, la motivazione della Corte d’Appello è carente perché confonde l’eventuale insufficiente motivazione della deroga ex art. 2423, comma 4, cod. pen. con la sussistenza di un’ipotesi di falso qualitativo e non tiene conto della realtà di fatto del consistente incremento di valore derivante dall’imminente conclusione degli interventi di risanamento e ristrutturazione del cespite immobiliare, che esclude in radice la falsità dell’appostazione in bilancio (del resto è lo stesso consulente del pubblico ministero che ha rilevato un maggior valore plausibile e dimostrabile).
In sintesi, si deduce che non integra falso valutativo/qualitativo penalmente rilevante la semplice diversità tra la proiezione di maggior valore fatta dagli amministratori e la valutazione ex post compiuta dal consulente del pubblico ministero molti anni dopo, con valori immobiliari modificati verso il basso in relazione alla crisi economica ed immobiliare del 2008-2009.
A maggior ragione tale constatazione vale per escludere la responsabilità omissiva dei sindaci, i quali fondatamente si convinsero, all’epoca della formazione dei bilanci in contestazione, della plausibilità delle appostazioni relative alla partecipazione societaria della fallita in considerazione del mutamento di destinazione dell’immobile di proprietà della partecipata operata in bilancio dagli amministratori.
2.5. Il quinto motivo di ricorso deduce nullità della sentenza per violazione di legge e motivazione manifestamente illogica quanto alla ritenuta sussistenza del dolo del delitto di bancarotta impropria da reato societario, desunto inspiegabilmente dai rapporti personali di conoscenza e collaborazione professionale esistenti tra la ricorrente (e la coimputata), il commercialista della fallita e delle altre società riferibili alla famiglia G., la famiglia stessa.
2.6. La sesta ed ultima censura attiene al vizio di violazione di legge ed a quello di motivazione manifestamente illogica relativi alla ritenuta derivazione di un aggravamento del dissesto dalle condotte di omessa vigilanza attribuite alla ricorrente: la lettura delle risultanze probatorie è stata equivocata dai giudici di merito poiché le stesse conclusioni del pubblico ministero dimostrano che consentire la realizzazione del progetto immobiliare avente ad oggetto il C.M. ha permesso di incrementare il valore teorico di recupero dell’investimento e non di aggravare il dissesto. Anche il valore catastale, superiore a quello di rivalutazione, costituisce un dato obiettivo ulteriore nel senso dell’assenza di qualsiasi rilievo penale delle condotte della ricorrente.
3. Ha proposto ricorso anche l’imputata A.C.A., tramite il difensore avv. C.D.L., deducendo quattro motivi di ricorso, sostanzialmente in tutto sovrapponibili, anche per la gran parte dal punto di vista formale e grafico, ai motivi dal terzo al sesto del ricorso della coimputata P.; pertanto, sarà utile e sufficiente il loro richiamo.
Considerato in diritto
1. I ricorsi sono complessivamente infondati e devono essere rigettati.
La sentenza impugnata, tuttavia, deve essere annullata limitatamente alla statuizione delle pene accessorie.
2. Anzitutto è opportuno rappresentare sinteticamente quanto risulta accertato nei giudizi merito e, in particolare, nel provvedimento impugnato.
2.1. I bilanci della società fallita per gli anni 2004, 2005 e 2006 sono stati falsificati mediante tre distinti gruppi di condotte criminose, integranti falsi valutativi in bilancio ai sensi dell’art. 2621 cod. civ.:
– nel bilancio al 31.12.2004, la sopravalutazione per 188.100 euro della partecipazione nella società C.M. s.r.I., controllata dalla fallita, per imputazione di rinunce crediti verso la controllata e l’indicazione di ricavi e crediti insistenti per fatture da emettere nei confronti della Q. s.a.s. per euro 1.090.000, così iscrivendo in bilancio l’esposizione di un utile nell’annualità al 31.12.2004 pari a 17.511 euro piuttosto che della perdita di euro 1.117.580 e di un patrimonio netto contabile negativo pari ad euro 349.960;
– nel bilancio al 31.12.2005, la sopravalutazione per 213.243 nel conto economico e per 401.343 euro nello stato patrimoniale, della partecipazione nella società C.M. s.r.I., controllata dalla fallita, mediante imputazione di rinunce crediti verso la controllata, e l’indicazione di ricavi e crediti insistenti per fatture da emettere nei confronti della Q. s.a.s. per euro 1.090.000, così iscrivendo in bilancio l’esposizione di un utile nell’annualità pari a 15.029 euro piuttosto che della perdita di euro 127.844 e di un patrimonio netto contabile negativo pari ad euro 620.812;
– nel bilancio al 31.12.2006, la rivalutazione per 3.200.000 euro, risultata falsa per eccesso, della partecipazione della suddetta società C.M. in ragione dell’aumento di valore dell’immobile di sua proprietà, esplicitamente ritenuto condivisibile dal collegio sindacale; l’indicazione di un credito inesistente per 1.090.000 euro derivante da una fattura emessa nei confronti della Q. s.a.s.; la sopravalutazione della partecipazione nella società C.M. mediante imputazione rinunce a crediti che ha inciso per euro 212.850 nel conto economico e per euro 614.193 nello stato patrimoniale.
In generale, lo scopo accertato delle falsificazioni, secondo la ricostruzione delle sentenze di merito, è stato quello di far apparire “in utile” il bilancio della società fallita negli anni di riferimento, precedenti al fallimento, coprendo i buchi di bilancio, evitando così di far luogo alle necessarie ricapitalizzazioni e finanziamenti, ed i sindaci – tra i quali le odierne imputate – sono stati ritenuti colpevoli del reato ai sensi dell’art. 40 cpv. cod. pen. per mancato controllo e vigilanza nonostante la posizione giuridica che li imponeva, cagionando in tal modo l’aggravamento del dissesto.
Sono state poi ricostruite le dinamiche intrasocietarie dei tre enti economici riferibili alla famiglia G.: la E.A. s.p.a., società capofila, costituita con altre forme già nel 1980 e avente ad oggetto attività edilizia di pregio soprattutto nel campo delle opere pubbliche; la C.M. s.r.I., costituita nel 1987 ed acquisita nel 2002 per il 99% dalla E.A.T. (il rimanente 1% vedeva come titolare un componente della famiglia G.); la Q. s.a.s., costituita nel 2001 dalla medesima famiglia per operare nel settore immobiliare soprattutto dell’edilizia convenzionata. Sullo sfondo del fallimento della E.A.T. vi è un’operazione di investimento rivelatasi diseconomica negli anni e relativa alla costruzione di un complesso immobiliare di vaste dimensioni aperto al pubblico quale struttura alberghiera nel 2008 (venuta meno l’iniziale aspettativa di finanziamento pubblico per una destinazione sanitarioassistenziale dell’immobile), di proprietà della C.M. s.r.I., principalmente per la scarsa redditività dell’attività gestita da società diverse comunque riferibili alla famiglia G..
Entrambe le pronunce di merito si fondano sulle valutazioni del consulente del pubblico ministero, che ha ricostruito l’andamento dello stato economico della società E.A.T. negli anni cruciali antecedenti al fallimento anche in contraddittorio tra le parti durante la testimonianza resa; sono state puntualmente vagliate, altresì, anche le consulenze tecniche proposte dalle imputate, inidonee a scalfire il convincimento conforme delle due pronunce di condanna.
Secondo la doppia pronuncia conforme composta dai provvedimenti di primo e secondo grado, già nel 2005 era evidente lo stato di insolvenza della fallita, che è riuscita a continuare nella propria attività solo grazie al credito bancario ed al dilazionamento del pagamento dei fornitori.
Alla base della crisi di impresa, non soltanto le diseconomie derivanti dalla gestione non proficua della struttura alberghiera riferibile alla C.M. ed alla controllante E.A.T. fallita – che hanno inciso sugli squilibri finanziari per una stima pari al 20% del totale – ma anche l’insufficienza della dotazione patrimoniale, l’eccessivo indebitamento e la modestissima redditività della gestione societaria nel suo complesso. In particolare, si sottolinea come, sino al 2005, gli utili non superavano i 17.000 euro per ciascun esercizio, sebbene il fatturato ammontasse a circa mille volte di più.
Si evidenzia dalla ricostruzione delle sentenze di merito che, alla fine del 2006, era già leggibile una chiara situazione di “non ritorno” delle perdite di gestione e l’irreversibilità del dissesto, mentre il passivo finale accertato è risultato pari a 33.608.511,67 euro per E.A.T. ed a 22.131.425,81 euro per C.M..
2.2. Quanto alla sentenza della Quinta Sezione della Corte di cassazione n. 47540 del 2/7/2015, il cui utilizzo nella motivazione del provvedimento impugnato è stato oggetto di specifiche ragioni di gravame, vi è da dire che essa segna il passaggio in giudicato dell’accertamento di responsabilità degli amministratori della società fallita – L., E. e P.G. – per il relativo reato di bancarotta fraudolenta per distrazione, commesso proprio in relazione alla destinazione di ingenti risorse della E.A.T. s.p.a. (pari a circa nove milioni di euro) alla C.M. s.r.I..
Le risultanze del processo all’esito del quale la decisione del 2015 è stata emessa, lette nel prisma motivazionale costituito dal citato provvedimento, hanno rappresentato un elemento logico della piattaforma probatoria utilizzata dalla Corte d’Appello di Torino per ricostruire la complessa vicenda di decozione e le responsabilità dei sindaci nel presente procedimento, una volta analizzati anche i confini valutativi ex art. 238-bis cod. proc. pen., sui quali ampiamente la pronuncia impugnata dispiega la sua motivazione.
2.3. Sul quadro probatorio così complessivamente delineato, la Corte d’Appello ritiene provati quali fatti storici (con i limiti di valutazione insiti nel richiamo all’art. 192 cod. proc. pen. svolto nella disposizione di cui all’art. 238-bis) i seguenti passaggi, oggetto anche del convincimento tratto dalla sentenza di questa Sezione del 2015:
– l’operazione “C.M.” non poteva ragionevolmente rientrare nel fisiologico esercizio dell’attività di impresa, visto che la E.A.T. aveva assunto a fine anni Novanta un appalto per la ristrutturazione di quell’edificio, ma poi, preso atto dell’impossibilità di ottenere il pagamento dei relativi lavori, aveva rilevato nel corso degli anni successivi la totalità delle quote della s.r.l. proprietaria del bene (il 99%, con il residuo formalmente intestato a P.G. ma contabilizzato in capo alla fallita);
– in quello stesso periodo, la E.A.T. venne a trovarsi in una situazione di crisi sempre più grave, perché fortemente sottocapitalizzata in rapporto alle esposizioni debitorie, considerato che l’attività che svolgeva richiedeva elevati investimenti con prevedibile ritorno economico a lungo termine;
– l’acquisto della partecipazione nella C.M. s.r.I., come pure i successivi finanziamenti a quest’ultima, soprattutto nella forma di crediti non incassati, comportarono un obiettivo depauperamento della società, nelle cui scritture veniva al contempo aggiornato (con un incremento di oltre 3 milioni di euro, ma in termini non realistici) il valore della partecipazione nella controllata, al preminente fine di occultare perdite già realizzate (e sul punto cfr. pag. 40 della sentenza impugnata);
– l’operazione di acquisto immobiliare era stata portata avanti tra il 2004 e il 2008, periodo in cui la E.A.T. versava già in condizioni evidenti di dissesto, le cui cause erano da attribuire a fattori pregressi e indipendenti;
– la prospettiva di un recupero dell’investimento, una volta ultimata la ristrutturazione, doveva considerarsi del tutto illusoria, secondo quanto verificato dal consulente tecnico nominato nel corso delle indagini preliminari e condiviso dai giudici di merito (era infatti venuto a mancare il previsto contributo pubblico per destinare la struttura a residenza per anziani, con la successiva decisione di realizzarvi – a costi ovviamente più elevati, e senza provvidenze – un albergo con beauty farm).
E’ importante sottolineare che la sentenza impugnata ha dato atto, richiamando la pronuncia del 2015, di come E.A.T. non possedesse l’immobile, bensì una partecipazione al 99% nella società C.M., la quale, oltre ad essere titolare del cespite, era altresì gravata da debiti, non solo verso la controllante, ma anche verso terzi, mentre le utilità derivanti da una gestione diretta o da eventuali canoni di locazione avrebbero consentito di rientrare dall’esposizione in tempi lunghissimi, incompatibili con le condizioni finanziarie di E.A.T. s.p.a., anche a prescindere dal suo stato di dissesto.
Nel contesto descritto, se gli amministratori avessero rinunciato dal 2004 a proseguire nell’operazione, le perdite per la E.A.T. – secondo la ricostruzione del provvedimento d’appello confortata dal convincimento della sentenza del 2015 della Quinta Sezione Penale – sarebbero state molto più contenute, mentre i danni derivati dalla responsabilità verso i creditori della controllata non si sarebbero prodotti.
Non si è ritenuto, infine, che vi fosse spazio per ipotizzare in concreto possibili vantaggi compensativi intragruppo (stante l’esigenza di non pregiudicare le ragioni dei creditori della s.r.l., al pari di quelli della s.p.a. fallita) dall’operazione indicata, anche perché, da un lato, la tutela dei creditori della controllata non può ritenersi prevalente rispetto a quella dei creditori della controllante e, dall’altro, i debiti della “C.M.” s.r.l. verso terzi, esclusa la E.A.T., si erano comunque quadruplicati, tenuto anche conto della conclamata crisi economica in cui versava la fallita e della consapevole condotta distrattiva degli amministratori. In tale situazione – secondo i giudici di merito nel presente processo – il ruolo di controllo dei sindaci è stato gravemente omissivo e connivente rispetto ad una situazione ben conosciuta e visibile di decozione della società fallita, dinanzi alla quale non sono state poste in essere le dovute attività di vigilanza e controllo, affidate a relazioni per l’approvazione dei bilanci dai contenuti del tutto formali e privi di specifici riferimenti alla reale situazione societaria (tanto da evidenziare un errore di probabile trasposizione di “file” relativi ad altre situazioni economiche).
Le tre relazioni ai bilanci 2004-2005-2006 si caratterizzano, in particolare, per l’assenza di qualsiasi segnalazione o censura all’attività degli amministratori, nonostante – secondo la ricostruzione del consulente del pubblico ministero – vi fossero già evidenti indicatori dello stato di sofferenza e dissesto imminente.
Fanno eccezione due note critiche contenute nei verbali del collegio sindacale del 4.10.2006 e del 5.9.2007, alle quali, tuttavia, non hanno fatto seguito altre indicazioni di vigilanza, note che la Corte d’Appello ritiene motivatamente, nel complesso, non significative di un qualche mutamento dell’atteggiamento passivamente recettivo dell’operato degli amministratori da parte del collegio sindacale né dell’assolvimento degli obblighi giuridici di vigilanza e controllo su di loro incombenti. Tale inerzia è stata ritenuta indicativa di una sostanziale mancanza di autonomia del collegio sindacale rispetto all’amministrazione della società fallita, tanto più che entrambe le imputate risultano essere state nominate proprio per volontà della famiglia G. e del commercialista che curava la contabilità della fallita, D.M.. Da tale inerzia e dagli ulteriori indicatori di sciatta redazione delle relazioni sindacali – nonché dall’esplicito consenso all’operazione di falsa rivalutazione della partecipazione societaria della fallita nella C.M. s.r.l. in relazione all’appostazione riferita all’immobile adibito ad hotel di lusso – i giudici di merito traggono la conclusione che sino al 2007 il collegio sindacale, e quindi le imputate, fosse compiacente verso l’amministrazione della società e consapevolmente orientato a non denunciare la reale situazione economica della E.A.T., artificiosamente occultata nei bilanci, avallando anzi acriticamente e consapevolmente le scelte gestionali dolosamente volte a continuare una gestione in deficit della società E.A.T.: non si è mai posta in essere da parte dei sindaci una richiesta di chiarimenti, di ispezione, di verifica del valore della partecipazione societaria e del quantum della rivalutazione.
Ed in effetti, solo il nuovo collegio sindacale nominato il 25.2.2008 ha presentato la segnalazione doverosa ex art. 2409 cod. civ. sullo stato di insolvenza, la perdita di capitale sociale e l’inerzia degli amministratori ad intraprendere le iniziative necessarie a fronteggiare il dissesto.
2.4. La sentenza impugnata, altresì, ripercorre la giurisprudenza sul falso in bilancio valutativo, in particolare soffermandosi sulla sentenza delle Sezioni Unite n. 22474 del 31/3/2016, Passarelli, Rv. 266802-03.
2.5. La Corte d’Appello, infine, analizza le tre condotte di falsità in bilancio poste alla base della fattispecie di bancarotta ex art. 223 I.fall. contestata alle imputate e spiega le ragioni sulla base delle quali si ritiene che sia accertata la falsità valutativa commessa dai sindaci, avallando i bilanci con relazioni “di comodo”.
Dal punto di vista del coefficiente soggettivo, si evidenzia, tra l’altro, la posizione delle imputate di collaboratrici di vecchia data del commercialista della fallita, D.M., coinvolte proprio da quest’ultimo nel collegio sindacale della fallita e, per stessa ammissione della P., dalla famiglia di riferimento della società E.A.T., i G., parte anche delle compagini sociali delle altre due società del gruppo che i giudici definiscono “familistico”: vi sarebbe stata dunque una commistione di interessi e una sovrapposizione di ruoli tra “controllati” e “controllanti” (P. ha dichiarato di aver partecipato a riunioni con il commercialista della fallita e il cliente, redigendo atti). Dal punto di vista oggettivo, in relazione alla falsa rivalutazione nel bilancio della fallita, della partecipazione nella s.r.l. C.M., realizzata mediante sopravalutazione dell’apposizione in bilancio costituita dal valore dell’immobile di proprietà della controllata (che il consulente tecnico del pubblico ministero attesta in euro 1.619.501 euro), se ne mette in risalto l’effetto salvifico sulla situazione economica della società, che in assenza di tale rivalutazione, avrebbe chiuso il proprio bilancio al 31.12.2006 con una perdita di oltre tre milioni di euro e che, grazie a tale iscrizione ritenuta idonea ad integrare un falso valutativo, si chiude invece con un attivo sia pure modestissimo.
Si fa notare, peraltro, dai giudici d’appello, in coerenza con quanto sostenuto dal provvedimento di primo grado, come risultasse fuorviante anche far coincidere il valore della partecipazione della controllante fallita nella controllata C.M. soltanto con il valore dell’immobile di proprietà di quest’ultima, mentre invece il suo patrimonio era composto non unicamente da tale “attivo” ma anche da un consistente passivo formato da debiti verso gli istituti di credito, verso i fornitori (tra cui la stessa controllante), verso i soci (E.A.T. e P.G.).
3. Alla luce della ricostruzione logica, ampia ed argomentata sinora sintetizzata, priva di iati motivazionali, i singoli motivi di ricorso si rivelano tutti privi di fondamento, taluni anche con carattere di inammissibilità.
3.1. Il primo argomento di censura, l’unico di ordine strettamente processuale, è manifestamente infondato.
Il ricorrente non pone una questione di incompatibilità del teste del pubblico ministero – già perito nel rito abbreviato chiuso dalla sentenza di condanna passata in giudicato in seguito alla decisione di inammissibilità n. 47540 del 2/7/2015 emessa da questa Quinta Sezione Penale – sentito in dibattimento perchè nominato consulente dell’ufficio d’accusa nel presente processo, bensì una mera eccezione di violazione del contraddittorio per essere stato utilizzato in un diverso procedimento, surrettiziamente, un documento, costituito dalla relazione peritale, alla cui elaborazione il difensore dell’imputato non ha partecipato.
L’eccezione è del tutto fuori fuoco.
Il teste consulente del pubblico ministero è stato ascoltato in dibattimento ed in contraddittorio tra le parti poiché nominato ex novo come tale nel processo: sulla natura di prova dichiarativa della sua deposizione in nulla incide l’essere stato il medesimo testimone autore di una relazione peritale acquisita in altro procedimento celebrato secondo il rito abbreviato, nel quale era stata respinta la richiesta di archiviazione per le posizioni dei sindaci (e dunque delle attuali imputate).
Recentemente le Sezioni Unite, con la pronuncia Sez. U, n. 14426 del 28/1/2019, Pavan, Rv. 275112, hanno stabilito espressamente che le dichiarazioni rese dal perito o dal consulente tecnico nel corso del dibattimento, in quanto veicolate nel processo a mezzo del linguaggio verbale, costituiscono prove dichiarative a tutti gli effetti (e ciò per decidere, in caso di overturning di condanna in appello, della sussistenza dell’obbligo per il giudice di procedere alla loro rinnovazione dibattimentale attraverso l’esame del perito o del consulente e dell’insussistenza invece di analogo obbligo ove la relazione scritta del perito o del consulente tecnico sia stata acquisita mediante lettura, ivi difettando la natura dichiarativa della prova).
In motivazione, le Sezioni Unite hanno sminuito il valore dell’acquisizione dell’elaborato peritale o del consulente che segua il loro esame testimoniale, poiché in tal caso la relazione redatta diviene soltanto una parte dell’esame stesso, sicchè non si dubita della natura dichiarativa della prova costituita da tale esame anche in caso di acquisizione del documento scritto (la prevalenza della natura dichiarativa della prova costituita dall’esame del consulente tecnico di parte, pur in presenza di acquisizione dell’elaborato, magari redatto anni prima dell’ascolto in contraddittorio, era stata del resto già in qualche modo affermata dalla giurisprudenza di legittimità anche precedentemente al chiaro arresto delle Sezioni Unite Pavan: cfr. Sez. 2, n. 23439 del 23/4/2007, Gallerani, Rv. 236783).
Dunque, in conclusione, non sussiste violazione del contraddittorio nel caso in cui il consulente del pubblico ministero, già nominato perito in altro procedimento connesso celebrato con rito abbreviato, venga ascoltato come teste dibattimentale e, all’esito del suo esame, sia acquisita la relazione già redatta in precedenza nei suoi contenuti essenziali.
Peraltro, deve sottolinearsi che nel caso di specie il motivo di ricorso rivela anche una certa genericità di formulazione, non essendo stata chiarita la decisività della prova di cui si contesta l’utilizzabilità né i contorni di tale utilizzazione da parte dei giudici di merito. Ed in proposito valga rammentare che, in tema di ricorso per cassazione, è onere della parte che eccepisce l’inutilizzabilità di atti processuali indicare, pena l’inammissibilità del ricorso per genericità del motivo, gli atti specificamente affetti dal vizio e chiarirne altresì l’incidenza sul complessivo compendio indiziario già valutato, sì da potersene inferire la decisività in riferimento al provvedimento impugnato (cfr. Sez. U, n. 23868 del 23/4/2009, Fruci, Rv. 243416 e la giurisprudenza successiva conforme delle Sezioni semplici).
3.2. Il secondo motivo di ricorso è manifestamente infondato.
Si contesta, in estrema sintesi, la valenza di prova ex art. 238-bis cod. proc. pen. della sentenza passata in giudicato in seguito alla dichiarazione di inammissibilità della Quinta Sezione Penale emessa con la pronuncia n. 47540 del 2/7/2015 già più volte citata.
Ebbene, è inesatta la tesi prospettata dal ricorrente sulla necessità che la prova tratta dalla sentenza passata in giudicato abbia ad oggetto i soli fatti indicati nel dispositivo e non le circostanze fattuali indicate in motivazione, nonché il corollario relativo alla possibilità di acquisire soltanto le sentenze che abbiano ad oggetto la medesima contestazione al centro del processo in cui si intende far valere la pronuncia passata in giudicato.
Invero, si è chiarito in proposito, con affermazione recente condivisa dal Collegio, che la sentenza definitiva resa in altro procedimento penale, acquisita ai sensi dell’art. 238- bis cod. proc. pen., può essere utilizzata non soltanto in relazione al fatto storico dell’intervenuta condanna o assoluzione ma anche ai fini della prova dei fatti in essa accertati, ferma restando l’autonomia del giudice di valutarne i contenuti unitamente agli altri elementi di prova acquisiti nel giudizio, in rapporto all’imputazione sulla quale è chiamato a pronunciarsi (Sez. 2, n. 52589 del 6/7/2018, Bruno, Rv. 275517).
Del resto anche in passato si era più volte evidenziato che il principio di prova contenuto nel giudicato penale acquisito ai sensi dell’art. 238-bis cod. proc. pen. va sì considerato alla stregua del criterio valutativo fissato dall’art. 192, comma 3, cod. proc. pen., ma ha come oggetto non solo il “fatto” direttamente riferibile alla statuizione fissata nel dispositivo, ma ogni acquisizione fattuale evidenziata anche nel corpo della motivazione (Sez. 5, n. 5618 del 14/4/2000, Vera, Rv. 216306).
La valutazione del giudice, dunque, può avere ad oggetto legittimamente, come è avvenuto nel caso di specie, i contenuti fattuali accertati nella pronuncia passata in giudicato e collegabili in maniera indiscutibile alle imputazioni contestate alla ricorrente nel processo in esame.
Nel caso di specie, non possono aversi dubbi sullo stretto nesso esistente tra la condotta di bancarotta fraudolenta degli amministratori della società fallita e quella dei sindaci di bancarotta da reato societario commessa per aver contribuito alla causazione per aggravamento del dissesto attraverso l’omesso controllo su falsi in bilancio ripetuti per tre annualità. La Corte d’Appello, del resto, ha ben messo in evidenza tale rapporto di pertinenza (cfr. l’ampia motivazione specifica contenuta nelle pagine 30-31-32 in particolare).
Quanto alla valutazione ex art. 192, comma 3, cod. proc. pen. del principio di prova contenuto nel giudicato penale, vi è necessità di riscontri se la sentenza irrevocabile viene acquisita nel processo ai sensi dell’art. 238-bis cod. proc. pen. per fornire la prova diretta del fatto oggetto del suo accertamento, mentre, nell’ipotesi in cui la stessa sentenza venga utilizzata come mero riscontro di altre prove già acquisite, tale conferma non risulta necessaria (Sez. 4, n. 12349 del 29/1/2008, De Angioletti, Rv. 239299).
Nel caso di specie, la sentenza irrevocabile emessa nei confronti degli amministratori della fallita e gli accertamenti di fatto in essa contenuti non rivestono il ruolo di prova diretta nel ragionamento probatorio inferenziale della Corte d’Appello di Torino a carico della ricorrente e dei sindaci della stessa società, poiché la testimonianza del consulente tecnico e le ulteriori prove raccolte pongono già le fondamenta del tessuto accusatorio nei due giudizi di merito.
Invero, in ogni caso, anche l’obiezione relativa alla valenza di riscontro della testimonianza del consulente non ha alcun pregio, alla luce della natura autonoma di elemento di prova dell’esame di quest’ultimo, già ribadita nel par. 3.1.
3.3. Il terzo argomento difensivo è complessivamente infondato.
Anzitutto va sgombrato il campo dall’equivoco sulla portata della contestazione.
Alla ricorrente, infatti, leggendo attentamente l’imputazione ed analizzando le sentenze di merito, sono state ascritte le sole condotte riferite alle annualità di bilancio in relazione alla falsità delle quali ella ha rivestito l’incarico di sindaco della società fallita E.A.T. s.p.a. e, dunque, ella è stata ritenuta colpevole soltanto delle condotte di omesso impedimento delle falsità in bilancio relative ai bilanci 2005 e 2006, con esclusione di quella relativa al bilancio approvato al 31.12.2004, approvato come per legge il 29.6.2005 e, quindi, precedentemente alla sua nomina.
La mancata limitazione a tali condotte nella contestazione di reato, dedotta dalla difesa, è solo apparente, poiché l’imputazione ricollega alla qualità di sindaco le condotte di omesso controllo sulle falsità in bilancio, implicitamente ma chiaramente circoscrivendole per ciascuna delle imputate al periodo in cui le stesse, rispettivamente, hanno rivestito la carica societaria che dà luogo alla posizione di garanzia e controllo rispetto all’andamento contabile della società fallita.
Quanto al cuore della censura difensiva – e cioè la sussistenza della prova del reato ascritto all’imputata, sotto il profilo del nesso causale tra omesso controllo, falso in bilancio e dissesto, nonché dal punto di vista della valenza della condotta omissiva posta in essere, che si tenta di proporre come mero comportamento negligente e non già quale azione guidata dalla volontà di contribuire al fallimento – egualmente se ne rileva l’infondatezza.
L’ipotesi di falso in bilancio seguita dal fallimento della società considerata nel comma secondo n. 1 dell’art. 223 legge fallimentare non costituisce un’ipotesi aggravata del reato societario, ma un autonomo titolo di reato che si inquadra nel paradigma della bancarotta fraudolenta impropria.
Infatti, l’indicata disposizione di legge fa riferimento esplicito ai fatti (non ai reati) preveduti dalle norme del codice civile: non considera, cioè, il reato di falso in bilancio (per punirlo più gravemente in caso di fallimento), bensì il fatto della falsificazione del bilancio societario, commesso dagli amministratori, direttori generali, sindaci e liquidatori di società dichiarate fallite, per punirlo come bancarotta fraudolenta (Sez. 5, n. 11491 del 26/4/1990, Einaudi, Rv. 185116; Sez. 1, n. 3813 del 21/11/1986, dep. 1987, Beltrami, Rv. 174865).
Ciò anche perché nella legge fallimentare è insito il concetto che la sopravvenienza del fallimento qualifica in modo autonomo quei fatti anteriori che, altrimenti, sarebbero soggetti ad una qualificazione giuridica diversa.
Dunque, il falso in bilancio per omissione viene attribuito alla ricorrente quale “fatto” di bancarotta impropria e non nella sua autonoma dimensione giuridica; ciò individua specificamente l’oggetto della condotta omissiva, oltre che evidenziare l’irrilevanza dell’obiezione difensiva riferita al fatto che agli amministratori non sia stato formalmente mai contestato il falso in bilancio che diviene oggetto del fuoco della condotta omissiva dei sindaci (cfr. il secondo ed il quarto motivo di ricorso).
D’altra parte, non può dimenticarsi che la posizione di garanzia dei sindaci di una società per azioni è particolarmente complessa e densa di attribuzioni.
La responsabilità in ordine al reato di bancarotta fraudolenta “impropria” è configurabile in capo ai sindaci, per violazione dei doveri di vigilanza e dei poteri ispettivi che competono loro (Sez. 5, n. 40815 del 27/4/2005, Barrasso, Rv. 232795).
La responsabilità dei sindaci per comportamento omissivo, inoltre, per la gran parte declinata in fattispecie di concorso dei sindaci nei reati di bancarotta fraudolenta commessi dagli amministratori, è radicata nel dovere di controllo che su di loro grava e che – per giurisprudenza costante – non si esaurisce in una mera verifica formale, quasi a ridursi ad un riscontro contabile nell’ambito della documentazione messa a disposizione dagli amministratori, ma comprende il riscontro tra la realtà e la sua rappresentazione (Sez. 5, n. 8327 del 22/4/1998, Bagnasco, Rv. 211368; Sez. 5, n. 10186 del 4/11/2009, dep. 2010, La Rosa, Rv. 246911; Sez. 5, n. 31163 del 1/7/2011, Checchi, Rv. 250555; Sez. 5, n. 14045 del 22/3/2016, De Cuppis, Rv. 266646) e si estende al contenuto della gestione sociale, a tutela non solo dell’interesse dei soci ma anche di quello concorrente dei creditori sociali (Sez. 5, n. 18985 del 14/1/2016, A T, Rv. 267009), tenuto conto dell’art. 2403, comma primo, prima parte, cod. civ., correlato con i commi terzo e quarto della stessa norma, che configura in capo ai sindaci il potere-dovere di chiedere agli amministratori notizie sull’andamento delle operazioni societarie (Sez. 5, n. 17393 del 13/12/2006, dep. 2007, Martone, Rv. 236630).
Anche quando è stata esclusa la responsabilità dei sindaci lo si è fatto solo nelle ipotesi nelle quali questi ultimi avevano tempestivamente attivato i loro poteri di controllo (Sez. 5, n. 45237 del 12/11/2001, Vaccaro, Rv. 221014), poichè i sindaci sono tenuti ad effettuare un controllo di legalità sugli atti e sui documenti della società, al fine di verificare la conformità degli stessi alle disposizioni di legge ed alle norme statutarie, ma non possono imporre agli amministratori determinati comportamenti ovvero sostituirsi agli stessi in caso di inadempienza.
Orbene, se questo è il quadro normativo in cui si muove la verifica del reato contestato alla ricorrente ed alla coimputata, correttamente evidenziato dalla sentenza impugnata, non può che negarsi fondamento alle obiezioni difensive, che non tengono conto della complessa analisi portata avanti dalla Corte d’Appello di Torino per individuare i profili di responsabilità dei sindaci nella fattispecie in esame, già ricostruita nel paragrafo 2, cui ci si richiama.
Sono stati elencati numerosissimi elementi di prova che fungono da indicatori inequivoci della responsabilità della ricorrente e dei sindaci per omesso controllo relativo ad una situazione di dissesto economico della fallita palesemente emergente. Anzitutto, la portata ed il tenore delle relazioni per i bilanci ritenuti falsi, che sostanzialmente denotano superficialità e standardizzazione delle formule utilizzate, generiche sull’attività di controllo e di vigilanza svolta dal collegio sindacale, tanto che per errore verosimilmente derivato da un’attività di “copia e incolla” si è anche riscontrato un refuso relativo al nome della società verificata, diverso da quello della fallita.
Quindi, l’inutilità a rappresentare adempimento del dovere di controllo sindacale dei rilievi formulati ai bilanci nell’ottobre 2006 e nel settembre 2007, visto che ad essi non ha fatto seguito alcuna azione leggibile di ostacolo all’attività degli amministratori scorretta dal punto di vista gestionale, ma anzi la redazione di relazioni al bilancio dal tenore positivo e di avallo, che ne hanno consentito l’approvazione per ciascuna annualità.
Del tutto logicamente, la Corte d’Appello ha fatto derivare dalla passiva ricezione delle indicazioni fornite dagli amministratori, senza alcun riscontro concreto, in risposta ai rilievi suddetti, la convinzione dell’atteggiamento totalmente rinunciatario e abdicativo dei propri rilevanti compiti di controllo e verifica da parte dei sindaci, poteri che in tal modo, contrariamente a quanto predicato dalla giurisprudenza di legittimità, vengono sviliti, nell’ottica difensiva, a mero un’altrettanto formale giustificazione.
I giudici d’appello correttamente, quindi, si dilungano adempimento formale che si accontenta di sulla rivalutazione della partecipazione nella società “C.M.” – altro episodio indicatore della responsabilità della ricorrente – in relazione alla quale il collegio sindacale ha formulato un improprio parere favorevole con motivazione contraddittoria, dando atto dell’insussistenza di casi eccezionali per procedere a deroghe ai sensi dell’art. 2423 e 2423-bis cod. civ.
Da tale elemento di fatto la Corte di merito trae con chiarezza logica una conseguenza: l’attività dei sindaci avrebbe avuto i connotati di correttezza che la legge impone se si fossero disposte ispezioni o verifiche della partecipazione e del quantum della rivalutazione, tanto più che le due società erano entrambe riferibili alla famiglia G..
La ricostruzione argonnentativa della decisione del provvedimento impugnato, già sintetizzata al par. 2, risponde, infine, adeguatamente ai canoni di coerenza logica richiesti per opporre, alla parte del motivo di ricorso che – esaurite le censure motivazionali – tenta di evidenziare una differente genesi e un diverso significato delle condotte della ricorrente, il difetto di sindacato di legittimità, quando sia richiesto sostanzialmente di avvalorare uno scenario di prova alternativo a quello proposto dai giudici di merito, volto ad ottenere esiti decisori più favorevoli, in assenza di ragioni di manifesta illogicità o di travisamento della prova (cfr. ex multis Sez. 6, n. 27429 del 4/7/2006, Lobriglio, Rv. 234559; Sez. 6, n. 47204 del 7/10/2015, Musso, Rv. 265482 vedi anche Sez. U, n. 47289 del 24/9/2003, Petrella, Rv. 226074; Sez. U, n. 24 del 24/11/1999, Spina, Rv. 214794; Sez. U, n. 6402 del 30/4/1997, Dessimone, Rv. 207944; Sez. 5, n. 39048 del 25/9/2007, Casavola, Rv. 238215; Sez. 2, n. 7380 del 11/1/2007, Messina, Rv. 235716; Sez. 6, n. 25255 del 14/2/2012, Minervini, Rv. 253099; Sez. 6, n. 13809 del 17/3/2015, 0., Rv. 262965).
Quanto alla sussistenza del nesso causale tra aggravamento del dissesto e condotta della ricorrente e del collegio sindacale, è stato messo in risalto dal provvedimento impugnato come, senza l’omessa o superficiale verifica sulle condizioni reali gestionali e contabili della società fallita, non si sarebbe determinato lo stato di decozione nella misura e nei tempi realizzatisi. Peraltro, sotto il fuoco del coefficiente soggettivo del reato, che si sia trattato di comportamento consapevole e voluto della ricorrente – e non soltanto negligente – è stato desunto logicamente dalla qualità e dalla reiterazione delle verifiche omesse o portate avanti con superficialità e approssimazione, ovvero con compiacente condivisione della gestione distrattiva realizzata dagli amministratori.
Anche la vicinanza professionale ed amicale di lunga data con la famiglia proprietaria delle quote sociali della fallita e della società C.M. depone nel senso della prova del coefficiente psicologico richiesto alla realizzazione del reato, in uno con il sostanziale conflitto di interessi già evidenziato tra “controllati” e “controllori” conseguente alla derivazione di questi ultimi dallo studio commercialistico della famiglia G., di cui era titolare il dott. D.M..
In proposito, si rammenta che, in tema di bancarotta impropria da reato societario, con riferimento al reato di cui all’art. 2621 cod. civ., il dolo richiede una volontà protesa al dissesto, da intendersi non già quale intenzionalità di insolvenza, bensì quale consapevole rappresentazione della probabile diminuzione della garanzia dei creditori e del connesso squilibrio economico (Sez. 5, n. 50489 del 16/5/2018, Nicosia, Rv. 274449; Sez. 5, n. 42257 del 6/5/2014, Solignani, Rv. 260356; Sez. 5, n. 23091 del 29/3/2012, Baraldi, Rv. 252804); tale elemento volitivo è stato logicamente ascritto alla ricorrente ed alla coimputata, sindaci della società, dotati di competenze ed esperienze significative nella materia contabile e societaria, nonché di conoscenze concrete della situazione della fallita e dei suoi affari, derivanti dal legame di lunga data che le univa alla famiglia G., per via della collaborazione pluriennale con il commercialista della famiglia, D.M..
3.4. Il quarto motivo di censura è manifestamente infondato.
Quanto alla lamentata discrasia tra la contestazione per la quale la ricorrente è stata condannata ed il fatto che gli amministratori della fallita non risultino essere mai stati indagati o imputati per i relativi falsi in bilancio, deve constatarsene l’irrilevanza. Da un punto di vista giuridico, si è già rammentato che il falso in bilancio per omissione viene attribuito all’imputato che rivesta il ruolo di sindaco quale “fatto” di bancarotta impropria e non nella sua autonoma dimensione giuridica sicchè diventa irrilevante l’obiezione difensiva riferita al fatto che agli amministratori non sia stato formalmente mai contestato il falso in bilancio che diviene oggetto del fuoco della condotta omissiva dei sindaci (cfr. par. 3.3.).
D’altro canto, i sindaci rispondono di bancarotta impropria per omesso controllo avendo espresso il parere favorevole ai bilanci falsi per le annualità contestate e non per la falsità in bilancio intesa come autonoma fattispecie di reato.
La rimanente parte dell’eccezione difensiva è inammissibile per essere svolta sostanzialmente in fatto; si tenta di veicolare una diversa ricostruzione della vicenda senza tener conto delle argomentazioni ampie e del tutto logiche messe in campo dalla Corte d’Appello, in uno con la pronuncia di primo grado, alle quali si è già fatto riferimento al par. 2, cui ci si riporta. La ritenuta inconfigurabilità di un’ipotesi di falso valutativo nel caso di specie collide con la ricostruzione giuridica esatta svolta dal provvedimento impugnato sulla base anche della pronuncia Sez. U, n. 22474 del 31/3/2016, Passarelli, Rv. 266802-03, già citata.
Il massimo collegio nomofilattico, infatti, ha confermato rilievo penale alle ipotesi di falso cd. valutativo proprio con riferimento al reato di falso in bilancio ed ha chiarito come:
– il reato di false comunicazioni sociali, previsto dall’art. 2621 cod. civ., nel testo modificato dalla legge 27 maggio 2015, n. 69, è configurabile in relazione alla esposizione in bilancio di enunciati valutativi, se l’agente, in presenza di criteri di valutazione normativamente fissati o di criteri tecnici generalmente accettati, se ne discosti consapevolmente e senza fornire adeguata informazione giustificativa, in modo concretamente idoneo ad indurre in errore i destinatari delle comunicazioni;
– la falsità è rilevante se riguarda dati informativi essenziali ed ha la capacità di influire sulle determinazioni dei soci, dei creditori o del pubblico e la rilevanza altro non è che la pericolosità conseguente alla falsificazione, in un’ottica di reato di pericolo concreto della fattispecie penale attualmente vigente;
– la potenzialità ingannatoria ben può derivare, oltre che dall’esposizione in bilancio di un bene inesistente o dalla omissione di un bene esistente, anche dalla falsa valutazione di un bene che pure è presente nel patrimonio sociale, sia che si tratti di una falsa valutazione “quantitativa” che “qualitativa” (quest’ultima, per impropria appostazione di dati veri; impropria giustificazione causale di voci pur reali ed esistenti).
Le Sezioni Unite hanno adottato – come è stato già messo in risalto dalla giurisprudenza di legittimità successiva – un concetto di falso in bilancio che coniuga il criterio del “vero legale” ed il criterio cd. della “corrispondenza tra il prescelto ed il dichiarato”. Infatti, nella motivazione della citata sentenza si legge che la nuova normativa del 2015 affida al giudice la valutazione – in concreto – della incidenza della falsa appostazione o della arbitraria preterizione della stessa; dovrà dunque il giudice operare una valutazione di causalità ex ante, vale a dire che dovrà valutare la potenzialità decettiva dell’informazione falsa contenuta nel bilancio e, in ultima analisi, dovrà esprimere un giudizio prognostico sull’idoneità degli artifizi e raggiri contenuti nel predetto documento contabile, nell’ottica di una potenziale induzione in errore in incertam personam. Tale rilevanza, proprio perché non più ancorata a soglie numeriche predeterminate, ma apprezzata dal giudicante in relazione alle scelte che i destinatari dell’informazione (soci, creditori, potenziali investitori) potrebbero effettuare, connota la falsità di cui agli artt. 2621, 2621 bis2622 cod. civ.. Essa, dunque, deve riguardare dati informativi essenziali, idonei a ingannare e a determinare scelte potenzialmente pregiudizievoli per i destinatari.
In base a tale premessa, le Sezioni Unite evidenziano che la potenzialità ingannatoria ben può derivare, oltre che dalla esposizione in bilancio di un bene inesistente o dalla omissione di un bene esistente, dalla falsa valutazione di un bene che pure è presente nel patrimonio sociale. E l’alterazione di tali dati non deve necessariamente incidere solo sul versante quantitativo, ben potendo anche il c.d. “falso qualitativo” avere una attitudine ingannatoria e una efficacia fuorviante nei confronti del lettore del bilancio.
In sintesi, pertanto, la giurisprudenza di legittimità successiva alle Sezioni Unite ha affermato che, il reato di bancarotta fraudolenta impropria, di cui all’art. 223, secondo comma, n. 1, R.D. 16 marzo 1942 n. 267, da reato societario di false comunicazioni sociali, previsto dall’art. 2621 cod. civ., nel testo modificato dalla legge 27 maggio 2015, n. 69, è configurabile in relazione alla esposizione in bilancio di enunciati valutativi, se l’agente, in presenza di criteri di valutazione normativamente fissati o di criteri tecnici generalmente accettati, se ne discosti consapevolmente e senza fornire adeguata informazione giustificativa, in modo concretamente idoneo ad indurre in errore i destinatari delle comunicazioni (Sez. 5, n. 46689 del 30/6/2016, Coatti, Rv. 268672).
Ebbene, nel caso di specie, numerose sono state le indicazioni non veritiere e “valutativamente false” riportate nei bilanci ripetutamente, a riprova della volontà dolosa di indicare una realtà contabile non corrispondente a quella reale (cfr. pagg. 32- 34 e 37 e ss. del provvedimento impugnato, in particolare).
Prima tra tutte, l’annotazione del credito vantato da E.A.T. con la Q. s.a.s., utilizzata come rimedio contabile per ripianare il conto economico degli esercizi 2005- 2006-2007, reiterando ogni volta la voce (è circostanza del tutto inverosimile che passassero anni per la riscossione di un tale credito, rilevatane l’entità).
Ma così anche è a dirsi per l’incremento di valore realizzato tramite rinuncia, da parte della società fallita, a sua volta socio della “C.M.”, a crediti per finanziamenti qualificati come versamento soci in conto capitale o versamento soci in conto copertura perdite, ed in presenza di due società riferibili alla stessa compagine familiare. La Corte d’Appello ha spiegato, peraltro, perché le rinunce ai crediti non fossero strumenti economici volti alla prosecuzione delle opere immobiliari della società beneficiaria della rinuncia ai crediti, bensì strumenti distrattivi di risorse della fallita, nelle cui scritture contabili veniva annotato un incremento di otre 3 milioni di euro per la partecipazione nella controllata “C.M.” non corrispondente alla realtà della situazione economica. Anche tale rivalutazione ha un’evidente effetto salvifico del bilancio di E.A.T. che altrimenti sarebbe risultato già in perdita per il corrispondente importo di oltre tre milioni di euro (è stato accertato dal consulente che il cambio di destinazione dell’immobile in costruzione da parte della società controllata ed il suo maggior classamento catastale non arrivano in alcun modo a realizzare una rivalutazione di tale portata).
3.5. Il quinto motivo di ricorso è infondato e reitera, sostanzialmente, un’obiezione già presente nel terzo argomento di censura, già in precedenza analizzato. In proposito, valga ribadire quanto nell’esame di tale ragione di impugnazione si è posto in evidenza e cioè che, nella fattispecie di bancarotta impropria da reato societario, configurato dalla realizzazione di un fatto che integra i parametri normativi del reato di cui all’art. 2621 cod. civ., il dolo richiede una volontà protesa al dissesto, da intendersi non già quale intenzionalità di insolvenza, bensì quale consapevole rappresentazione della probabile diminuzione della garanzia dei creditori e del connesso squilibrio economico (Sez. 5, n. 50489 del 16/5/2018, Nicosia, Rv. 274449; Sez. 5, n. 42257 del 6/5/2014, Solignani, Rv. 260356; Sez. 5, n. 23091 del 29/3/2012, Baraldi, Rv. 252804).
Ed è certo che, dalla congerie delle risultanze probatorie mese in risalto dalla pronuncia di merito impugnata, la ricorrente e la coimputata, sindaci della società, emergono quali soggetti agenti dotati di competenze ed esperienze significative nella materia contabile e societaria, nonché di conoscenze concrete della situazione della fallita e dei suoi affari, derivanti dal legame di lunga data che le univa alla famiglia G., per via della collaborazione pluriennale con il commercialista della famiglia, D.M.. Tali elementi di valutazione del loro operato non illogicamente sono stati valorizzati dalla Corte di merito, ma anzi confortano e rafforzano la potenzialità accusatoria derivante dall’analisi della sola condotta oggettiva posta in essere, che, per la sua reiterazione e la sua inverosimile derivazione da una negligenza troppo macroscopica per poter essere credibile, data l’esperienza professionale riconosciuta alle imputate, rimane in ogni caso il principale indice fattuale della presenza del dolo del reato.
La Corte territoriale, in sintesi, ha complessivamente inteso sottolineare che il collegio sindacale avallò una situazione di stridente contrasto tra lo stato patrimoniale della fallita ed i bilanci, ai quali inopinatamente davano assenso senza sollevare obiezioni effettivamente idonee a invertire la rotta gestionale della società, e da ciò ha tratto uno degli argomenti logicamente convergenti a supportare la convinzione della loro volontà pregressa di omettere i controlli e le denunzie cui erano tenuti.
E di certo non possono essere ritenute sufficienti i rilievi diretti agli amministratori contenuti nel verbale del collegio sindacale del 4.10.2006 e del 5.9.2007 in ordine ad alcune criticità gestionali ed alla necessità di operare un monitoraggio dei crediti: ben poca cosa rispetto alla realtà aziendale, invece completamente falsata nella rappresentazione fattane nelle relazioni per l’approvazione dei bilanci contestati.
3.6. Il sesto motivo di ricorso è inammissibile, perché formulato in fatto e volto a sostenere, in ultima analisi, una tesi alternativa a quella proposta e argomentata soddisfacentemente nel provvedimento impugnato, piuttosto che ad evidenziare vizi di manifesta illogicità o carenza di quest’ultimo che, soli, darebbero spazio al sindacato di legittimità, il cui orizzonte è orientato alla verifica delle ragioni motivazionali addotte dal giudice di merito ed eventualmente ritenute insufficienti o inidonee perché incapaci di assolvere al compito di sostenere adeguatamente la decisione adottata.
Invero, si è già ricostruito il percorso argomentativo che la Corte d’Appello ha ritenuto alla base della natura decettiva dell’operazione di investimento relativa alla costruzione dell’immobile di proprietà della società “C.M.” nonché la ipervalutazione dell’appostamento in bilancio ad esso relativo, assolutamente non corrispondente – se non, al più, per una quota decisamente inferiore – all’effettivo valore economico di esso.
Ipervalutazione che ha senza dubbio avuto un effetto di portare avanti nel tempo il conclamarsi dello stato di decozione della fallita, con evidente e conseguente aumento del rischio di diminuzione o perdita delle garanzie per i creditori della società.
Pertanto, se deve rimarcarsi che la censura mira surrettiziamente a sollecitare una lettura alternativa e soggettivamente orientata dei fatti, comunque deve evidenziarsi come la ricorrente abbia sostanzialmente travisato il senso della linea argomentativa sviluppata dalla sentenza impugnata, rivelando nuovamente un inaccettabile approccio “selettivo” al compendio probatorio, limitato ai soli dati favorevoli alla propria prospettazione, approccio che ha costituito il fu rouge con cui si è tessuto l’intero ricorso.
4. Il ricorso di A.C.A., come si è gi anticipato, si sovrappone nelle ragioni difensive addotte a quello della coimputata poc’anzi esaminato, nei motivi dal terzo (per una parte di esso, esclusa l’eccezione sull’estensione dell’imputazione, poiché la ricorrente ha ricoperto la carica di sindaco per un tempo maggiore rispetto a M.P.) al sesto.
La coincidenza anche grafica e testuale delle argomentazioni di censura impongono, pertanto, di rinviare, per l’analisi delle stesse, a quanto sinora già esposto con riferimento alla coimputata P. ed a concludere, anche nei riguardi della coimputata A., per il rigetto del ricorso complessivamente proposto.
5. Nonostante l’inammissibilità del ricorso proposto dalle imputate, come si è anticipato, il provvedimento impugnato deve essere annullato d’ufficio nei loro confronti quanto alle pene accessorie, coerentemente a quanto stabilito dalla sentenza della Corte costituzionale n. 222 del 5 dicembre 2018, che ha dichiarato l’incostituzionalità della durata fissa delle pene accessorie dell’inabilitazione all’esercizio di un’impresa commerciale e dell’incapacità ad esercitare uffici direttivi presso qualsiasi impresa, prevista ex lege in dieci anni dall’ultimo comma dell’art. 216 I. fall. in relazione alle ipotesi di condanna relativa ai reati di bancarotta fraudolenta ed ha rimodulato, con la suddetta sentenza manipolativa sostitutiva, la formula normativa con il disposto “fino a dieci anni”.
Il Collegio ritiene che debba essere rilevata sia pur d’ufficio l’illegalità della pena, anche di quella accessoria, inflitta sulla base di un dettato normativo divenuto incostituzionale pur in caso di inammissibilità del ricorso, tranne che nell’ipotesi di ricorso tardivo (Sez. U, n. 33040 del 26/2/2015, Jazouli, Rv. 264207) ed è certamente illegale la pena che sia stata determinata sulla base di limiti edittali dichiarati incostituzionali (Sez. U, n. 33040 del 26/2/2015, 3azouli, Rv. 264205).
L’annullamento deve essere operato con rinvio, spettando al giudice di merito la valutazione dei parametri fattuali ai quali ancorare la determinazione della misura della sanzione accessoria, commisurandola ai criteri indicati dall’art. 133 cod. pen., in ossequio alle indicazioni delle Sezioni Unite che, con la sentenza Sez. U, n. 28910 del 28/2/2019, Suraci, proprio in relazione al caso delle pene accessorie decennali previste per i reati di bancarotta fraudolenta dichiarate incostituzionali dalla sentenza n. 222 del 2018 Corte cost., hanno così disposto, risolvendo la questione del se la rimodulazione conseguente alla pronuncia di incostituzionalità dovesse comportare la commisurazione delle pene accessorie fisse illegali già disposte alla pena principale applicata, ai sensi dell’art. 37 cod. pen., ovvero la rideterminazione dovesse essere operata dal giudice, nell’ambito dei limiti edittali risultanti dalla nuova formulazione, in base ai criteri di cui all’art. 133 cod. pen.
In generale, infatti, con un principio che travalica la materia dei soli reati fallimentari, le Sezioni Unite hanno stabilito che la durata delle pene accessorie per le quali la legge stabilisce, in misura non fissa, un limite di durata minimo ed uno massimo, ovvero uno soltanto di essi, deve essere determinata in concreto dal giudice in base ai criteri di cui all’art. 133 cod. pen. e non rapportata, invece, alla durata della pena principale inflitta ex art. 37 cod. pen.
Del resto, la stessa Corte costituzionale con la sentenza n. 222 del 2018 aveva tracciato il solco per un’interpretazione che conducesse all’applicazione dei criteri previsti dall’art. 133 cod. pen. per la determinazione della misura oramai non più fissa delle pene accessorie della bancarotta fraudolenta.
P.Q.M.
Annulla la sentenza impugnata limitatamente alle pene accessorie fallimentari con rinvio per nuovo esame ad altra Sezione della Corte d’Appello di Torino.
Rigetta i ricorsi nel resto.
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