CORTE DI CASSAZIONE, sezione penale, sentenza n. 11922 depositata il 10 aprile 2020
Fallimento ed altre procedure concorsuali – Reati di bancarotta fraudolenta – Condanna – Imputazione – Amministratore unico per il periodo successivo alle dimissioni dalla carica – Illegittimità
Ritenuto in fatto
1. Con sentenza deliberata il 06/04/2018, la Corte di appello di Milano ha confermato la sentenza del 09/04/2014 con la quale il Tribunale di Milano – assolti gli imputati da ulteriori imputazioni – aveva dichiarato E.A., T.C. e S.C. responsabili – il primo quale amministratore unico fino al 26/01/2009 e successivamente amministratore di fatto di T. s.r.I., dichiarata fallita il 21/07/2009; la seconda quale procuratrice e concorrente con il marito A.; il terzo quale amministratore unico dal 26/01/2009 – dei seguenti reati fallimentari:
– solo A.: causazione del fallimento attraverso l’utilizzazione di fatture soggettivamente false emesse da società fittizie e interposte fraudolentemente tra T. s.r.l. e fornitori esteri di materiale informatico, così dolosamente determinando, a seguito di verifica della Guardia di Finanza che accertava un ingente debito fiscale, l’insolvenza della società, nel cui stato passivo si insinuavano creditori per circa 11 milioni di euro, di cui circa 9.788.000 euro in forza di ruoli fiscali già esecutivi (capo 1); bancarotta fraudolenta per distrazione di una barca ricevuta in leasing (capo 3);
– A. e C.: bancarotta fraudolenta per distrazione di una somma di 48 mila euro erogata dalla fallita in favore della seconda (capo 5);
– A. e C.: bancarotta fraudolenta documentale, per aver occultato i libri e le scritture contabili attraverso una falsa denuncia di furto (capo 6).
A. veniva condannato, con le circostanze aggravanti della pluralità dei fatti di bancarotta e del danno di rilevante gravità, alla pena di anni 5 di reclusione; C. alla pena di anni 3 di reclusione; C., con la circostanza aggravante del danno di rilevante gravità, alla pena di anni 3 e mesi 6 di reclusione; ad A., inoltre, erano irrogate le pene accessorie di cui all’ultimo comma dell’art. 216 l. fall.
2. Avverso l’indicata sentenza della Corte di appello di Milano ha proposto ricorso per cassazione E.A., attraverso il difensore Avvocato S.M.B., articolando tre motivi di seguito enunciati nei limiti di cui all’art. 173, comma 1, disp. att. cod. proc. pen.
2.1. Il primo motivo denuncia vizi di motivazione e violazione degli artt. 216, 219, 223 l. fall., dell’art. 2639 cod. civ., degli artt. 40, 42 e 44 cod. pen., nonché dell’art. 27 Cost. La decisione dei giudici di merito si fonda sulla duplice convinzione che il dissesto sia stato causato da una condotta illecita in frode del fisco e che A. abbia continuato a gestire la società anche dopo le sue dimissioni del dicembre del 2008 e fino al fallimento del luglio del 2009, ma, quanto alla prima affermazione, manca la prova del nesso eziologico tra l’asserita condotta illecito e l’evento (o la condizione di punibilità), mentre, con riferimento alla seconda, non sussistono indici sintomatici della gestione di fatto e sono stati trascurati il verbale di passaggio di consegne al nuovo amministratore del 18/12/2018 e le plurime dichiarazioni del curatore che escludono elementi circa la gestione di fatto del ricorrente.
2.1.1. In ordine ai capi 3 e 6, si tratta di fatti successivi al dicembre del 2008, laddove non sussistono prove circa la gestione di fatto della società da parte del ricorrente dopo le sue dimissioni: il curatore P. ha escluso tale gestione di fatto, mentre l’asserito beneficio in favore di A. non costituisce un indizio, ma solo un’opinione, tanto più che, essendo uscito da T., il ricorrente non ha conseguito alcun beneficio. Quanto al coinvolgimento in N.G.E., che poi acquisì T., la documentazione camerale esclude qualsiasi coinvolgimento di A. e la stessa sentenza impugnata non indica alcun elemento dal quale sia possibile desumere detto coinvolgimento, che comunque non proverebbe alcun atto gestorio nella fallita, escluso anche da varie dichiarazioni – anche dibattimentali – del curatore. Che la C. fosse procuratrice di T. fino al maggio 2009 è un dato superato fin dal primo grado, tanto è vero che la coimputata è stata assolta da varie imputazioni perché non vi era prova di alcuna sua attività in seno alla fallita, tanto più che nel maggio del 2009 la procura venne anche formalmente revocata e, comunque, aveva perso efficacia fin dal 1984 con il decesso dell’amministratore e con la mancata rinnovazione della procura da parte del subentrante.
In ogni caso, la sentenza di appello non indica alcun atto o comportamento posto in essere da A. dopo la cessazione dalla carica, mentre la sentenza di primo grado aveva fatto riferimento ad un bonifico in favore di D.T. Italia s.r.I., che i motivi di appello avevano indicato come insussistente alla luce delle dichiarazioni dello stesso curatore. E’ invece un dato documentale inconfutabile il verbale con data certa di consegna da A. a V.P. il 18/12/2008 dell’intera documentazione contabile, delle cessioni di credito, dei contratti di leasing, dell’inventario di magazzino, dei documenti e delle chiavi dell’imbarcazione: il che esclude la riferibilità al ricorrente della bancarotta per distrazione della barca di cui al capo 3).
2.1.2. Per tale capo non sussiste alcun elemento dimostrativo a sostegno della condanna, fondata su ricostruzioni e collegamenti induttivi del tutto insufficienti, tanto più che già nell’atto di appello l’imputato aveva documentato l’avvenuto pagamento fino a dicembre del 2008 di tutti i canoni e che nel febbraio del 2009 – quando A. non era più amministratore della fallita – la barca passò a D.I. s.r.l. attraverso contatti che la stessa società dichiara di aver avuto con P. La Corte di appello non ha risposto al motivo di gravame che evidenziava come A. fosse stato condannato in primo grado non per la distrazione, ma per l’acquisto della barca.
2.1.3. Quanto al capo 6), le argomentazioni della Corte di appello presuppongono che A. sia rimasto amministratore di fatto, il che è stato smentito dal processo, e la simulazione della denuncia di furto da parte di P. (e, pertanto, comunque, non attribuibile al ricorrente), sostenendo al riguardo che la documentazione non si trovava nella sede legale, ma in magazzino e che il furto riguardò solo la contabilità: il procedimento relativo al furto si è concluso con un’archiviazione, laddove la documentazione si trovava in magazzino in attesa di essere spostata nei nuovi locali con il resto della merce, come dedotto con i motivi di appello, e il furto riguardò tutto ciò che si trovava nel magazzino.
La Corte di appello ha inoltre trascurato che nel 2009 l’amministratore di diritto C. riferì al curatore di avere lui la documentazione, peraltro solo in una conversazione telefonica con il curatore da questi riferita. I dati documentali relativi al verbale di consegna del 18/12/2018 e la denuncia di furto del 17/03/2009 non risultano smentiti.
2.1.4. In ordine all’imputazione sub 5), la stessa è provata sulla scorta di una istanza di ammissione al passivo di una banca di credito cooperativo – di cui non è indicato neppure il nome – sulla quale non fu svolto alcun accertamento, non essendovi traccia del fatto che la banca pagò effettivamente la coimputata C., moglie del ricorrente, e non comprendendosi per quale motivo e in virtù di quali documenti quell’istanza di ammissione al passivo fu fatta.
2.1.5. Circa l’imputazione sub 1), la Corte di appello ha omesso di rispondere ai motivi di appello, sostenendo, contrariamente al vero, che A. non contestò le pretese erariali (relative a fatture ritenute soggettivamente inesistenti, ma oggettivamente esistenti), laddove fu il curatore a non riassumere i giudizi di opposizione avverso due avvisi di accertamento e a non proporre opposizione avverso altri avvisi. Come dimostrato dal consulente della difesa, con l’accoglimento dei ricorsi il carico fiscale si sarebbe ridotto di oltre l’84%, il che fa venire in rilievo il problema del dolo, ossia la rappresentazione da parte dell’imputato che tale carico fiscale avrebbe determinato uno stato di insolvenza sette anni dopo: la Corte di appello non ha chiarito se, abbattuto, alla luce della giurisprudenza di legittimità, il debito fiscale nei termini indicati dal consulente e sostanzialmente recepiti dal curatore, l’impresa sarebbe comunque fallita e se, ai fini del fallimento, ad A. può ascriversi un debito quantitativamente circoscritto alla sola imposta indiretta, tanto più che è stato sottovalutato che la vicenda delle cd. frodi carosello era funzionale a produrre benefici all’impresa. La sentenza impugnata, inoltre, non ha considerato che A. non aveva alcun motivo di occultare documenti che sapeva esser stati esaminati e fotocopiati dalla Guardia di finanza durante i controlli, non ha riconosciuto il difetto di motivazione della sentenza di primo grado lì dove si limita ad indicare quale elemento dimostrativo del reato la condanna di A. per i reati tributari e ha omesso di valorizzare la circostanza che ragionevolmente l’imputato poteva al massimo rappresentarsi un carico fiscale di un milione di euro, certo sostenibile dalla società, soprattutto nel 2004.
2.2. Il secondo motivo denuncia vizi di motivazione, richiamando le deduzioni proposte con il primo motivo. In particolare, la relazione del curatore è valorizzata quale prova a carico anche in presenza di prove documentali di segno contrario, mentre viene superata da mere ricostruzioni induttive quando offre elementi a discarico. Errata è la valutazione della consulenza della difesa, redatta sulla base degli stessi elementi posti a base della relazione del curatore.
2.3. Il terzo motivo denuncia erronea valutazione dei criteri di determinazione della pena. La determinazione dell’esatta esposizione debitoria verso il fisco non è irrilevante, essendo stata posta a base della ritenuta aggravante del danno di rilevante gravità, né è condivisibile il diniego dell’applicazione delle circostanze attenuanti generiche, posto che il nucleo del presente processo è lo stesso per il quale A. è stato condannato per reati tributari.
3. Avverso la medesima sentenza della Corte di appello di Milano ha proposto ricorso per cassazione T.C., attraverso il difensore Avvocato S.M.B., articolando tre motivi di seguito enunciati nei limiti di cui all’art. 173, comma 1, disp. att. cod. proc. pen.
3.1. Il primo motivo denuncia inosservanza degli artt. 216, 219 e 223 l. fall.e vizi di motivazione. Già la sentenza di primo grado ha accertato che la ricorrente non risulta aver svolto alcuna attività a livello gestionale o decisorio, sicché è pacifico che ella non mai fatto uso della procura. Non sussiste la bancarotta preferenziale, mancando la valutazione del credito per cui l’imputata si è pagata e dei crediti rispetto ai quali questo sia posto in indebita posizione preferenziale, né quella distrattiva dell’extraneus, non essendoci prova della consapevolezza del depauperamento del patrimonio sociale. Peraltro, non sussiste il pagamento di 48 mila euro, ritenuto dai giudici di merito in quanto semplicemente riferito dal curatore come oggetto di istanza di ammissione al passivo, ma in nessun modo documentato.
3.2. Il secondo motivo denuncia vizi di motivazione. La Corte di appello, oltre a richiamare un pagamento risalente al 2004, che, tuttavia, venne eseguito dall’imputata in favore di T. e non viceversa, ha omesso di rispondere ai motivi di appello circa l’insussistenza del pagamento, l’errata qualificazione della ricorrente come procuratrice della società e la sua errata indicazione come “gerente”, l’affermazione della sentenza di primo grado in ordine all’irrilevanza della legittimità della dazione, invece essenziale per distinguere tra bancarotta per distrazione e bancarotta preferenziale.
3.3. Il terzo motivo denuncia omessa motivazione sui criteri per la determinazione della pena.
4. Con atto depositato il 13/06/2019 dagli Avvocati F.B. e S.M.B., difensori dei ricorrenti A. e C., si articola un motivo aggiunto relativo al capo 5), deducendo che gli assegni richiamati dal teste C. indicati nelle sentenze di merito erano stati emessi da conti correnti dei congiunti della ricorrente C. e da questa girati alla società.
5. Avverso la medesima sentenza della Corte di appello di Milano ha proposto ricorso per cassazione S.C., attraverso il difensore Avvocato M.T., articolando due motivi di seguito enunciati nei limiti di cui all’art. 173, comma 1, disp. att. cod. proc. pen.
5.1. Il primo motivo denuncia vizi di motivazione. La sentenza impugnata non ha risposto al motivo di appello relativo alla mancanza di prove in ordine al fatto che il ricorrente si fosse prestato a svolgere il ruolo di amministratore apparente, tanto più che la sentenza di primo grado lo ha assolto da tutte le imputazioni relative a fatti anteriori alla sua investitura formale quale amministratore unico della fallita.
5.2. Il secondo motivo denuncia vizi di motivazione in ordine alla sussistenza dell’elemento materiale e di quello soggettivo del reato di bancarotta documentale. La motivazione della sentenza impugnata è contraddittoria, perché afferma che, nella conversazione telefonica, l’imputato si sarebbe impegnato a consegnare la documentazione contabile della società, laddove in nessun passo della testimonianza risulta un siffatto impegno. Illogicamente si sostiene che la documentazione contabile della fallita era stata già distrutta o occultata alla data della denuncia di furto del 17/03/2009 da parte del precedente amministratore P., mentre C. fu nominato amministratore unico solo il 14/04/2009, ossia un mese dopo la denuncia, sicché non avrebbe potuto distruggere od occultare la documentazione.
Considerato in diritto
1. I ricorsi devono essere accolti, nei termini di seguito indicati.
2. Muovendo dall’imputazione sub 1), ex art. 223, secondo comma, n. 2, l. fall. collegata alle “frodi carosello” alle quali prese parte la fallita, va rilevato che del reato risponde il solo A. nella qualità di amministratore unico della fallita, sicché non vengono qui in rilievo le doglianze articolate dal ricorrente in ordine al ruolo gestorio di fatto attribuitogli con riferimento alla fase successiva alla dismissione da parte sua della carica amministrativa.
2.1. La Corte distrettuale ha rilevato che risultano inconfutabili le plurime prove dimostrative della sussistenza di una vasta “frode carosello”, in cui la fallita operava al fine di acquistare, a mezzo di società “cartiere” di tale L. fittiziamente interposte, beni all’estero in regime di esenzione I.V.A., fruendo di illeciti benefici economici di natura fiscale e commerciale. Prova decisiva al riguardo è rappresentata, nel percorso argomentativo del giudice di appello, dai pagamenti effettuati dalla fallita alle società “cartiera” e dall’anomala e rapidissima sequenza di girate con le quali talora avvenivano i pagamenti, incomprensibili se non alla luce della frode fiscale, oltre che dall’utilizzo di fatture per operazioni soggettivamente inesistenti emesse da società interposte del tutto fittizie. In tal modo, T. s.r.l. utilizzava le fatture emesse dalle “cartiere”, alle quali era applicata VIVA, così assumendo un indebito diritto alla detrazione degli importi che il soggetto fittiziamente interposto non versava: T. accumulò così un ingente credito IVA che, essendo fittizio, corrispondeva all’accumulo di un corrispondente debito verso l’erario effettivo e corrispondente a circa 8 milioni di imposte evase, per operazioni che, come risulta dalla relazione del curatore, si protrassero fino a tutto il 2006, a fronte della permanenza di A. nella carica fino al dicembre del 2008, laddove l’insolvenza della società era conclamata fin dal 2007.
2.2. La configurabilità della fattispecie di cui all’art. 223, secondo comma, n. 2, l. fall. è stata già affermata dalla giurisprudenza di questa Corte con riferimento a società che, come nel caso in esame, avevano emesso fatture nei confronti di società c.d. “cartiere” nel quadro di una vicenda comunemente definita “truffa carosello”, osservandosi che poiché «il meccanismo della emissione di fatture per operazioni intracomunitarie inesistenti» – ma il rilievo è valido anche con riguardo a fatture emesse per operazioni soggettivamente inesistenti – «risponde ad una precisa finalità di violazione delle norme tributarie nazionali (nella prospettiva della generazione del credito di IVA, invece non spettante, verso lo Stato) è altrettanto logico ritenere che il perpetuarsi della operazione in frode all’Erario esponga (nel prevedibile caso di accertamento dei reati, nella specie concretizzatosi) le società protagoniste, a un dissesto di proporzioni tanto più rilevanti quanto più elevato siano il fatturato interessato dalle frodi e la percentuale di incidenza dello stesso sull’intero movimento di affari della società» (Sez. 5, n. 41055 del 04/07/2014, C., in motivazione). In tale prospettiva, la giurisprudenza di legittimità ha chiarito che in ipotesi di fallimento causato da operazioni dolose non determinanti – come nel caso in esame – un immediato depauperamento della società, la condotta di reato è configurabile quando la realizzazione di tali operazioni si accompagni, sotto il profilo dell’elemento soggettivo, alla prevedibilità del dissesto come effetto della condotta antidoverosa: in casi come quello in esame in cui la fallita si avvale di “frodi carosello”, «le operazioni illecite, in quanto tali, sono destinate non già a diminuire, ma ad incrementare (sia pure contra ius) il patrimonio sociale, sicché il fallimento è riconducibile ad esse poiché – sul piano degli effetti di medio periodo e in ragione della crescita esponenziale del debito (…), una volta scoperte, determinano ineludibilmente l’applicazione delle relative sanzioni. Nei casi indicati, dunque, le specifiche connotazioni delle operazioni dolose offrono fondamento al giudizio di prevedibilità dell’emersione delle operazioni stesse e, di conseguenza, dell’attivazione delle iniziative risarcitorie e/o sanzionatorie destinate a sfociare nel depauperamento e, quindi, nel dissesto della società» (Sez. 5, n. 45672 del 01/10/2015, Lubrina, Rv. 265510; conf. Sez. 5, n. 47621 del 25/09/2014, Prandini, Rv. 261684).
2.3. Le valutazioni di cui dà conto la motivazione della sentenza impugnata sono in linea con le indicazioni rinvenibili nella citata giurisprudenza di legittimità, ma le censure proposte dall’appellante non hanno trovato puntuale risposta nelle argomentazioni del giudice di appello.
L’imputato, infatti, non contesta – e non contestava con il gravame – tout court la partecipazione della fallita alle “frodi carosello” (partecipazione per la quale A., relativamente agli anni di imposta 2002 – 2004, è stato condannato per i reati fiscali con sentenza irrevocabile), ma l’importo complessivo del debito tributario e, in relazione ad esso, la sussistenza degli elementi costitutivi del reato (segnatamente, nesso di causalità ed elemento soggettivo); inoltre, il ricorrente censura il protrarsi delle “frodi carosello” nel periodo successivo al 2004, ossia nel biennio 2005 – 2006, rispetto al quale, si sostiene, unico elemento di prova, non dirimente, sarebbe rappresentato dalle richieste erariali, non giudizialmente C.state dal curatore.
Ora, quanto alla partecipazione della fallita alle “frodi carosello” e al suo protrarsi fino a tutto il 2006, i giudici di merito hanno valorizzato, quale prova definita «concludente», i «pagamenti effettuati dalla T. alle “cartiere”», oltre all’«anomala e rapidissima sequenza di girate» caratterizzante talora i pagamenti: elementi, questi, non sottoposti a disamina critica da parte del ricorso (in parte qua, dunque, infondato), che, invece, si concentra, come si è anticipato, sulle richieste erariali. Sul punto, la Corte distrettuale ha rilevato che, a causa della mancanza totale della documentazione contabile e fiscale della fallita, la curatela non aveva alcuna possibilità di contestare gli accertamenti fiscali, il cui ammontare, dunque, si è tradotto nell’ingente debito tributario indicato; rilievo, questo della mancanza totale della documentazione, valorizzato dal giudice di appello anche per il giudizio di inattendibilità delle conclusioni del consulente di parte. La doglianza proposta con il gravame, tuttavia, riguardava l’entità della pretesa tributaria ed era ancorata, principalmente, alla deduzione che, in presenza di operazioni solo soggettivamente inesistenti, era dovuta esclusivamente l’IVA, deduzione correlata alla consulenza tecnica (nonché a dichiarazioni dello stesso curatore circa le ragioni di mera opportunità economica che lo indussero a non riassumere i giudizi di opposizione avviati dalla società prima del fallimento) e a una circolare della stessa Agenzia delle Entrate. Rispetto a siffatte deduzioni, il riferimento del giudice di appello alla mancanza di documentazione contabile non risulta dirimente, il che rende ragione del vizio motivazionale destinato a riflettersi sul giudizio relativo alla sussistenza degli elementi costitutivi della fattispecie, oltre che su quello relativo alla circostanza aggravante del danno patrimoniale di rilevante gravità (essendo, dunque, errato anche il rilievo del giudice di primo grado circa l’irrilevanza dell’individuazione dell’ammontare del debito fiscale): ne consegue che, in parte qua, la sentenza impugnata rivela, in buona sostanza, un’omessa motivazione.
3. In ordine al capo 5), ascritto ad A. quale amministratore di diritto della fallita e a C., mette conto osservare che, a fronte della sentenza di primo grado (che, a sostegno dell’affermazione di responsabilità degli imputati per il fatto distrattivo in esame, aveva fatto generico riferimento a quanto accertato dal curatore esaminando la documentazione allegata all’istanza di ammissione al passivo da parte di una banca), l’atto di appello proposto da A. censurava, con riferimento all’imputazione in esame, la carenza di prova sul fatto, la cui sussistenza era stata ritenuta dal giudice di primo grado «sulla scorta di una istanza di ammissione al passivo da parte di un banco di credito cooperativo» e in assenza di qualsiasi documentazione circa l’effettività della dazione della somma di 48 mila euro in favore di C.. Censure di analogo tenore erano articolate nel gravame in favore della coimputata, che, tra l’altro, rilevava il mancato esperimento dell’azione revocatoria da parte della curatela nei confronti della stessa C.
La Corte di appello ha sostanzialmente eluso la questione posta dagli appellanti, limitandosi a richiamare i contenuti della relazione del curatore e della sua deposizione dibattimentale, senza, tuttavia, indicare gli specifici elementi di prova dimostrativi del fatto. Né in senso contrario può argomentarsi sulla base del riferimento della sentenza di primo grado all’accertamento del curatore, risultando tale riferimento, come anticipato, del tutto generico e, peraltro, svincolato da qualsiasi indicazione in ordine finanche all’esito dell’istanza di ammissione al passivo. Ne consegue che, anche in parte qua, la sentenza impugnata deve essere annullata.
4. Passando alle censure articolate da A. in ordine al ruolo di amministratore di fatto di A. stesso dopo le dimissioni, l’appello dell’imputato censurava la sentenza di primo grado sotto plurimi profili, richiamando, tra l’altro, la relazione e le dichiarazioni del curatore (che escludevano lo svolgimento di attività gestorie da parte di A. dopo la dismissione della carica amministrativa in seno alla T. s.r.l.), il ruolo di V.P. (amministratore della fallita dopo A. e prima di C.) nei rapporti con N.D., il documento di consegna della documentazione contabile 1998 – 2008 da A. a V.P.
A fronte delle doglianze articolate dall’appello, la sentenza impugnata conferma la qualificazione soggettiva di A. sulla base di tre argomenti. In primo luogo, si valorizza la circostanza che l’occultamento della contabilità della società aveva quale unico interessato A., in quanto finalizzato all’occultamento delle attività fraudolente in danno del fisco di cui egli solo era responsabile: in tal modo, viene instaurata una correlazione tra il fatto di cui al capo 1) e la bancarotta documentale di cui al capo 6), motivata, come si vedrà in sede di esame di quest’ultima imputazione, sulla base della ritenuta falsità della denuncia di furto; in tale prospettiva, il giudice di appello ritiene che anche la predisposizione del documento di consegna della contabilità sia da imputare alla condotta elusiva di A.. In secondo luogo, prova diretta del perdurare dell’ingerenza dell’imputato nell’attività di T. s.r.l. è individuata dal giudice di appello nella vicenda concernente N.G.E., società, la cui proprietà era riferibile ad A. e di cui S. C. era divenuto amministratore di diritto dal maggio 2008, che acquisì l’intero capitale sociale di T. nel maggio 2009. In terzo luogo, la sentenza impugnata richiama la qualifica di procuratrice di T. rivestita da C., moglie di A., fino al 26 maggio 2009.
Il primo argomento si fonda sull’indica correlazione tra i capi 1) e 6), sicché l’annullamento della sentenza impugnata quanto al primo di essi inficia la tenuta logico-motivazionale dell’argomento stesso. Quanto al secondo, coglie nel segno la censura del ricorso in ordine al carattere sostanzialmente apodittico dell’affermazione della Corte di appello in ordine alla “riferibilità” della proprietà di N.G.E. ad A., affermazione non ancorata ad alcun dato probatorio; al riguardo, peraltro, il ricorrente ha richiamato – attraverso specifica deduzione – alcuni atti probatori (la testimonianza resa dal curatore all’udienza del 29/01/2014; la relazione dello stesso curatore del 15/12/2009) che, nella parte indicata, non offrono alcun sostegno all’affermazione del giudice di appello; d’altra parte, gli imputati erano stati assolti in primo grado, perché il fatto non sussiste, dall’imputazione sub 2) relativa alla distrazione di merci in favore di N.G.E.: statuizione, questa, non presa in considerazione del giudice di appello nel passaggio motivazionale in esame. Quanto al ruolo di procuratrice di C., l’appello, a proposito del capo 5), aveva richiamato la memoria difensiva in cui tale qualità era stata contestata: sul punto, la Corte distrettuale non dà conto dei rilievi difensivi e delle ragioni idonee a superarli. Le considerazioni che precedono, unite al rilievo che la sentenza impugnata non si confronta con censure dell’appellante quali quella relativa ai rapporti della fallita con N.D., impongono anche in parte qua l’annullamento della sentenza impugnata.
5. In ordine al capo 3), ascritto ad A. L’accoglimento delle censure relative al ruolo gestorio attribuito ad A. con riferimento al periodo successivo alle sue dimissioni dalla carica di amministratore di T. impone l’annullamento della sentenza impugnata anche nella parte relativa all’imputazione sub 3), in relazione alla quale la motivazione del giudice di appello è largamente incentrata proprio sulla qualifica di fatto ascritta al ricorrente. D’altra parte, come si è anticipato, la sentenza impugnata non ha esaminato la censura proposta nell’atto di appello relativa ai rapporti tra la società indicata come cessionaria della barca e l’amministratore dell’epoca V.P.: anche sotto questo profilo, la sentenza impugnata deve essere annullata relativamente all’imputazione sub 3).
6. In ordine al capo 6), ascritto ad A. quale amministratore di fatto e a C. quale amministratore di diritto, la Corte di appello ha argomentato in ordine alla ritenuta falsità della denuncia di furto presentata il 17/03/2009 dall’allora amministratore V.P. e relativa all’intera documentazione contabile, valorizzando, essenzialmente, l’inverosimiglianza della sottrazione degli scatoloni contenenti la documentazione, ossia oggetti, come puntualmente rilevato già dalla sentenza di primo grado, del tutto privi di valore economico. Si tratta di valutazione immune da vizi logici e non inficiata dalle deduzioni dei ricorrenti: in particolare, l’intervenuta archiviazione del procedimento contro ignoti per furto scaturito dalla denuncia non ha alcuna valenza preclusiva in ordine all’accertamento svolto dal giudice penale con riguardo alla diversa imputazione di bancarotta documentale.
Sono invece fondate le censure relative alla posizione dei singoli ricorrenti. Quanto ad A., l’accoglimento delle censure relative al ruolo gestorio a lui attribuito con riferimento al periodo successivo alle sue dimissioni dalla carica di amministratore di T. impone l’annullamento della sentenza impugnata anche nella parte relativa all’imputazione sub 6)
Quanto a C., la sentenza impugnata non risolve in termini logicamente coerenti la questione dell’assunzione da parte dell’imputato della carica amministrativa in epoca successiva alla denuncia, presentata dal suo predecessore, alla quale è associata la sparizione della documentazione: invero, il giudice di appello, per un verso, si limita a richiamare i doveri di custodia gravanti sull’amministratore di diritto, mentre, per altro verso, sostiene che comunque l’imputato «mai si occupò minimamente di tenere scritture e documentazione di attività della T. anche dopo detta sparizione e nei vari mesi del suo perdurare in carica», fatto, quest’ultimo, che integrerebbe la diversa fattispecie di bancarotta semplice documentale.
7. Pertanto, assorbite le ulteriori censure, la sentenza impugnata deve essere annullata con rinvio per nuovo esame ad altra sezione della Corte di appello di Milano, che conserva nel merito piena autonomia di giudizio nella ricostruzione dei dati di fatto e nella valutazione di essi (Sez. 1, n. 803 del 10/02/1998, Scuotto, Rv. 210016), potendo procedere ad un nuovo esame del compendio probatorio con il solo limite di non ripetere i vizi motivazionali del provvedimento annullato (Sez. 3, n. 7882 del 10/01/2012, Montali, Rv. 252333).
P.Q.M.
Annulla la sentenza impugnata con rinvio per nuovo esame ad altra sezione della Corte di appello di Milano.