Corte di Cassazione, sezione penale, sentenza n. 11956 depositata il 15 marzo 2018
RITENUTO IN FATTO
1. Con il provvedimento impugnato, la Corte d’Appello di Milano, all’udienza del 27 ottobre 2016, ha confermato la sentenza del GIP del Tribunale di Milano, emessa con rito abbreviato in data 4 giugno 2013, con la quale gli imputati LM e GR sono stati condannati alla pena di tre anni di reclusione per il reato di bancarotta fraudolenta ai sensi degli artt. 110 cod. pen., 223, comma 2, n. 2, e 219, comma 1, l. fall., per aver cagionato, attraverso operazioni dolose, il fallimento della società E. s.r.l. della quale erano amministratori di fatto, fallimento dichiarato con sentenza del 28.4.2008. I fatti sono contestati in concorso tra gli imputati e l’amministratore unico della società fallita, Marina Siddi (giudicata separatamente), ed attengono alla formazione di false fatture per il valore di oltre sei milioni di euro, che sono state annotate nelle scritture contabili, al fine di abbattere l’imponibile e creare un credito IVA nelle relative dichiarazioni fiscali.
2. Avverso la sentenza della Corte d’Appello propone ricorso il difensore dei due imputati, lamentando, con un primo motivo, violazione di legge, con riferimento al riconoscimento della sussistenza del dolo specifico di fattispecie, necessario ad integrare il reato, e difetto di motivazione sul punto.
Partendo dall’ipotesi accusatoria, secondo cui lo stato d’insolvenza della società sarebbe derivato dal mancato pagamento delle sanzioni tributarie inflitte in conseguenza dell’utilizzo di false fatture nell’ambito delle relative dichiarazioni dei redditi come elementi passivi fittizi, il ricorrente si duole dell’erronea applicazione dei principi che governano la verifica della condotta dolosa in tema di “bancarotta impropria”.
In sintesi, l’obiezione attiene al fatto che dalla formazione ed utilizzazione delle false fatture non si possa evincere il dolo specifico necessario ad integrare il reato di bancarotta impropria e che anzi, da tali condotte, si debba desumere una volontà opposta di salvaguardare l’assetto societario. Si rappresenta, infatti, che la Corte d’Appello ha considerato sussistente la condotta di bancarotta fraudolenta per effetto di operazioni dolose, in relazione alla quale è sufficiente l’atteggiamento psicologico del dolo eventuale, mentre la contestazione sembra riferirsi alla condotta prevista dalla prima parte dell’art. 223, comma 2, n. 2, l. fall. e cioè la causazione dolosa del fallimento, per la cui configurabilità si rende necessaria la prova del dolo specifico di voler provocare il fallimento della società amministrata. Si chiede, pertanto, l’annullamento della sentenza, quanto meno per procedere a nuova motivazione sul punto del dolo specifico, previa corretta qualificazione della condotta di reato.
2.1. Con il secondo motivo di ricorso si deduce il vizio di legge e di motivazione della sentenza impugnata, in relazione alla mancata concessione delle circostanze attenuanti generiche.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il ricorso cumulativo è infondato e deve essere, pertanto, rigettato.
2. Quanto al primo motivo, deve rammentarsi che l’ipotesi di bancarotta fraudolenta patrimoniale prevista dall’art. 223, comma 2, n. 2, l. fall. incrimina le condotte dell’amministratore (di diritto o di fatto) il quale abbia posto in essere comportamenti dolosi i quali – concretandosi in abuso o infedeltà nell’esercizio della carica ricoperta o in un atto intrinsecamente pericoloso per l’andamento economico finanziario della società – siano stati causa del fallimento (Sez. 5, n. 533 del 14/10/2016, dep. 2017, Zaccaria, Rv. 269019).
Secondo la giurisprudenza di legittimità (Sez. 5, n. 45672 del 1/10/2015, Lubrina, Rv. 265510), in tema di bancarotta ex art. 223, comma secondo, n. 2 l. fall., le operazioni dolose che hanno cagionato il fallimento devono comportare un depauperamento non giustificabile in termini di interesse per l’impresa, laddove la nozione di “operazione” postula una modalità di pregiudizio patrimoniale discendente non già direttamente dall’azione dannosa del soggetto attivo (distrazione, dissipazione, occultamento, distruzione), bensì da un fatto di maggiore complessità strutturale riscontrabile in qualsiasi iniziativa societaria implicante un procedimento o, comunque, una pluralità di atti coordinati all’esito divisato. La giurisprudenza di legittimità ha poi chiarito che le “operazioni dolose” rilevanti ai fini dell’integrazione della fattispecie in esame possono anche non determinare un’immediata diminuzione dell’attivo; si è detto, infatti, che le operazioni dolose di cui alla norma in esame possono consistere nel compimento di qualunque atto intrinsecamente pericoloso per la salute economica e finanziaria dell’impresa e, quindi, anche in una condotta omissiva produttiva di un depauperamento non giustificabile in termini di interesse per l’impresa (Sez. 5, n. 12426 del 29/11/2013 – dep. 17/03/2014, P.G. e p.c. in proc. Beretta e altri, Rv. 259997).
La configurabilità della fattispecie di fallimento cagionato da operazioni dolose è stata affermata, così, anche in un caso per molti aspetti sovrapponibile a quello oggetto di ricorso, con riferimento a società che avevano emesso fatture nei confronti di società c.d. “cartiere” nel quadro di una vicenda comunemente definita “truffa carosello”, osservandosi che poiché «il meccanismo della emissione di fatture per operazioni intracomunitarie inesistenti risponde ad una precisa finalità di violazione delle norme tributarie nazionali (nella prospettiva della generazione del credito di IVA, invece non spettante, verso lo Stato) è altrettanto logico ritenere che il perpetuarsi della operazione in frode all’Erario esponga (nel prevedibile caso di accertamento dei reati, nella specie concretizzatosi) le società protagoniste, a un dissesto di proporzioni tanto più rilevanti quanto più elevato siano il fatturato interessato dalle frodi e la percentuale di incidenza dello stesso sull’intero movimento di affari della società» (Sez. 5, n. 41055 del 04/07/2014, Crosta, in motivazione). In tale ipotesi, le operazioni illecite, in quanto tali, sono destinate non già a diminuire, ma ad incrementare (sia pure contra ius) il patrimonio sociale, sicché il fallimento è riconducibile ad esse poiché – sul piano degli effetti di medio periodo e in ragione della crescita esponenziale del debito (Sez. 5, n. 47621 del 25/09/2014 – dep. 18/11/2014, Prandini, Rv. 261684, in motivazione), una volta scoperte, determinano ineludibilmente – come accaduto anche nel caso degli odierni ricorrenti – l’applicazione delle relative sanzioni. Quanto all’elemento psicologico, il reato in esame si sostanzia, secondo la giurisprudenza dominante, in una «eccezionale ipotesi di fattispecie a sfondo preterintenzionale» in relazione alla quale «esaurisce l’onere probatorio dell’accusa la dimostrazione della consapevolezza e volontà della natura “dolosa” dell’azione, costitutiva dell'”operazione”, a cui segue il dissesto, in uno con l’astratta prevedibilità dell’evento scaturito per effetto dell’azione antidoverosa» (Sez. 5, n. 17690 del 18/02/2010, Cassa Di Risparmio Di Rieti S.p.a., Rv. 247313-4-5; Sez. 5, n. 45672 del 1/10/2015, Lubrina, Rv. 265510, in motivazione; di recente, sulla natura preterintenzionale del reato, vedi anche Sez. 5, n. 38728 del 3/4/2014, Rampino, Rv. 262207).
Sicchè, nell’ipotesi di fallimento causato da operazioni dolose non determinanti un immediato depauperamento della società, la condotta di reato è configurabile quando la realizzazione di tali operazioni si accompagni, sotto il profilo dell’elemento soggettivo, alla prevedibilità del dissesto come effetto della condotta antidoverosa (Sez. 5, n. 45672 del 1/10/2015, Lubrina, Rv. 265510). Le specifiche connotazioni delle operazioni dolose, poi, offrono fondamento al giudizio di prevedibilità dell’emersione delle operazioni stesse e, di conseguenza, dell’attivazione delle iniziative risarcitorie e/o sanzionatorie destinate a sfociare nel depauperamento e, quindi, nel dissesto della società: in forza di tale giudizio di prevedibilità, la natura preterintenzionale della fattispecie di fallimento cagionato da operazioni dolose rende ragione della riconducibilità di operazioni del genere nel paradigma punitivo di cui all’art. 223, secondo comma, n. 2, l. fall.
Si può concludere, pertanto, nel senso che le operazioni dolose integranti la fattispecie di cui all’art. 223, secondo comma, n. 2, l. fall. possono anche essere tali da non determinare un immediato depauperamento della società, qualora la realizzazione delle operazioni stesse si accompagni alla prevedibilità del dissesto come effetto della 02e, condotta antidoverosa, nel «prevedibile caso di accertamento dei reati» (Sez. 5, n. 41055 del 04/07/2014, Crosta, in motivazione). E difatti, con principio che deve essere ribadito in questa sede, si è condivisibilmente affermato che integra il delitto di causazione del fallimento per effetto di operazioni dolose, ai sensi dell’art. 223, comma secondo, n. 2, l. fall. il meccanismo di frode fiscale realizzato attraverso l’emissione di fatture per operazioni inesistenti e la costituzione di apposite società fittizie finalizzate ad ottenere liquidità con gli anticipi bancari e la detrazione dell’iva sulle merci acquistate e collocate sul mercato a prezzi concorrenziali la cui interruzione abbia provocato il tracollo finanziario e dunque il fallimento della società, potendo il reato fallimentare concorrere con quello tributario per diversità del bene tutelato, dell’elemento oggettivo e di quello soggettivo (Sez. 5, n. 40009 del 23/4/2014, Conti, Rv. 262212).
Trattandosi di reato preterintenzionale, il fallimento non deve necessariamente essere voluto quale conseguenza della condotta, sicchè non sussiste contrasto logico tra compimento di operazioni dolose (nella specie emissione di fatture per operazioni inesistenti), per effetto delle quali sia stato cagionato il fallimento e interesse alla società poi fallita, stante la diversità concettuale tra l’elemento psicologico delle predette operazioni e il rapporto causale con il fallimento stesso, ben potendo coesistere la mera consapevolezza di quest’ultimo quale possibile esito (anche) della propria condotta, e quindi l’assunzione del relativo rischio, con un soggettivo interesse ad esiti meno infausti. (Sez. 1, n. 3942 del 13/12/2007, dep. 2008, Muratori ed altro, Rv. 238367). Pertanto, il reato sussiste anche se la condotta incriminata sia stata posta in essere solo allo scopo di realizzare una frode fiscale, risolvendosi pur sempre quest’ultima in un profitto, certamente ingiustificato.
3. Anche nel caso oggi sottoposto al Collegio, così come nella sentenza richiamata da ultimo, i giudici di merito hanno correttamente evidenziato che oggetto dei fatti contestati al ricorrente è la circostanza di avere determinato il fallimento della società per effetto di operazioni dolose costituite dal meccanismo di frode fiscale, ricostruito poi oggettivamente e documentalmente dagli accertamenti fiscali.
Il reato di bancarotta impropria, contestato agli imputati, trova fondamento proprio nella diretta correlazione causale tra il meccanismo di frode fiscale (realizzato dagli imputati attraverso l’emissione di fatture per operazioni inesistenti e la successiva annotazione nelle scritture contabili) e lo stato di decozione fallimentare della società amministrata, conseguente all’accertamento degli illeciti fiscali ed alla loro contestazione. È evidente che nella nozione di operazioni dolose di cui all’articolo 223, n. 2 della legge fallimentare rientrano, pertanto, i fatti costituenti reato.
Nella fattispecie in esame, il reato di cui all’art. 223, comma 2, n. 2, seconda parte, l. fall. può dirsi integrato senza dubbio, essendo evidente che le operazioni dolose e illecite commesse dagli imputati quali amministratori della società fallita, consistite nell’emissione di false fatture per oltre sei milioni di euro, annotate nelle scritture contabili per ottenere l’abbattimento dell’imponibile e creare un credito IVA nelle relative dichiarazioni fiscali, abbiano sottoposto la società al rischio del tutto prevedibile di accertamenti fiscali, all’esito dei quali le sanzioni corrispondenti agli avvisi di accertamento, producendo debiti per oltre due milioni di euro, hanno determinato il dissesto e la successiva dichiarazione di fallimento.
La contestazione, contrariamente a quanto dedotto dal ricorrente, si riferisce esattamente al reato di bancarotta impropria da operazioni dolose, descrivendo ampiamente la condotta degli imputati ed il nesso con il fallimento. I giudici d’appello hanno anche adeguatamente valutato la sussistenza della prevedibilità del dissesto in seguito alla realizzazione di condotte fraudolente reiterate e di così importante entità. Anche perché deve ritenersi condivisibile il principio secondo cui, in tema di fallimento determinato da operazioni dolose, che si sostanzia in un’eccezionale ipotesi di fattispecie a sfondo preterintenzionale, l’onere probatorio dell’accusa si esaurisce nella dimostrazione della consapevolezza e volontà dell’amministratore della complessa azione arrecante pregiudizio patrimoniale nei suoi elementi naturalistici e nel suo contrasto con i propri doveri a fronte degli interessi della società, nonché dell’astratta prevedibilità dell’evento di dissesto quale effetto dell’azione antidoverosa, non essendo invece necessarie la rappresentazione e la volontà dell’evento fallimentare (Sez. 5, n. 38728 del 3/4/2014, Rampino, Rv. 262207; Sez. 5, n. 17690 del 18/2/2010, cit.).
4. Quanto al motivo attinente alla mancata concessione delle attenuanti generiche, anch’esso è infondato.
La Corte d’Appello, con motivazione chiaramente desumibile dall’intero percorso argomentativo, ha ritenuto il fatto di non banale entità, in ragione del passivo provocato e della complessiva condotta degli imputati, che hanno commesso sistematiche violazioni tributarie. Si è altresì messo in risalto che, ai fini della concessione delle attenuanti in parola, non sarebbe sufficiente la constatazione neppure dello stato di incensuratezza, eventualità che non corrisponde, peraltro, al caso di specie, in cui gli imputati hanno dei precedenti penali, sia pur distanti nel tempo dai fatti di reato per i quali è processo.
E tale valutazione sui precedenti penali, insieme alla loro “non eccessiva gravità”, è stata citata dalla Corte non già, come lascia intendere il ricorrente, per connotare in generale la condotta degli imputati, bensì per argomentare sul fatto che tali caratteri, se possono costituire ostacolo al ritenere la recidiva pur contestata, e che il primo giudice per tali ragioni ha escluso (con decisione che i giudici d’appello confermano), non possono tuttavia costituire il fondamento di un giudizio di riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche.
Ciò perché deve essere ribadito il principio secondo cui l’esistenza di precedenti penali specifici può rilevare ai fini del diniego della concessione delle circostanze attenuanti generiche e dei benefici di legge anche quando il giudice, sulla base di una valutazione complessiva del fatto oggetto del giudizio e della personalità dell’imputato, esclude che la reiterazione delle condotte denoti la presenza di uno spessore criminologico tale da giustificare l’applicazione della recidiva (Sez. 6, n. 38780 del 17/6/2014, Morabito, Rv. 260460).
Inoltre, deve essere ricordato come le determinazioni del giudice di merito in ordine alla concessione delle circostanze attenuanti generiche sono insindacabili in cassazione ove siano sorrette da motivazione esente da vizi logico-giuridici, sicchè in sede di legittimità può essere soltanto sindacato l’uso arbitrario di tale potere (Sez. 1, n. 617 del 25/10/1983, Arancio, Rv. 162284).
Mentre il mancato riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche può essere legittimamente motivato dal giudice con l’assenza di elementi o circostanze di segno positivo, a maggior ragione dopo la riforma dell’art. 62-bis cod. pen., disposta con il d.l. 23 maggio 2008, n. 92, convertito con modifiche nella legge 24 luglio 2008, n. 125, per effetto della quale, ai fini della concessione della diminuente, non è più sufficiente il solo stato di incensuratezza dell’imputato (Sez. 1, n. 39566 del 16/2/2017, Starace, Rv. 270986; Sez. 3, n. 44071 del 25/9/2014, Papini, Rv. 260610)
La motivazione della Corte d’Appello in merito al diniego delle attenuanti generiche non lascia adito a dubbi o a valutazioni di arbitrarietà, chiudendosi con un esplicito richiamo all’entità della gravità del fatto, in ragione dell’importo evaso e dell’assenza di segnali di ravvedimento, che utilizza per condividere anche il giudizio del g.i.p. sulla misura della pena base.
P. Q. M.
Rigetta i ricorsi e condanna ciascun ricorrente al pagamento delle spese processuali.
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